mercoledì 29 dicembre 2010

Se a Vibo Valentia fosse stato un migrante...

Se a Vibo Valentia fosse stato un migrante ad uccidere un padre italiano con i suoi quattro figli, avremmo schiere di calabresi con le spranghe per le strade, come a Rosarno; giornali e giornalacci con titoli a nove colonne; salotti televisivi invasi per giorni con modellini del fienile; il ministro dell'interno a pianificare e far eseguire rastrellamenti di massa. Tutti uniti in una santa alleanza razzista, invece...Invece, si tratta di un "normale" regolamento di conti tra calabresi. E quindi, oggi solo un richiamo in prima e mezza pagina in diciannovesima e domani sparirà dai giornali. Anche da quelli locali, che avranno nuovi morti caldi di giornata a cui dar spazio.

In Calabria c'è una guerra che fa più morti ammazzati cha a Belfast ai tempi della guerra civile. Ma è rimossa dalle cattive coscienze locali e nazionali, ormai assuefatte e rassegnate alla lacerazione morale, civile e sociale di un pezzo di nazione. Non è razzismo, anche contro se stessi, questo silenzio?

E non è il miglior alleato della mafie?

sabato 18 dicembre 2010

Historia magistra vitae?

Appunti per una storiografia nonviolenta

di Pasquale Pugliese

(pubblicato sui n 10/11/12 - 2010 di Azione nonviolenta)

Costruire una narrazione
Ogni movimento sociale che cambia la storia dal basso deve anche costruirne la propria narrazione. E’ avvenuto per il movimento dei lavoratori e per il movimento delle donne, non è ancora avvenuto per il movimento per la pace. Ripercorrere le tappe di un percorso che nel tempo ha mobilitato passioni politiche e civili significa tracciare un sentiero all’interno del susseguirsi degli avvenimenti registrati dalla Storia utilizzando un'altra punteggiatura, altre categorie di interpretazione degli eventi.
Non solo per costruire una storia di settore, quella dei movimenti pacifisti e nonviolenti, ma per proporre un nuovo punto di vista storiografico sulla Storia tout-court. Un punto di vista capace di mettere in evidenza non solo le esplicite forme di opposizione alle guerre, ma tutte le soluzioni disarmate e nonviolente all’interno dei conflitti e tutte le azioni di prevenzione della violenza che donne e umomini hanno saputo, nel tempo, mettere in campo. Un nuovo sguardo storico capace di raccontare i processi di sviluppo delle civiltà fuoriuscendo dalla retorica della “violenza levatrice della storia”.

La violenza data per scontata
Retorica che tuttavia rimane ancora punto di riferimento irrinunciabile, e addirittura ovvio, per la maggior parte degli storici. Sfogliando i “manuali” destinati alla didattica della Storia, emerge chiaramente come sia ancora valido lo ”strabismo” che ha spiegato Hannah Arendt nel suo importante lavoro "Sulla violenza" (edizione italiana: Guanda, 1996), in cui svolge una serrata critica alla violenza ed alla guerra: "è a prima vista piuttosto sorprendente constatare come la violenza sia stata scelta così di rado per essere oggetto di particolari attenzioni.(...). Questo dimostra fino a che punto la violenza e la sua arbitrarietà siano state date per scontate e quindi trascurate; nessuno mette in discussione o sottopone a verifica ciò che è ovvio per tutti. Coloro che non hanno visto altro che violenza negli affari umani (...) non avevano nient'altro da dire ne sulla violenza ne sulla storia".
(p.10)

Lavori disponibili in italiano
Nel senso indicato, di rilettura di processi storici a partire da categorie di interpretazione nonviolenta, sono pochi i lavori disponibili in italiano, tutti riferiti alla resistenza al fascismo e al nazismo:
- l'ormai classico "Senz’armi di fronte ad Hitler" dello storico francese Jacques Semelin, tradotto in italiano per le edizioni Sonda nel 1993, che fa una narrazione della resistenza europea a partire dal paradigma della “difesa civile”;
- gli studi di Anna Bravo e in particolare la voce "Resistenza civile" nel Dizionario della Resistenza (Einaudi 2001);
- l'importante bibliografia storica "Difesa senza guerra", a cura di Enrico Peyretti, in continuo aggiornamento, e il suo saggio "La resistenza nonviolenta al fascismo in Italia", entrambi scaricabili dal sito www.peacelink.it ;
- infine, alcune pubblicazioni “militanti”, come i quaderni di “Azione nonviolenta”, sulla resistenza danese e norvegese, e le ricerche di Stefano Piziali sulla resistenza nella bergamasca e di Raffaele Barbiero sulla quella di Forlì.
Vi è poi il lavoro di Alessandro e Daniele Marescotti del 2005, "L'altra storia. L'opposizione alla guerra e alla violenza dall'antichità a oggi", scaricabile dal sito http://italy.peacelink.it/storia, l'unico tentativo italiano di costruzione di un vero e proprio “manuale” di Storia che assume la nonviolenza come punto di vista storigrafico.

Storie dei movimenti pacifisti
Sono altrettanto poco numerosi i lavori di autori italiani (o tradotti in italiano) che, negli ultimi quindici anni, hanno affrontato il tema specifico del movimento per la pace in chiave storica. E significativamente sono quasi tutti scritti da “non storici”:
- nel 1995 esce nella collana “Storia dei Movimenti e delle Idee” dell’Editrice Bibliografica “Pacifismo” di Roberto Diodato, filosofo;
- nel 2005 esce una “Breve storia del pacifismo in Italia”, per la Bonanno Editrice di Pietro Pàstena, criminologo (ma obiettore di coscienza);
- L'anno successivo Amoreno Morellini pubblica “Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell'Italia del Novecento, Donzelli 2006
- Nel 2007 la Mondadori pubblica in italiano “Un’idea pericolosa. Storia della nonviolenza” del giornalista statunitense Mark Kurlansky;
- Nel 2010 Editori Laterza dà alle stampe “La non-violenza. Una storia fuori dal mito”, una lettura critica dello storico della filosofia Domenico Losurdo.
- Più modestamente avevano definito “Una cronaca del pacifismo italiano del Novecento”, i giornalisti Antonella Marrone e Piero Sansonetti, il loro “Né un uomo né un soldo”, uscito per la Baldini Castoldi Dalai nel 2003.
Infine, non posso non ricordare il prezioso “Nonviolenza in cammino Storia del Movimento Nonviolento dal 1962 al 1992”, a cura del Movimento Nonviolento.

Tutta la storia è scelta
E’ legittimo costruirne un punto di vista storiografico fondato su categorie nonviolente?
Cerchiamo dagli storici alcune risposte preliminari, a cominciare da un classico della Scuola delle Annales, scuola storiografica che ha cercato di superare la histoire éveneméntielle, la storia fatta per accumulo di avvenimenti, detta non a caso anche histoire-bataille, per riercare le strutture sociali ed economiche e le mentalità collettive.
Lucien Febvre in "Problemi di metodo storico" (prima edizione italiana Einaudi, 1967) scrive:«Tutta la storia è scelta. (...) Per il fatto che, quando i documenti abbondano l'uomo abbrevia, semplifica, mette l'accento su questo, passa la spugna su quello. Sopratutto per il fatto che lo storico crea i suoi materiali, o, se si vuole, li ricrea: lo storico non si muove vagando a caso attraverso il passato, come uno straccivendolo a caccia di vecchiumi, ma parte con un disegno preciso in testa, con un problema da risolvere, un'ipotesi di lavoro da verificare.» (p. 73-74) «Organizare il passato in funzione del presente: tale si potrebbe definire la funzione sociale della storia.»(p. 186)

Storia=Guerre?
Questo approccio è ripreso nel primo volume curato della Scuola di Pace di Boves, sul tema "Verso la Pace. Come imparare la pace studiando la storia". (elle di ci 1988). In esso Francesco Traniello introduce il tema «Storia = Guerre?» e, tra l'altro, scrive: «In fondo, alle spalle dell'histoire-bataille sta l'idea che la storia sia essenzialmente una storia di conquiste da parte di alcuni potenti che lottano tra di loro per acquistare il potere. (…) Facendo un altro passo, mi sentirei di dire che alle spalle di questa visione della storia sta la scelta di alcuni soggetti come soggetti privilegiati della storia: sono coloro che tendenzialmente si esprimono attraverso la metodologia della forza, della lotta, della battaglia e della guerra. La cultura di cui noi siamo figli è una cultura impregnata dall'idea che la guerra e il conflitto siano la regola fondamentale della storia e che la storia sia dominata da questa dimensione»(p.11-12)

La storia come ideologia
Anche Scipione Guarracino e Dario Ragazzini nel loro lavoro “La formazione storica. Metodi storiografici e criteri didattici” (La Nuova Italia, 1990), riflettono sul rapporto tra ideologie dominanti, idee storiche e didattica della storia: “Le idee storiche hanno a che fare con le ideologie sociali, hanno a che fare con la consapevolezza di sé che hanno le società, cioè con il rapporto che queste riconoscono con il proprio passato, ma anche con quello che stabiliscono con il proprio presente e ipotizzano con il loro futuro. (p.2) “E’ necessario riflettere un momento sul fatto che più cresce il bisogno sociale di storia, più forte si fa il rischio che il suo insegnamento divenga soltanto un momento dell’esercizio del potere, del controllo sociale. La storia diventa così ideologia, manipolazione ideologica.” (p.162)
Ancora più espliciti sulla funzione sociale del fare storia sono Pietro Corrao e Paolo Viola che nella "Introduzione agli studi di Storia" (Donzelli Editore, 2002) scrivono: "Nella civiltà occidentale, significative energie intellettuali e non indifferenti risorse economiche sono state dedicate allo studio professionale del passato, sia a livello formativo sia a livello di divulgazione pubblica. Perchè questo investimento di energie e risorse, sopratutto da parte di Stati e poteri, dal momento che il prodotto di questi studi non apppare - se non in maniera molto indiretta - utilizabile a scopi pratici? La risposta può essere riferita a due caratteristiche degli studi storici: la capacità di legittimazione dell'esistente e la funzionalità allo sviluppo di identità di diverso genere e scala dimensionale.(p.5)

