di Pasquale Pugliese
Sicilia 1967
Danio Dolci, nel 1967, racconta per una rivista americana la sua esperienza siciliana, iniziata nel 1952, in un articolo dal titolo “ciò che ho imparato” (sotto questo titolo Giuseppe Barone ha raccolto un’antologia di scritti dolciani, edita nel 2008 da MESOGEA). Dolci suddivide il suo racconto in fasi e, dopo aver brevemente delineato – per primo in Italia - i caratteri del “sistema mafioso-clientelare”, ne descrive le condizioni che lo rendono possibile:
“ - il basso livello economico di vasti masse, per cui la ricerca del pane o del posto di lavoro è
di tale urgenza che tutto il resto diviene loro secondario;
- il basso livello culturale-politico di vaste popolazioni: la ricerca del proprio interesse a una
distanza così ravvicinata per cui lo si esercita egoisticamente, e non con un minimo di prospettiva reale, verso l’interesse di tutti;
- l’insufficiente capacità cioè a una nuova vita di associazione, collaborazione: terreno fertile a ogni avventura autoritaria, a ogni tipo di fascismo, di monopolio, di oligopolio.
I sistemi clientelari e mafioso-clientelari sono perciò possibili nella misura in cui i singoli, isolati, non sanno, non sono in grado di farsi valere, si rassegnano a non agire e a non pesare secondo i propri veri interessi.
E’ evidente come sia dunque indispensabile, per valorizzare effettivamente ciascuno, mirare a costruire e a interrerale nuovi gruppi democratici aperti, e nel contempo superare, sciogliere i vecchi gruppi sclerotici: a ogni livello.”
Ecco dunque delineata, in pochi tratti, un’analisi dei bisogni di una terra e una proposta socio-educativa a cui lo stesso Dolci si impegnerà in maniera sempre più esplicita e consapevole, partendo dagli adulti per giungere ai bambini.
Calabria 2010
In Calabria, la ‘ndrangheta parte dai bambini:
E perché, chi te l’ha detto?
A scuola. Un mio compagno
Ah. E che t’ha detto?
Statti muta tu, ca io non ci parlo con i figli i’mpamu!
E’ questo l’incipit di un libro-affresco sulla Calabria di oggi. Si chiama ”Avamposto” ed è scritto dai due giovani giornalisti Roberta Mani e Roberto Rossi (Marsilio 2010). Ha come sottotitolo “Nella Calabria dei giornalisti infami” e nella quarta di copertina “Esiste un posto in Italia dove se racconti rischi la vita”. Infatti il libro racconta delle decine di giornalisti calabresi che vivono sotto minaccia di morte solo perché svolgono il proprio lavoro di cronisti politici o giudiziari. E dunque infami, perché raccontano.
E’ il racconto di Angela una delle madri dei desaparecidos di Calabria, i 43 ragazzi spariti in pochi chilometri, tra il Vibonese e il Lamentino, per qualche sgarro alle cosche.
E poi, ancora - centrale - il “sistema mafioso-clientelare”. Stavolta è un magistrato che parla,
Vincenzo Liberto pm antimafia di Catanzaro:
E’ la stessa parola democrazia che diventa vuota, priva di senso:
Le parole sono di un altro magistrato antimafia, Pierpalo Bruni, di Crotone. E sono pesanti come pietre.
Da questo bel libro - che ha anche una pagina su facebook, in cui viene costantemente aggiornata la situazione drammatica della libera informazione in Calabria - ne viene fuori il quadro terribile di una terra sotto il dominio di un potere mafioso, ormai internazionalizzato, ma la cui forza è determinata dalla pre-potenza sulle menti e sui corpi dei più giovani, nella loro terra d’origine. In cui rimangono ancora sostanzialmente valide l’analisi dei bisogni e la proposta socio-educativa messe in campo da Danilo Dolci in Sicilia.
Ma oltre 30 anni dopo…