Le tracce non sono innocenti
Marcello Mustè, nel lavoro "La Storia: teoria e metodi" (Carocci 2005) sottolinea infine come l'interpretazione del passato da parte dello storico sia in realtà una sua organizazione:“Ma lo storico sa che i documenti, ai quali si rivolge per scoprire gli eventi di un lontano passato, contengono spesso un inganno o, almeno, una dose elevata di ambiguità. Anzitutto, il passato non ha disseminato tracce in modo “innocente”, ma ha seguito precise strategie, logiche di potere, dinamiche fondate sulla forza e sul dominio. In molti casi sappiamo del passato solo ciò che il passato ha deciso che noi sapessimo: le cosiddette “fonti della storia” registrano solo quei fatti che sono sembrati sufficientemente interessanti da registrare”(p.24). Dunque, “nel ricostruire, attraverso l'uso attivo di ipotesi e congetture, la continuità del processo, ossia nel tentativo di comprendere ciò che è veramente accaduto, lo storico introduce un principio di organizzazione del passato”. (p. 33)

Storie da scoprire, storie da ripensare
Le opinioni degli storici confermano la legittimità dell'organizzazione del passato a partire anche da un'interpretazione nonviolenta, capace di rileggere la Storia attraverso storie rimaste sconosciute finchè non ricercate.
“Storie da scoprire, storie da ripensare” le chiama Anna Bravo nel monografico 40/2009, della rivista "Parolechiave" (Carocci), dedicato alla "Nonviolenza". Storie che, se narrate, “a rischiare di venire sovvertiti sono alcuni capisaldi della storia della guerra. Aver raggiunto certi risultati senza usare le armi può suggerire l'idea che si sarebbe potuto agire allo stesso modo in molte situazioni in cui si dava per scontato che non ci fosse altra via” (106) “Da decenni, la nonviolenza fatica a costruire una sua mitografia. Si sono scritti milioni di libri per raccontare eventi che hanno fatto milioni di morti, infinitamente meno su quelli che li hanno evitati. Si sono girati migliaia di film su tutte le guerre, infinitamente meno sui loro oppositori” (p.115)

Una piccola grande storia
In contro tendenza nel guardare dentro la Storia con altri occhi è - per esempio - questa piccola grande storia raccontata da Matthias Durchfeld e Annalisa Govi in "RS Ricerche Storiche", Rivista semestrale dell'Istoreco (Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea della provincia di Reggio Emilia) n. 107/2009. Storia che narra il ruolo svoto da due donne tedesche, mogli di ex migranti italiani rientrati al paese sull'appennino reggiano, nell'evitare un altro eccidio nazista.
“Il 1944 è l'anno delle stragi naziste e fasciste in Italia. Cervarolo, Civitella, La Bettola, Sant'Anna di Stazzema, Marzabotto disegnano un cerchio di nomi noti.
Poco prima della Pasqua del '44 il cerchio della violenza nazista stringe la presa intorno a Gombio, a Casa Ferrari, fra Ciano e Casina. Due settimane prima, 24 uomini sono stati ammazzati su quello stesso appennino a Cervarolo. Ma per Gombio il coraggio di due donne trasforma il triste destino in salvezza. Non fu strage. Per questo, ironia della sorte, gli eventi di Gombio restarono sconosciuti, dimenticati dai libri di storia. A noi invece sembra che le signore Ida e Augusta, disarmate di fronte alla violenza e alla prepotenza dei soldati, debbano essere ricordate. Per quel coraggio che ha sfidato la guerra”.

Veh lazoroun, al to paeis t'han imparato a te l'educazione così?
Uno dei testimoni ascoltati da Durchefeld e Govi, così racconta i fatti:
“ Avevo 15 anni. Sono arrivati i tedeschi. Prima hanno preso quattro preti. Poi mio padre. Dopo è arrivata un'altra fila di tedeschi. Hanno cominciato ad andare in casa. Io ero seduto sui gradini lì fuori e passavano i tedeschi: avevano tutti i salumi, prosciutti, quella roba lì. Passavano con la baionetta. Buttavano tutto per aria e portavano via tutto...m'han prelevato a me e poi mi hanno portato dietro la casa giù nel sagrato come gli altri. C'erano i quattro preti e mio padre, poi c'era uno che non mi ricordo più come si chiama. C'erano quattro preti perchè erano le Quarant'ore. La festa religiosa. Suonavano le campane, ma i tedeschi dicevano che era un richiamo dei partigiani. Siamo stati ancora lì dal muro. Là c'erano i tedeschi con la mitraglia puntata e ci hanno fatto partire tutti in fila e via: avanti! E siamo arrivati qua [nel piazzale di Gombio, NdR]. C'era Scarenzi, Vittorio, Gaetano...altri cinque o sei. I tedeschi eran là con la mitraglia là sopra e più avanti c'erano un altro gruppo che quelli lì non parlavano micca. Saran stati italiani.
E dopo hanno trovato la nonna di Ciso: l'Augusta. Era tedesca, lei. E...è successo il patatrac!
E' successo che stava facendo la frittata e loro sono andati dentro: boom! Lei stava nella cucina. C'era il piatto della frittata sul tavolo e il soldato tedesco s'era messo a mangiare e lei ha detto in tedesco: Veh lazoroun, al to paeis t'han imparato a te l'educazione così?
Al dis che il tedesco ci aveva ancora un pezzettino di frittata lì e c'è caduto per terra.
Sarà stata circa l'una. A Casa Ferrari avevano già cominciato a bruciare. Lei ha parlato tanto tempo. In mezzo c'erano sempre l'Augusta e l'Ida [un'altra tedesca abitante a Gombio, NdR].
Mentre loro dicidevano, noi siam stati fermi, zitti. Dicevamo: Mah! Qua cosa faranno? Cosa non faranno? Non si sapeva niente. Fermi però. Dopo ci hanno poi liberato. Andate a casa!

Quante storie come questa aspettano qualcuno che le raccolga, le documenti, le organizzi e le racconti? Se ciò avvenisse sistematicamente i libri di storia sui quali studiano gli studenti potrebbero narrare anche un'altro passato – fatto di coraggio e nonviolenza - dal quale dedurre preziosi insegnamenti per costruire nuovo futuro.
Allora, davvero, l'Historia sarebbe “magistra vitae”.

martedì 2 novembre 2010

Papà, che significa ‘mpamu?

Viaggio in una terra dove, se racconti, rischi la vita


di Pasquale Pugliese


Sicilia 1967

Danio Dolci, nel 1967, racconta per una rivista americana la sua esperienza siciliana, iniziata nel 1952, in un articolo dal titolo “ciò che ho imparato” (sotto questo titolo Giuseppe Barone ha raccolto un’antologia di scritti dolciani, edita nel 2008 da MESOGEA). Dolci suddivide il suo racconto in fasi e, dopo aver brevemente delineato – per primo in Italia - i caratteri del “sistema mafioso-clientelare”, ne descrive le condizioni che lo rendono possibile:
“ - il basso livello economico di vasti masse, per cui la ricerca del pane o del posto di lavoro è
di tale urgenza che tutto il resto diviene loro secondario;
- il basso livello culturale-politico di vaste popolazioni: la ricerca del proprio interesse a una
distanza così ravvicinata per cui lo si esercita egoisticamente, e non con un minimo di prospettiva reale, verso l’interesse di tutti;
- l’insufficiente capacità cioè a una nuova vita di associazione, collaborazione: terreno fertile a ogni avventura autoritaria, a ogni tipo di fascismo, di monopolio, di oligopolio.
I sistemi clientelari e mafioso-clientelari sono perciò possibili nella misura in cui i singoli, isolati, non sanno, non sono in grado di farsi valere, si rassegnano a non agire e a non pesare secondo i propri veri interessi.
E’ evidente come sia dunque indispensabile, per valorizzare effettivamente ciascuno, mirare a costruire e a interrerale nuovi gruppi democratici aperti, e nel contempo superare, sciogliere i vecchi gruppi sclerotici: a ogni livello.”
Ecco dunque delineata, in pochi tratti, un’analisi dei bisogni di una terra e una proposta socio-educativa a cui lo stesso Dolci si impegnerà in maniera sempre più esplicita e consapevole, partendo dagli adulti per giungere ai bambini.

Calabria 2010

In Calabria, la ‘ndrangheta parte dai bambini:
Ciao papà, che significa ‘mpamu?
E perché, chi te l’ha detto?
A scuola. Un mio compagno
Ah. E che t’ha detto?
Statti muta tu, ca io non ci parlo con i figli i’mpamu!

E’ questo l’incipit di un libro-affresco sulla Calabria di oggi. Si chiama ”Avamposto” ed è scritto dai due giovani giornalisti Roberta Mani e Roberto Rossi (Marsilio 2010). Ha come sottotitolo “Nella Calabria dei giornalisti infami” e nella quarta di copertina “Esiste un posto in Italia dove se racconti rischi la vita”. Infatti il libro racconta delle decine di giornalisti calabresi che vivono sotto minaccia di morte solo perché svolgono il proprio lavoro di cronisti politici o giudiziari. E dunque infami, perché raccontano.
"Adesso battezzano questi ragazzi che si mettono a comandare ragazzini ancora più piccoli, di dodici o tredici anni, a cui chiedono di raccogliere le mazzette nei bar per un compenso di dieci euro. Io li vedo tutt’ora. Ho visto ragazzini cui hanno comprato la macchina, la moto. Così fu anche per mio figlio. Nonostante lo avessi mandato a studiare a Perugia per tenerlo lontano dal giro. Fu quando morì sua sorella che si avvicinò alla droga, che si avvicinò a loro".
E’ il racconto di Angela una delle madri dei desaparecidos di Calabria, i 43 ragazzi spariti in pochi chilometri, tra il Vibonese e il Lamentino, per qualche sgarro alle cosche.
E poi, ancora - centrale - il “sistema mafioso-clientelare”. Stavolta è un magistrato che parla,
Vincenzo Liberto pm antimafia di Catanzaro:
"Le operazioni di voto sono gestite in maniera scientifica. Al di là delle forme più plateali di controllo, come le foto alle schede o l’accompagnamento in cabina di anziani o disabili che magari non sanno neanche leggere, c’è anche una fonte dipendenza sociale. Molte delle persone a cui viene imposto il voto spesso sono indigenti, vengono sfamate, ed è molto difficile che non facciano quello che gli si chiede. E poi, c’è un capillare presidio dei seggi."
E’ la stessa parola democrazia che diventa vuota, priva di senso:
"In questi territori le principali libertà costituzionali sono condizionate: il voto, la libera impresa, il diritto di cronaca, la libertà di manifestazione del pensiero. La democrazia azzerata. Viviamo in un avamposto. Ai margini della vita civile".
Le parole sono di un altro magistrato antimafia, Pierpalo Bruni, di Crotone. E sono pesanti come pietre.
Da questo bel libro - che ha anche una pagina su facebook, in cui viene costantemente aggiornata la situazione drammatica della libera informazione in Calabria - ne viene fuori il quadro terribile di una terra sotto il dominio di un potere mafioso, ormai internazionalizzato, ma la cui forza è determinata dalla pre-potenza sulle menti e sui corpi dei più giovani, nella loro terra d’origine. In cui rimangono ancora sostanzialmente valide l’analisi dei bisogni e la proposta socio-educativa messe in campo da Danilo Dolci in Sicilia.
Ma oltre 30 anni dopo…

lunedì 25 ottobre 2010

Un pezzo di storia di un'Italia migliore


Vendola, Capitini e la nonviolenza

Pasquale Pugliese


24 ottobre 2010

Stamattina ho seguito alla radio l’intervento conclusivo di Nichi Vendola al Congresso di fondazione di Sinistra Ecologia e Libertà e mi ha colpito una suo, non rituale, riferimento alla nonviolenza quale elemento costitutivo del nuovo partito, non come un nuovo “galateo” ma come vera “radicalità” dell’agire politico che consente di sovvertire, appunto, “alla radice” il potere della violenza. Indicando come precisi riferimenti l’opera di Gandhi, Martin Luther King e Aldo Capitini.
Richiamando, in qualche modo, una definizione che lo stesso Capitini ha dato della nonviolenza, come “il punto più profondo della tensione per il sovvertimento di una società inadeguata”. Aldo Capitini, a conclusione della prima Marcia per la Pace del 1961, consegnò questo compito così arduo, ma urgente e allo stesso tempo permanente, a tutti gli “amici della nonviolenza”. E in primo luogo, alla piccola organizzazione da lui voluta e costruita a questo fine, insieme a pochi amici: il Movimento Nonviolento.
Se oggi, Vendola – possibile candidato del centro-sinistra a sfidare il dominio berlusconiano alle prossime elezioni politiche – ha potuto fare un riferimento così preciso alla radicalità della nonviolenza forse è anche perché quella piccola organizzazione, voluta da Capitini nel 1961, in questo quasi mezzo secolo di storia italiana – attraversato da stragismo di stato e terrorismo, da colpi di stato striscianti e massonerie occulte, da dominio delle mafie e rinascita del razzismo, dalla riabilitazione della guerra e dal berlusconismo – ha tenuto viva la fiammella della nonviolenza. Con pochi mezzi, con il lavoro volontario e i sacrifici personali di alcuni persuasi, con una rivista libera e bella come “Azione nonviolenta”, una sede nazionale e alcuni centri locali.
Anche per questo, credo che il 23° Congresso nazionale del Movimento Nonviolento – che si terrà a Brescia dal 29 ottobre al primo novembre - , nel suo piccolo, contribuirà - così come hanno fatto i precedenti - a costruire, qui ed ora, un pezzo di storia di un’Italia migliore. In una tensione al “sovvertimento” delle chiusure, delle paure, delle violenze, che non potrà mai avere fine, ma andrà tanto più “alla radice” quanti più compagni di strada l’accompagneranno.

sabato 2 ottobre 2010

un 2 Ottobre contro il dilagare della violenza

breve riflessione sulla Giornata internazionale della nonviolenza

di Pasquale Pugliese



Perchè la Giornata internazionale della nonviolenza, fissata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite per il 2 ottobre – anniversario della nascita di Gandhi - non riesce ad assumere quel riconoscimento pubblico, dalle istituzioni e dai mezzi di informazione, che hanno invece assunto fin dalla loro proclamazione altre giornate analoghe? Perchè, almeno in Italia, rimane una "celebrazione" semi-clandestina, a cura esclusivamente di coloro che fanno specificamente riferimento alla noviolenza come ideale?
Si potrebbero dare molte risposte ma penso che una, fra tutte, stia a fondamento delle altre: "La nonviolenza è stata sospinta ai margini perchè rappresenta una delle poche idee realmente rivoluzionarie, un concetto che cerca di cambiare completamente la natura della società. Una minaccia all'ordine costituito. Per queste ragioni la nonviolenza è stata trattata come qualcosa di profondamente pericoloso". Spiega così il giornalista statunitense Mark Kurlansky nel suo libro di qualche anno fa "Un'idea pericolosa. Storia della nonviolenza" (Mondadori 2007), e mi sembra che in fondo in Italia le cose stiano proprio così.
Senonché il deficit di nonviolenza in una società è direttamente proporzionale al suo tasso di violenza. E infatti in Italia la violenza, in tutte le sue forme, dilaga.
Violenza è quella che spara e uccide, che domina – e governa – molte zone del nostro paese sotto il giogo delle mafie: l’omicidio del sindaco-pescatore Angelo Vassallo ne è solo una delle ultime tragiche conferme.
Violenza è quella delle enormi e crescenti diseguaglianze sociali ed economiche, delle morti sul lavoro e dei suicidi di coloro che il lavoro lo hanno perso.
Violenza è il razzismo montante, le sue leggi razziali, i suoi campi di detenzione illegale, la scia di morti nel mediterraneo, la schiavitù nei campi di pomodoro.
Violenza sono i suicidi in carcere, di cui nessuno dà notizia, ma che stanno diventando una strage.
Violenza e disprezzo della Costituzione sono le azioni di guerra camuffate da "missioni di pace".
Violenza è il taglio delle spese per la cultura, la scuola e l'educazione che alimenta e rafforza la "dittatura dell'ignoranza".
Violenza è lo spregio quodiniano delle istituzioni democratiche anche da parte di chi ne è rappresentante e ne dovrebbe essere custode.
E l’elenco potrebbe drammaticamente continuare.
Ma come se tutto ciò non bastasse, la violenza assume oggi anche un carattere formativo ed educativo secondo quanto previsto dai percorsi di “educazione alla guerra”, benedetti congiuntamente dal Ministro dell’Istruzione e da quello della Difesa in via sperimentale per la Regione Lombardia, nei quali – mentre si tagliano i soldi per le attività ordinarie – soldati di ritorno dalle missioni di guerra insegneranno ai ragazzi delle scuole secondarie ad usare le armi e sparare!
Il deficit di nonviolenza porta alla banalizzazione della violenza, “la violenza e la sua arbitrarietà” non solo “sono date per scontate”, come ha scritto Hannah Arendt, nel suo saggio “On violance”, ma anzi sono oggi colpevolmente alimentate.
Dunque il 2 ottobre giunge a ricordarci quanto sia importante rilanciare nel nostro paese, qui ed ora, un forte impegno nonviolento.
E ciò che proveremo a fare anche attraverso il prossimo Congresso del Movimento Nonviolento, a Brescia dal 29 ottobre al 1° novembre. E quanto, ancor di più, andrà fatto in vista di un altro importante doppio appuntamento – prima del prossimo 2 ottobre – il 24 settembre del 2011, cinquantesimo anniversario sia della prima Marcia della pace, sia della nascita del Movimento Nonviolento. Entrambe creature di Aldo Capitini. Il quale, nel 1936 scriveva: "il mondo ci è estraneo se ci si deve stare senza amore, senza un'apertura infinita dell'uno verso l'altro, senza una unione di sopra a tante differenze e tanto soffrire. Questo è il varco attuale della storia".
Era pieno fascismo ma sembra parli dell’oggi.

domenica 1 agosto 2010

La nonviolenza oggi in Italia.

Paolo Arena e Marco Graziotti intervistano Pasquale Pugliese

intervista pubblicata su:
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 267 del 30 luglio 2010
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it



- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come e' avvenuto il suo accostamento alla nonviolenza?

- Pasquale Pugliese: Da giovane studente di filosofia, sempre alla ricerca di punti di contatto tra il pensare e l’agire, consapevole della necessita' di operare per il cambiamento ma insoddisfatto dai limiti dei partiti (mi era molto chiara la serrata critica di Ignazio Silone in Uscita di sicurezza...), mi e' capitata tra le mani l’autobiografia di Gandhi. Ne ho colto principalmente la proposta della nonviolenza come prassi politica dal basso a disposizione di tutti. Ho cominciato a orientare la mia ricerca in questo campo, sia sul piano culturale che su quello politico che su quello personale, misurandomi - contemporaneamente - con gli scritti di Aldo Capitini, filosofo italiano della nonviolenza, sul cui pensiero ho lavorato per la tesi di laurea; con la scelta dell’obiezione di coscienza, svolgendo il servizio civile in una comunita' di prima accoglienza per giovani tossicodipendenti; e con il movimento universitario della “pantera”, nella difficile occupazione della facolta' di Lettere dell’Università di Messina, dov’era forte sia la componente fascista che quella legata alla criminalita' organizzata.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali personalita' della nonviolenza hanno contato di piu' per lei, e perche'?

- Pasquale Pugliese: In fase di formazione sicuramente Aldo Capitini, la cui opera ho studiato con passione e attenzione, e Gandhi che e' un punto di riferimento imprescindibile per chiunque di accosti alla nonviolenza. Successivamente, tra gli italiani, Lorenzo Milani e Danilo Dolci, e tra i personaggi internazionali Johan Galtung, Giuliano Pontara e Pat Patfoort. Quest’ultima ho avuto il piacere di invitarla piu' volte a Reggio Emilia per incontri di formazione con gli educatori. Poi, partecipando alle attivita' e all’organizzazione del Movimento Nonviolento, ho conosciuto e stimato tutti coloro che hanno continuato l’opera di Capitini. Ne cito tre per tutti: Pietro Pinna, Daniele Lugli e Mao Valpiana.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali libri consiglierebbe di leggere a un giovane che si accostasse oggi alla nonviolenza? E quali libri sarebbe opportuno che a tal fine fossero presenti in ogni biblioteca pubblica e scolastica?

- Pasquale Pugliese: Piu' volte mi e' capitato di animare gruppi di lettura sui “fondamenti” del pensiero nonviolento, ed ho proposto pagine antologiche tratte praticamente dai lavori di tutti i personaggi ricordati prima. Comunque l’ultimo libro che mi e' capitato d consigliare, in quest’ottica, e' L’antibarbarie di Giuliano Pontara. In una biblioteca sarebbe importante avere almeno i lavori dei nonviolenti italiani - Capitini, Dolci, Milani - anche nelle nuove edizioni antologiche che, man mano, vengono pubblicate. E poi sarebbe assolutamente necessario abbonarsi alla rivista fondata da Capitini nel 1964, "Azione nonviolenta", tutt’ora viva e vegeta, ed acquistare i “quaderni” editi dal Movimento Nonviolento. Inoltre, provero' ad indicare man mano dei riferimenti bibliografici relativi ai vari argomenti di questa intervista.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: In quali campi ritiene piu' necessario ed urgente un impegno nonviolento?

- Pasquale Pugliese: Oggi, credo che le condizioni civili, politiche e sociali in cui versa il nostro paese, richiedano un impegno nonviolento capace di agire contemporaneamente su molti versanti, tra loro intrecciati. Cio', purtroppo, non avviene nella maniera capillare, profonda e organica che l’urgenza delle questioni imporrebbe, ma molti amici della nonviolenza sono parte attiva in varie iniziative, campagne e movimenti di lotta. Tra questi, tra i piu' importanti, mi preme sottolineare: la difesa della democrazia, dell’informazione libera e la tutela della Costituzione; il disarmo, il ritiro dei militari italiani dai fronti di guerra, la riduzione drastica delle spese militari e la costituzione dei Corpi Civili di Pace; la lotta antirazzista a fianco dei migranti; la lotta alle mafie ed ai poteri occulti; la difesa e il rilancio della scuola, della cultura e l’avvio di buone prassi educative e formative esplicitamente ispirate alla nonviolenza.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali centri, organizzazioni, campagne segnalerebbe a un giovane che volesse entrare in contatto con la nonviolenza organizzata oggi in Italia?

- Pasquale Pugliese: Pur nella consapevolezza che oggi, fortunatamente, diverse organizzazioni - sia di ispirazione laica che religiosa - si rifanno alla nonviolenza, tuttavia continuerei a segnalare il Movimento Nonviolento, fondato da Aldo Capitini e da alcuni amici, nel 1961 in seguito alla prima “Marcia per la pace e le riconciliazione dei popoli” da Perugia ad Assisi. Segnalerei le sue sedi, i suoi centri studi, i suoi referenti locali e indicherei nel sito www.nonviolenti.org il punto di riferimento per raccogliere le informazioni necessarie. Suggerirei inoltre, se nel suo paese o nelle vicinanze non ci fossero gruppi organizzati, di farsi “centro” anche individualmente cercando, pian piano, di aggregare intorno a se' anche un piccolo gruppo. E con quello cominciare a fare attivita' culturale, formativa e politica dal basso. Un prezioso alleato e uno strumento insostituibile in questo senso sara' sicuramente l’abbonamento alla rivista “Azione nonviolenta” e la sua diffusione locale.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come definirebbe la nonviolenza, e quali sono le sue caratteristiche fondamentali?

- Pasquale Pugliese: Non e' facile dare una definizione sintetica di nonviolenza. Negli incontri di formazione, di solito, chiedo ai partecipanti di proporne dei sinonimi e poi proviamo ad avvicinarci, per approssimazioni successive, ricercando insieme cio' che pare accomunare e distinguere la nonviolenza dalle parole sorelle, ma altre. Il mio contributo di solito e' volto a chiarificare i significati delle parole ed infine a spiegare la nonviolenza in quanto dinamica transculturale di “prassi-teoria-prassi”, che evolve attraverso aggiunte successive. In cui il punto di partenza sono state le pratiche nonviolente per affrontare i conflitti che, con maggiore o minore consapevolezza, singoli e popoli da sempre hanno messo in atto. Poi, a partire dall’esperienza gandhiana - che attraverso il satyagraha ha dato forma e consistenza politica e di massa, nella lotta per l’autogoverno dell’India, a queste pratiche antiche (non a caso uno dei piu' celebri aforismi gandhiani recita: io non ho niente di nuovo da insegnare al mondo: la verita' e la nonviolenza sono antiche come le colline) - a partire dall’esperienza gandhiana, dicevo, la nonviolenza e' entrata in maniera irreversibile nella storia del ‘900. Molti studiosi della politica e dei movimenti sociali, in varie parti del mondo, se ne sono occupati e nel far cio' hanno contribuito anche a diffonderne principi e metodi in altre latitudini; altri singoli e popoli li hanno fatti propri aggiungendo elementi legati alla propria specificita' ed altri ricercatori ne hanno evidenziato le nuove caratteristiche, in un processo continuo in cui ciascuno ha aggiunto e puo' sempre aggiungere qualcosa.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e femminismo?

- Pasquale Pugliese: Il movimento di emancipazione delle donne e' stato, probabilmente, il piu' importante movimento d’Occidente ad aver praticato metodi nonviolenti. Riuscendo ad operare, attraverso le sue diverse articolazioni, sui tre elementi costitutivi dei sistemi di violenza, come analizzati con efficacia da Galtung: la violenza diretta, la violenza strutturale e quella culturale (per l’approfondimento del pensiero di Galtung si puo' vedere l’imponente lavoro Pace con mezzi pacifici). Tutte contemporaneamente presenti nel sistema patriarcale. Naturalmente, come spesso succede, la lotta ad un sistema di violenza, di per se', non e' affatto garanzia di costituzione del sistema migliore possibile, e infatti la conquista della parita' di diritti tra uomini e donne ha portato anche ad alcune contraddizioni come, per esempio, il servizio militare volontario non abolito per tutti, uomini e donne, ma allargato a queste ultime. Che per fortuna lo hanno guardato con grande diffidenza, preferendo scegliere invece, in misura maggioritaria rispetto agli uomini, il servizio civile nazionale. E cio' aggiunge ancora qualcosa sul rapporto tra movimento delle donne e nonviolenza...

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza ed ecologia?

- Pasquale Pugliese: L’approccio nonviolento alle relazioni comprende, naturalmente, anche le relazioni con la natura. Per cui l’ecologia e' parte integrante della nonviolenza. Ma in una fase come questa, di grande pericolo per l’esistenza stessa della biosfera, cio' non e' sufficiente che sia dichiarato. Si tratta di sostenere le campagne e le lotte di resistenza verde dei popoli della terra e di far propri gli stili di vita piu' sobri e consapevoli. A partire, per esempio, dall’uso responsabile dei mezzi di trasporto e delle risorse energetiche. Uscendo dalla dipendenza dal fossile e dal nucleare (nel quale ci vogliono far ripiombare!) e lavorando per una riconversione dell’economia che sia sostenibile dal punto di vista ambientale e umano. Cio' che gli studiosi piu' avveduti chiamano la “decrescita felice” e che a me piace semplicemente chiamare un’”economia nonviolenta”.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza, impegno antirazzista e lotta per il riconoscimento dei diritti umani di tutti gli esseri umani?

- Pasquale Pugliese: Vedo dei rapporti strettissimi. Anzi, la nonviolenza moderna si forgia esattamente all’interno delle lotte di liberazione dei popoli dalle oppressioni di tipo razzista. E nasce, non a caso, in Sudafrica, un 11 settembre all’inizio del XX secolo - meno conosciuto di quello che ha aperto il XXI secolo perche' e' stato all’origine di una speranza collettiva e non di una tragedia - che ha dato avvio a un secolo di lotte nonviolente. Era infatti l’11 settembre del 1906 quando Gandhi, nel teatro imperiale di Johannesburg, presentava agli indiani immigrati in Sudafrica la sua proposta di lotta nonviolenta contro le discriminazioni subite. Metodo sperimentale, che solo dopo essere stato sperimentato con successo nel laboratorio sudafricano e' introdotto dallo stesso Gandhi in India.

E in India, nel 1959, si reco' a visitare le comunita' gandhiane il giovane pastore Martin Luther King, che aveva gia' sperimentato a sua volta il boicottaggio degli autobus di Montgomery, e dopo quel viaggio promosse con ancora maggior convinzione e consapevolezza la nonviolenza come metodo di lotta per la conquista dei diritti civili per la popolazione afroamericana degli Usa. Ancora in Sudafrica - stavolta alla fine del XX secolo - e' proprio l’uso della nonviolenza su larga scala che fa si' che si sgretoli finalmente il regime dell’apartheid, dando l’avvio, con Nelson Mandela presidente, non alle ritorsioni ed alle vendette, ma a un complesso e profondo processo di riconciliazione nazionale.

Oggi, ci troviamo ad affrontare il ritorno del razzismo in Italia. Dopo che per anni i conflitti interculturali sono stati demonizzati da un lato ("padroni a casa nostra: gli extracomunitari devono andarsene") e minimizzati dall’altro ("la nostra economia ne ha bisogno: possono rimanere purche' si comportino bene"), ma in nessun caso assunti - come fenomeno inevitabile nello “scatto di crescita” di una societa' che in pochissimi anni si e' ritrovata multiculturale e, pian piano, diventera' transculturale, ossia meticcia - e poi gestiti e trasformati in senso nonviolento, oggi questi conflitti degenerano in un dilagante razzismo. Alimentato dalla “pedagogia razzista di massa” (come la definisce Annamaria Rivera) della Lega, che offre alla “pancia” della gente, dove passano gli argomenti che banalizzano la realta' complessa, il capro espiatorio dei migranti quale “nemico interno” su cui scaricare quella rabbia sociale generata dalla vera insicurezza: quella esistenziale. Soprattutto in questo tempo di crisi generalizzata. Si tratta, percio', per coloro che si rifanno alla nonviolenza di assumere il razzismo come una vera emergenza di ordinaria violenza italiana che attraversa le leggi e le istituzioni, si diffonde dai mezzi di informazione e dilaga sui corpi dei migranti, come accade nei Cie e nelle tante Rosarno d’Italia.

A tutte queste ingiustizie bisogna rispondere, io credo, con la nonviolenza lungo tre direttrici:

- una indirizzata ai cambiamenti normativi, mettendo in campo delle campagne specifiche per l’abrogazione di quella barbarie giuridica che e' il reato di clandestinita', per il diritto di cittadinanza per i bambini figli di migranti che nascono in Italia e per il diritto di voto ai loro genitori, almeno nelle elezioni amministrative;

- una indirizzata ai mezzi d’informazione costituendo, per esempio, “osservatori territoriali” rispetto a come vengono trattati i migranti nei mass-media locali, spesso formidabili veicoli di stereotipi e pregiudizi, che si aggiungono a quelli diffusi dai mezzi nazionali;

- infine, una indirizzata alla formazione delle comunita' migranti rispetto alle “tecniche” della nonviolenza, per aiutarli a condurre con maggiore forza le mobilitazioni e anche la loro autodifesa... come si faceva nel Sud degli Usa negli anni ’50 e ‘60.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotta antimafia?

- Pasquale Pugliese: In Italia è in atto una "guerra civile” della quale nessuno tiene il conto preciso: quella delle mafie contro gli italiani. Non e' facile trovare una cifra unitaria che definisca i numeri dei morti per mano delle mafie: si va, in base alle fonti, da un minimo di 3.000 negli ultimi 12 anni a un massimo di 30.000 negli ultimi 30 anni. Per fare un confronto, in Irlanda del Nord la “guerra dell’Ulster” dal 1969 al 1998 ha prodotto 3.500 morti, mentre nei Paesi Baschi la lotta dell’Eta per l’indipendenza ha prodotto circa 800 morti in 40 anni. Ed i morti non dicono tutto sulla guerra in atto.

La democrazia, l’economia e la societa' italiana sono pesantemente condizionate, a tutti i livelli, dai poteri mafiosi e occulti, molto di piu' di quanto abbiamo finora immaginato. Inoltre, nonostante che con i 135 miliardi di euro di fatturato annuo “accertato”, le mafie siano la prima “azienda” multinazionale italiana, con ramificazioni e traffici in tutte le regioni d’Italia e in tutti i paesi del globo, esse sono ancora profondamente radicate in un sistema di violenza territoriale tale per cui almeno tre regioni in Italia sono sotto occupazione, oltre che sul piano militare, anche sui piani economico, politico, sociale, sanitario, ambientale e mediatico.

Oggi, tra tutte, la terra piu' martoriata e' sicuramente la Calabria, stretta nelle maglie della ‘ndrangheta, la mafia piu' potente del pianeta. Terra in cui, come ribadisce tra gli altri Pierpaolo Bruni, magistrato antimafia a Crotone, “le principali liberta' costituzionali sono condizionate: il voto, la libera impresa, il diritto di cronaca, la liberta' di manifestazione del pensiero. La democrazia azzerata. Viviamo in un avamposto. Ai margini della vita civile”. Terra in cui non e' consentita un’informazione libera, ed e' concentrato il piu' alto numero di giornalisti che vive sotto costante minaccia di morte, per se' e per la propria famiglia, solo perche' continuano a fare con onesta' il proprio lavoro di cronisti politici o giudiziari sui quotidiani locali. Cio' e' raccontato, per esempio, nel bel libro Avamposto. Viaggio nella terra dei giornalisti infami, di due giovani giornalisti, Roberta Mani e Roberto Rosso, da cui emerge con nitidezza il profilo di una terra in cui la mafia rappresenta l’istituzione totale e dove l’immaginario dei bambini e dei ragazzi e' segnato nel peggiore dei casi dalla paura e contemporaneamente dall’ammirazione per i feroci custodi della violenza; nel migliore, e' privo di futuro. Una terra dove le relazioni umane sono viziate da un deviato sentimento di rispetto, vincolato non alla dignita' umana, ma ai legami con le famiglie potenti, e chi non sta al gioco e' un “infame”. Su questi elementi “culturali” e sociali la ‘ndrangheta fonda il suo dominio piu' solido e profondo.

Per queste ragioni, la via d’uscita dalla guerra e dall’occupazione delle mafie non puo' avvenire solo per via militare e giudiziaria, ma ha bisogno di una risposta nonviolenta. Ha bisogno di una diffusa obiezione di coscienza da parte dei singoli e di una diffusa disobbedienza civile da parte dei popoli, nei loro territori: obiettare e disobbedire alla legge della violenza, della sottomissione, della rassegnazione. Ma perche' cio' possa avvenire e' necessario un profondo lavoro di “coscientizzazione”, come Paulo Freire definisce il primo passo della sua “pedagogia degli oppressi”, per aiutare chi nasce e cresce dentro un sistema di violenza a rendersene conto, a giudicarlo, a prenderne le distanze ed infine a combatterlo, obiettando e disobbedendo ai poteri occulti e disumani. Anche se annidati, come per Peppino Impastato, dentro la propria famiglia e tra gli stessi “amici”...

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotte del movimento dei lavoratori e delle classi sociali sfruttate ed oppresse?

- Pasquale Pugliese: Un rapporto strettissimo che passa anche attraverso il movimento sindacale. Il sindacato, infatti, oltre ad avere l’importante ruolo sociale e politico di tutela dei diritti dei lavoratori, sempre piu' violati in tutti i paesi da un capitalismo neoliberale senza vincoli e senza regole, e' anche il principale custode di un prezioso strumento di lotta nonviolenta: lo sciopero. Anche per questo, l’unica tessera che possiedo, oltre quella del Movimento Nonviolento, e' quella sindacale.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotte di liberazione dei popoli oppressi?

- Pasquale Pugliese: Credo che le lotte di liberazione in cui i popoli hanno usato la nonviolenza per uscire dal proprio stato di oppressione, interna o esterna, sono quelle che hanno realizzato i cambiamenti piu' profondi e duraturi: lo abbiamo visto nel corso del ‘900 in India, in Sudafrica, in Cile, nei paesi dell’Europa dell’Est. Altre lotte di liberazione sono oggi in corso e diversi popoli hanno scelto consapevolmente di usare la nonviolenza: i tibetani, i birmani, i saharawi. Penso, percio', che i nostri movimenti che si ispirano alla nonviolenza abbiano il compito di operare affinche' sempre piu' popoli si approprino degli strumenti nonviolenti per liberarsi dalle proprie catene. Rifuggendo, possibilmente, dai rischi della presbiopia sociale, che ti fa vedere piu' nitidamente le oppressioni geograficamente lontane, ma piu' confusamente quelle sotto casa: per esempio quelle subite dai migranti o dal popolo calabrese...

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e pacifismo?

- Pasquale Pugliese: I movimenti che si ispirano alla nonviolenza sono parte del piu' vasto movimento per la pace, ma stanno al suo interno con una propria specificita' che, a mio avviso, possiamo riassumere attraverso tre elementi caratterizzanti:

- assumono il problema della violenza nella sua portata piu' ampia e profonda, che riguarda non solo la guerra, ma anche quelle strutture economiche, politiche, militari, culturali che - oltre a renderla possibile - sono fattori di violenza esse stesse;

- lavorano non per un’utopia irenica - pace come assenza di conflitti - ma assumono la realta' dei conflitti come parte ineliminabile della condizione umana, dal piano inter-personale a quello inter-nazionale, e sperimentano pratiche e propongono interventi per trasformare i conflitti in senso meno distruttivo. Ricercando e indicando le alternative possibili alla violenza e alla guerra.

Conseguentemente, i movimenti che si ispirano alla nonviolenza sono per il superamento degli eserciti e degli armamenti e operano attivamente per loro sostituzione con quelle forme di difesa non armata e dal basso, che alcuni chiamano “difesa popolare nonviolenta” e altri “difesa civile” (rispetto a questi temi suggerisco le diverse ricerche e pubblicazioni di Alberto L’Abate, Tonino Drago e Nanni Salio).

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e antimilitarismo?

- Pasquale Pugliese: Per le ragioni indicate l’antimilitarismo e' costitutivo della nonviolenza. Ma credo che sia costitutivo anche dell’ispirazione piu' profonda presente nel patto fondamentale che e' la nostra, martoriata, Costituzione. Mi spiego: l’articolo 11 della nostra Carta fondamentale “ripudia” (che e' termine forte, che indica cio' che e' stato sperimentato con orrore e viene, per sempre, allontanato da se') “la guerra” non solo “come strumento di offesa alla liberta' degli altri popoli”, ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ma perche' il ripudio di questo mezzo sia effettivo, il diretto corollario e' che bisogna sostituire l’uso del mezzo militare, strumento di guerra, con altri mezzi capaci di risolvere le controversie in maniera non militare. E’ proprio per questo che oggi, in una legge dello stato - la numero 64 del 2001 istitutiva del Servizio Civile Nazionale - e' possibile che ci sia scritto, all’articolo 1, che il Servizio Civile, “e' finalizzato a concorrere, in alternativa al servizio militare obbligatorio, alla difesa della Patria con mezzi ed attivita' non militari”. Salvo che poi per la spesa “ordinaria” dell’apparato militare - quel mezzo ripudiato dalla Costituzione - vengono spesi oltre 20 miliardi di euro l’anno, mentre per il servizio civile - che dovrebbe declinare il “mandato” dell’art. 11 - c’e' un taglio continuo delle gia' poche briciole, che non solo non consentono al ServizioCivile Nazionale di “concorrere” con il servizio militare, ma riducono anno dopo anno il numero di giovani che sono disponibili a fare anche un “semplice” servizio connotato socialmente...

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e disarmo?

- Pasquale Pugliese: Per tutto ciò il rapporto tra nonviolenza e disarmo e' stringente, perche' nella preparazione bellica si sperperano ogni anno esattamente tanti miliardi quanti ne taglia Tremonti alle spese sociali nelle sue finanziarie. Non solo tagliare scuola, sanita', cultura, stipendi, pensioni ecc. e' una violenza in se', ma non tagliare le spese per gli armamenti e il mostruoso apparato militare impedisce anche di sperimentare qualunque forma alternativa di difesa. Del resto, le spese militari, non sono volte piu' alla “difesa” ma soprattutto all’offesa perche', come ha scritto il Movimento Nonviolento nel documento di adesione allo sciopero generale della Cgil contro la legge finanziaria, “agli oltre 20 miliardi di euro previsti per le spese 'ordinarie' di mantenimento di un apparato sprecone, in cui i comandanti sono piu' dei comandati, lo stesso governo dei 'tagli' sta per sommare altri 16 miliardi di spese per l’acquisto di 131 caccia F-35, aerei da attacco capaci di trasportare anche armi nucleari”.

Tutto ciò, e molto altro, e' ben documentato nel recente libro di Vignarca e Paolicelli, Il caro armato. Che consiglio.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione filosofica?

- Pasquale Pugliese: Non e' facile rispondere a una domanda di tale profondita' e vastita' nel corso di un’intervista. Provo tuttavia ad indicare, solo superficialmente, alcuni “guadagni” di pensiero - rilevanti per la mia formazione - apportati alla riflessione filosofica da quegli “amici della nonviolenza” che piu' di altri ne hanno esplorato il sentiero filosofico: Aldo Capitini, Giulino Pontara e Jean-Marie Muller.

Aldo Capitini ha svolto una critica serrata alla realta' attuale nella sua totalita', dalla dimensione ontologica a quella politica, e si e' confrontato con le grandi correnti filosofiche e religiose del passato e del presente che hanno dato legittimita' etica e religiosa all’esistente (idealismo e cristianesimo, su tutte) oppure che non sono riuscite a trasformare la critica in prassi di trasformazione (esistenzialismo). Capitini ha elevato una protesta cosmica nei confronti del male, della violenza e del dolore ed ha assunto la nonviolenza come principio trasformatore della realta', capace di incidere nelle trame profonde della relazioni umane e naturali. Agire attraverso la “prassi pura” della nonviolenza significa aprire, hic et nunc, spazi e tempi di realta' liberata - realta' di tutti - all’interno delle chiusure e finitezze della realta' attuale. Cio' segna anche la distinzione tra l’utopia e la “persuasione” o la profezia. Lo ha segnalato bene Norberto Bobbio (che ha inserito Capitini tra le poche figure di intellettuali italiani presentate nel suo Maestri e compagni), nell’introduzione al libro di Capitini, pubblicato postumo, Il potere di tutti: “Il profeta, in quanto volto alla realta' da liberare, e' proteso verso il futuro. Anche l’utopista guarda al futuro. Ma il profeta non e' l’utopista. Mentre l’utopista disegna una stupenda struttura di societa' ideale ma ne rinvia l’attuazione a tempi migliori, il profeta comincia subito. Qui ed ora”. E lo puo' fare perche' agisce sui mezzi. Nella filosofia politica occidentale la violenza e' da sempre legata alla politica nella misura in cui da questa e' esclusa la dimensione etica. Cio' ha fatto si' che si venisse a creare una dicotomia tra il mezzo che, sciolto da ogni vincolo etico, puo' essere comprensivo di qualunque strumento, anche il piu' violento e distruttivo - come ha dimostrato tragicamente la storia del ‘900, da Auschwitz a Hiroshima - e il fine della politica che e' il governo della comunita'. Per Capitini, che ha introdotto nella riflessione filosofica il rapporto mezzi/fini come fissato da Gandhi nella prassi, la nonviolenza si oppone a questa separatezza e ricolloca l’etica all’interno dell’agire politico, operando in tal modo una rivoluzione culturale rispetto all’intera tradizione occidentale - da Machiavelli a Weber a Lenin - che vuole la guerra come via alla pace, l’autoritarismo alla liberta', la violenza alla rivoluzione. In questo senso, l’opera filosofica di Aldo Capitini in Italia e', per certi versi, paragonabile a quella di Hannah Arendt in Germania, entrambi impegnati a ricostruire - fuori dai partiti - la legittimita' dell’azione politica nei paesi che hanno portato alle estreme conseguenze la sua separazione dall’etica, dando vita al fascismo e al nazismo.

Giuliano Pontara, ha condotto questa ricerca sul rapporto tra etica e politica, per un verso, fino ai luoghi costitutivi delle categorie profonde della cultura occidentale, nella tragedia greca e, per altro verso, fino ad un’analisi minuziosa e generativa del satyagraha gandhiano. Contribuendo in maniera significativa al riconoscimento della dignita' di filosofia pratica - valida anche per l’Occidente e per il XXI secolo - alla proposta di Gandhi. Anche, tra l’altro, attraverso un serrato confronto con il marxismo. Pontara individua gia' nella giovane Antigone, in conflitto con il re di Tebe, Creonte, suo zio, la figura che mette in crisi le leggi scritte della citta' a partire dalle leggi non scritte della coscienza, attraverso un’azione di disobbedienza per la quale paga con la vita. E’ con Antigone che la categoria della disobbedienza civile entra per la prima volta nella storia, ma solo alcuni millenni dopo assumera' dignita' politica. Anche attraverso l’esperienza gandhiana. Pontara rivolge, infatti, grande attenzione alla “teoria e pratica della nonviolenza” come sperimentata dal movimento gandhiano e, in particolare, al metodo di lotta “satyagraha” (la forza della verita'), individuandone i sei principi di base, necessari per fare dell’azione politica un’azione etica fondata sulla coscienza: Principio di astensione dalla violenza; Principio di adesione alla verita'; Principio di auto-sacrificio; Principio dell’agire costruttivo; Principio del compromesso; Principio di gradualita' dei mezzi.

Principi che mantengono la propria validita' filosofica e pratica anche di fronte a quelle “tendenze naziste” che Pontara vede dilagare nella realta' attuale, che definisce della “barbarie”: la visione del mondo come teatro di una spietata lotta, il diritto assoluto del piu' forte, lo svincolamento della politica da ogni limite morale, l’elitismo, il disprezzo per il debole, la glorificazione della violenza, il culto dell’obbedienza assoluta, il dogmatismo fanatico. A questa “Weltanschauung” Pontara contrappone quella nonviolenta, ritenendola l’unica realmente alternativa, appunto “l’antibarbarie”: il mondo come teatro delle forze costruttive, il primato della democrazia, la subordinazione della politica all’etica, l’umilta' dell’egualitarismo, l’empowerment dei deboli, la dissacrazione della violenza, la responsabilita' della disobbedienza, il fallibilismo.

Anche Jean-Marie Muller, in particolare ne Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, si occupa di nonviolenza in chiave filosofica a partire da un’analisi della violenza nella nostra cultura. “La cultura”, afferma Muller, “coltiva la violenza (coltivare viene dal latino 'colere' che significa nello stesso tempo 'coltivare' e 'onorare') inculcando negli individui l’idea che essa e' la virtu' dell’uomo forte, dell’uomo coraggioso, dell’uomo d’onore che assume il rischio di morire per difendere i valori che danno un senso alla sua vita”. Anzi, insiste, assistiamo, piuttosto che alla sua messa al bando, alla banalizzazione della violenza, che e' una modalita' ancora piu' pervasiva di diffusione. Dunque, per poter esercitare una critica nei confronti della violenza il primo passo da compiere e' quello di ”prendere una distanza dalla nostra cultura per disapprendere quello che abbiamo appreso, per rinnovare il nostro sguardo sull’uomo e sul mondo, per ri-pensare il nostro pensiero. Si tratta di mettere in dubbio le nostre credenze per riprendere coscienza, per ri-prendere conoscenza”. E dopo un’analisi distintiva tra la violenza e le parole con le quali viene spesso confusa (conflitto, aggressivita', lotta, forza e costrizione), necessaria perche' “questa confusione di linguaggio esprime confusione di pensiero”, Muller passa ad occuparsi della nonviolenza come esigenza filosofica, che cosi' definisce: “la nonviolenza non e' una filosofia possibile, non e' una possibilita' della filosofia, e' la struttura della filosofia. Disconoscere questa esigenza o, peggio ancora, rifiutarla, e' negare la possibilita' umana di spezzare la legge della necessita', e' negare all’uomo la liberta' di affrancarsi dalla fatalita' per diventare un essere ragionevole”. Muller svolge l’argomentazione di questa affermazione, all’interno del suo volume, attraverso un dialogo serrato con l’intera storia della filosofia, rappresentata, tra gli altri, da Levinas, Machiavelli, Hegel, Max Weber, Aristotele, Hannah Arendt, Popper, Clausewitz, Eric Weil e, infine, Gandhi. Volume cui, naturalmente, rimando.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione delle e sulle religioni?

- Pasquale Pugliese: Questo e' un terreno sul quale non mi addentro perche' non ho molto di significativo da dire, se non che per me ha un senso molto importante la constatazione che la maggior parte dei maestri di nonviolenza: a) abbiano avuto riferimenti religiosi; b) hanno avuto riferimenti religiosi differenti. Cio' mi fa pensare ad un trans-religiosita' della nonviolenza, che si associa a quella trans-culturalita' di cui abbiamo gia' detto. Rimando, inoltre, chi volesse approfondire questo aspetto al volume Convertirsi alla nonviolenza. Credenti e non credenti si interrogano su laicita', religione, nonviolenza, a cura di Matteo Soccio.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sull'educazione?

- Pasquale Pugliese: Da quanto detto rispetto al rapporto tra nonviolenza e filosofia, risulta anche evidente il nesso tra nonviolenza e prospettiva educativa. Naturalmente, molte sarebbero le cose da dire, ma provero' a concentrarmi, sinteticamente, su alcuni elementi che considero essenziali.

Le cosiddette “agenzie educative”, prime tra tutte la famiglia e la scuola, veicolano un doppio livello di apprendimenti, uno di tipo piu' culturale, rivolto ai saperi intellettuali, ed uno piu' relazionale, rivolto ai saperi sociali. L’approccio educativo nonviolento propone un contributo specifico su entrambi i piani, che ritiene non possano essere sconnessi e scollegati, ma anzi vanno saldamente tenuti insieme. Proviamo a vedere brevemente.

Nel preambolo della Costituzione dell’Unesco del 1945 e' contenuta la famosa dichiarazione: “Poiche' le guerre cominciano nelle menti degli uomini, e' nelle menti degli uomini che si devono costruire le difese alla pace”. Per trovare conferma o meno a questa affermazione, negli anni ’80, l’Agenzia delle Nazioni Unite per la Cultura ha commissionato ad un’equipe di studiosi internazionali una ricerca multidisciplinare sulle cause della violenza, passata - poco, in verita' - alla storia con il nome di “Dichiarazione di Siviglia”. Dopo una puntuale decostruzione dei molti pregiudizi e luoghi comuni sull’inevitabilita' biologica della violenza, gli autori concludono con una riaffermazione del ruolo della cultura nell’orientare gli individui e le societa' verso la violenza o la nonviolenza: “Cosi' come le guerre cominciano nella mente degli esseri umani, anche la pace comincia nella nostra mente. La stessa specie che ha inventato la guerra puo' inventare la pace. In questo compito ciascuno di noi ha la sua parte di responsabilita'”. Diversi studiosi anche in tempi piu' recenti hanno confermato la validita' scientifica della ricerca: cito per tutti il lavoro del biologo Piero Giorgi La violenza inevitabile. Una menzogna moderna, del 2008. Studiosi come Girard, Galtung e Muller, inoltre, si sono incaricati di spiegare i meccanismi di generazione e di “permanenza” della cosidetta “violenza culturale”, che giustifica e legittima le altre violenze, in particolare la guerra, facendole apparire come inevitabili. A questo punto e' evidente l’importanza, anzi la necessita’, di una educazione nonviolenta: essa ha la funzione di aggredire la violenza culturale attraverso una decostruzione delle categorie consolidate di interpretazione della realta', nell’ottica batesoniana dell’”apprendimento di terzo livello”: aiutare ad “apprendere a disapprendere”. Per poi sostituire, maieuticamente, la legittimazione culturale della guerra con la ricerca e la proposta delle alternative possibili. Anche attraverso la lettura e l’interpretazione critica dei contenuti didattici. Naturalmente, se questa e' la portata del compito, e' chiaro che, per dirla con Morin, ”c’e' un’inadeguatezza sempre piu' ampia, profonda e grave tra i nostri saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realta' e problemi sempre piu' polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari, dal’altra”. Lo sguardo competente e lucido della complessita', capace di ricondurre reciprocamente le dimensioni locali e quelle globali, e' pertanto una prima acquisizione di cui devono dotarsi insegnanti ed educatori per delegittimare la cultura riduzionista della violenza e promuovere la cultura e i saperi della nonviolenza.

Questo guadagno culturale, seppur necessario, non e' ancora sufficiente per un’educazione nonviolenta, perche' gli educatori e gli insegnanti svolgono un ruolo cruciale anche rispetto all’acquisizione dei saperi sociali. Infatti l’uso della violenza, a tutti i livelli, da quello interpersonale a quello internazionale, e' sempre il tentativo di risolvere un conflitto, ma il suo effetto e' esattamente quello contrario di alimentare dell’altra violenza, attraverso quei meccanismi descritti puntualmente dall’antropologa Pat Patfoort, di escalation e/o di catena e/o di interiorizzazione (sui quali si puo' vedere in particolare Difendersi senza aggredire. La potenza della nonviolenza). In tutti i casi, la violenza fa degenerare i conflitti da eventi fisiologici della relazione umana in eventi patologici e distruttivi. Percio', la capacità di trasformare i conflitti in occasione di relazione piu' profonda con l’altro/gli altri, ossia specificamente la pedagogia della nonviolenza, e' l’altra acquisizione di cui devono dotarsi educatori e insegnanti, per poter aiutare maieuticamente bambini e ragazzi a sperimentare direttamente relazioni ispirate alla nonviolenza nel quotidiano. Specialmente nei momenti di crisi dei conflitti.

Nella scuola italiana di oggi un terreno fondamentale, e al contempo un’occasione formidabile, per l’apprendimento di nuovi saperi relazionali e' quello legato alla gestione delle differenze conflittuali nella convivenza interculturale. Come ho raccontato in un recente articolo su "Azione nonviolenta" (7/2010), a cui rimando per gli approfondimenti, nel febbraio scorso e' passata sotto silenzio la presentazione alle Camera dei Deputati di una interessante ricerca promossa dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative regionali, e commissionata all’istituto di ricerca Swg, sul tema “Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti”. Dall’indagine emerge la realta' dell’enorme espansione di sentimenti e atteggiamenti razzisti tra i giovani italiani dai 18 ai 29 anni (fino a picchi di due su tre). Poiche' la giovane eta' degli intervistati indica un campione da poco uscito dal circuito scolastico, questi risultati sono da cogliere come un segnale del fallimento dell’approccio pedagogico e organizzativo delle scuole italiane rispetto al dato strutturale degli studenti provenienti da famiglie migranti. Pur tralasciando quelle scuole che hanno gestito il tema migrazione/intercultura in chiave emergenziale (spesso costituendo de facto delle classi ghetto) e concentrandoci su quelle scuole che rivolgono le giuste attenzioni nei confronti di chi arriva e deve essere accolto (costruendo protocolli di accoglienza, laboratori linguistici e quant’altro previsto dalle buone prassi), risulta tuttavia che esse non si sono preoccupate di mettere a fuoco un’idea di intercultura come educazione alla convivenza interculturale, ossia come un processo di apprendimento diffuso di nuove competenze relazionali, all’altezza dei saperi necessari nell’epoca della complessita'. Necessari per tutti, a cominciare dai ragazzi italiani. Si continua, al contrario, a parlare di “integrazione” degli alunni stranieri, intendendo di fatto favorire il loro processo di assimilazione all’interno di un contesto dato, senza mettere mai in discussione quel contesto e la parzialita' dei saperi di coloro che gia' lo abitavano. Si chiede a chi arriva di integrarsi, ma non si chiede (e non si insegna) a chi c’era gia' di imparare a con-vivere con le molteplici differenze. Anche quando complicano gli assetti relazionali.

Ecco, ancora una volta, la necessita' della pedagogia della nonviolenza.

Ma la scuola, sappiamo, versa in una crisi profonda alimentata da questo regime che il poeta Giancarlo Majorino chiama, non a torto, “dittatura dell’ignoranza”. Di fronte all’umiliazione della scuola e della cultura io credo che gli amici della nonviolenza non possano rimanere inerti, ma debbano impegnarsi - come sempre - su due versanti: quello di accompagnare le lotte e le campagne degli insegnanti e degli educatori a difesa del diritto di tutti alla conoscenza; quello di provare a costruire luoghi educativi e formativi per tutti, come hanno fatto la maggior parte dei maestri di nonviolenza, nei quali sperimentare - qui ed ora - pedagogia e metodi della nonviolenza. Questa e' l’ispirazione che, nel nostro piccolo, ci guida a Reggio Emilia nell’esperienza della Scuola di Pace; questa credo che sia anche l’ispirazione del Decennio Onu “per una cultura di pace e nonviolenza per i bambini del mondo”, che sta volgendo al termine e sul quale andrebbe fatto un bilancio.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sulla scienza e la tecnologia?

- Pasquale Pugliese: Suggerisco la lettura di un libro del filosofo Gunther Anders che per me e' stato di fondamentale importanza: Essere o non essere: diario di Hiroshima e Nagasaki.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione storica e alla pratica storiografica?

- Pasquale Pugliese: Rispetto alla riflessione storica credo che ci sia molta strada da fare perchee' ho l’impressione che - nonostante i grandi progressi svolti dalla pratica storiografica del ‘900, penso per esempio alla scuola delle Annales - il paradigma storiografico largamente dominante continui a considerare ancora i cambiamenti e i movimenti nella storia solo quando sono collegati ad eventi violenti o bellici. Anzi, il mito della “violenza levatrice della storia” e' i tra quelli che presidiano maggiormente la tenuta del modello culturale dominante, tanto a destra quanto a sinistra. Generalmente gli storici tendono a trascurare gli approfondimenti su quelle azioni trasformative, a volte anche rivoluzionarie, che non hanno visto in campo l’uso della violenza o, magari, lo hanno prevenuto. Per esempio, e' ancora da scrivere una storia sociale della resistenza non armata (e a volte decisamente nonviolenta) al fascismo e al nazismo, che pure e' stata la forma di opposizione che ha coinvolto le piu' larghe masse di cittadini europei, e di cui c’e' ancora testimonianza e memoria in tutti i borghi e in tutte le contrade. Gli unici esempi di ricerca storica in controtendenza che conosco, rispetto a questo argomento, sono quelli di Jacques Semelin in Francia, che ha scritto il volume Senz’armi di fronte a Hitler, e i lavori di Anna Bravo in Italia, in particolare sulla resistenza civile delle donne. Oltre naturalmente la ricerca sulla storiografia curata da Enrico Peyretti. Mi sembra, francamente, che quello storico sia un versante sul quale c’e' ancora molto da ricercare.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come caratterizzerebbe la formazione alla nonviolenza?

- Pasquale Pugliese: Poiche' la nonviolenza non e' una filosofia e non e' una tecnica, ma e' l’uno e l’altro contemporaneamente e insieme, ed e' anche una visione dell’esistenza ed uno stile di vita, un’azione politica ed una pratica educativa, la formazione alla nonviolenza deve necessariamente muoversi su diversi piani e livelli. Inoltre, poiche' la questione della nonviolenza suscita ancora molti fraintendimenti, l’approfondimento e la chiarificazione concettuale e metodologica su tutti i temi che abbiamo attraversato credo che debba di/mostrare - nel confronto con i diversi problemi - quale sia “l’aggiunta” specifica dell’approccio nonviolento. Non ci sono, infine, percorsi di avvicinamento alla nonviolenza validi sempre e per tutti, ma sono collegati ai diversi contesti e alla sensibilita' di chi fa e di chi riceve la proposta formativa. Tra le altre, un’esperienza ormai ventennale che mi piace segnalare sono i campi estivi di formazione del Mir e del Movimento Nonviolento.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come caratterizzerebbe l'addestramento all'azione nonviolenta?

- Pasquale Pugliese: Non entro nello specifico della preparazione dell’azione diretta, nel quale ci sono formatori piu' esperti di me, se non per dire che l’azione nonviolenta e' costitutivamente azione educativa nei confronti di se stessi e degli altri, perche' il suo fine e' con-vincere, ossia vincere insieme... Constato, tuttavia, che ormai ci sono molti “manuali” (il primo in Italia e' stato scritto proprio da Capitini, con il titolo Le tecniche della nonviolenza) e molti corsi di formazione, ma poche sperimentazioni concrete.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali mezzi d'informazione e quali esperienze editoriali le sembra che piu' adeguatamente contribuiscano a far conoscere o a promuovere la nonviolenza?

- Pasquale Pugliese: Ho già citato “Azione nonviolenta” ed il sito del Movimento Nonviolento. Ci sono poi altre riviste cartacee di area nonviolenta e ricercando sui motori di ricerca di internet si trovano molte esperienze d’informazione on line. Un grande lavoro di qualita' e di approfondimento, svolto con la costanza della quotidianita', e' quello del notiziario on-line “La nonviolenza e' in cammino”, e dalle ulteriori emanazioni di esso. Si tratta, tuttavia, nel complesso di esperienze piuttosto frammentarie che non riescono a fare massa critica per uscire dai circuiti piu' o meno di nicchia degli addetti ai lavori. E questo e' un tema sul quale dovremmo aprire una riflessione collettiva.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali esperienze in ambito scolastico ed universitario le sembra che piu' adeguatamente contribuiscano a far conoscere o a promuovere la nonviolenza?

- Pasquale Pugliese: Come quella citata di Reggio Emilia, esistono ormai in Italia diverse altre esperienze di “Scuole di pace” e di educazione alla pace che operano in collaborazione con le scuola di ogni ordine e grado. Si contano invece, si' e no, sulle dita di due mani le esperienze universitarie italiane. Nel resto del mondo invece i cosiddetti peaces studies sono insegnati nelle universita' piu' prestigiose e si contano oltre 600 corsi di laurea.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: I movimenti nonviolenti dovrebbero dotarsi di migliori forme di coordinamento? E se si', come?

- Pasquale Pugliese: Rispetto alle forme di coordinamento in passato sono state fatte diverse iniziative su temi specifici, con maggiore o minore efficacia, ma mai strutturali e definitive. Ma nel prossimo futuro c’e' una data che, a mio avviso, puo' diventare il punto di contatto di tante storie e movimenti per la pace e la nonviolenza. E’ il 24 settembre del 2011, cinquantesimo anniversario della prima “Marcia per la pace e la riconciliazione dei popoli” da Perugia ad Assisi, fortemente voluta e organizzata da Aldo Capitini e dai pochi amici che poi diedero vita al Movimento Nonviolento. Da quella marcia, in questo mezzo secolo, molte storie e molti percorsi si sono dipartiti e molte altre volte la campagna umbra e' stata attraversata dalle bandiere della pace. Credo che, nel nome di Capitini, sia la preparazione di quella giornata un’occasione giusta per costruire, tutti insieme, un momento d’incontro capace di prospettare una nuova strada comune.

Anche di questo penso che parleremo nel prossimo congresso nazionale del Movimento Nonviolento (il XXIII), che si svolgera' a Brescia dal 29 ottobre al primo novembre 2010.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e movimenti sociali: quali rapporti?

- Pasquale Pugliese: Quando i movimenti di ispirazione nonviolenta sono entrati in maniera convinta dei movimenti sociali ritengo che abbiano dato un contributo significativo. Mi attengo ad un esempio che conosco direttamente, il cosiddetto “movimento dei movimenti”, o altermondialista, che ha accompagnato il passaggio di secolo con una mobilitazione planetaria di critica all’economia neoliberista ed alle sue guerre. Critica che aveva centrato, con almeno quindici anni di anticipo, le questioni centrali che oggi vengono al pettine con la crisi economica globale, da un lato, e con gli indicibili orrori in Iraq ed Afghanistan, dall’altro. In Italia, il canale di partecipazione dei movimenti nonviolenti al piu' diffuso movimento sociale e' stata l’esperienza della Rete Lilliput, la quale, seppur in un primo momento era vista come l’ala “religiosa “ del movimento, sempre piu' ha caratterizzato le sue azioni in maniera precisa fino ad essere indicata nelle ricerche sociologiche come la “componente etico-nonviolenta del movimento globale” (si puo' vedere, per esempio, l’interessante lavoro della giovane ricercatrice Laura Lombardo, Fra identita' e organizzazione. La rete Lilliput). La presenza di questa importante componente nonviolenta organizzata ha influito, direttamente e indirettamente, sull’atteggiamento complessivo del movimento il quale - anche di fronte ad una repressione feroce come quella avvenuta a Genova nel 2001, che in altre epoche avrebbe avviato una generazione alla scelta violenta - ha sostanzialmente tenuto, nel suo complesso, sulla nonviolenza al punto da far scrivere ad un autore come Erri De Luca, che di conflitti sociali se ne intende, “Tu con le tue passate notizie di piazze arrostite affumicate sei presso di lei scaduto: questa generazione ammette di subire violenza ma non vuole sporcarsene reagendo. Vuole che l’aggressione sia da una parte sola, snuda il loro diritto e lo mostra allo stato di natura, per quello che e': sopraffazione” (da Il contrario di uno).

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Potrebbe presentare la sua stessa persona (dati biografici, esperienze significative, opere e scritti...) a un lettore che non la conoscesse affatto?

- Pasquale Pugliese: Sono nato nel 1968 a Tropea, sul Tirreno calabrese, ho studiato filosofia e svolto il servizio civile al di la' dello stretto, Messina. Migrante in direzione Nord, come molti calabresi della diaspora, sono infine approdato a Reggio Emilia. Dove ho fatto per diversi anni l’educatore in un progetto del Comune chiamato Gruppi Educativi Territoriali. Ne sono poi diventato coordinatore, supervisore ed oggi mi occupo di progettazione educativa. Contemporaneamente, fin dai tempi dell’universita', ho mantenuto un costante dialogo con il Movimento Nonviolento grazie al quale sono maturate molte di quelle convinzioni che ho appena espresso. Da un po’ di tempo, accompagno la vita del movimento cercando di dare un contributo al suo coordinamento nazionale ed alla rivista “Azione nonviolenta”, sulla quale seguo, per lo piu', le tematiche educative. A Reggio Emilia, dopo aver partecipato negli anni, a molte “reti”, “coordinamenti” e “campagne”, negli ultimi tempi mi dedico alla Scuola di Pace, sia sul piano dell’organizzazione che della formazione (www.comune.re.it/scuoladipace). Da poco tempo sto provando anche a muovere i primi passi sul web, dove ho un “profilo” su facebook, nel quale sono attivi diversi contatti con amici della nonviolenza di tutt’Italia, e dove cerco di seguire un rudimentale blog nel quale, man mano, inserisco articoli e interventi e dove finira' anche questa intervista. (www.pasqualepugliese.blogspot.com). Tuttavia, tra tutte le attivita', quella principale, che richiede le mie migliori energie e mi da' le maggiori soddisfazioni, e' quella di papa' di due splendide bambine: Annachiara e Martina.

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- Paolo Arena e Marco Graziotti: C'e' qualcosa che vorrebbe aggiungere?

- Pasquale Pugliese: Ringraziare per questa intervista, nella quale ho cercato di soffermarmi sulle domande alle quali ritenevo di poter dare un particolare contributo di senso. Mi scuso percio' per la lunghezza di alcune risposte.

giovedì 29 luglio 2010

Teoria e pratica della nonviolenza tra mafie e razzismo

Un'esperienza di vacanza formativa a Tropea

Dal 9 al 12 settembre l'associazione "Antigone" propone un'esperienza di “vacanza-formativa” con un breve ciclo d'incontri di riflessione e studio dal titolo "Teoria e pratica della nonviolenza tra mafie e razzismo"
ed un soggiorno estivo, a metà tra collina e mare, tra i colori e la tranquillità della campagna calabrese e a 5' dal litorale tirrenico e da Tropea.

L'arrivo è previsto nel pomeriggio di giovedì 9 e la partenza nel pomeriggio di domenica 12.
Nei giorni 10/11/12 al mattino gli ospiti potranno partecipare agli incontri/laboratori di studio, dopo pranzo potranno autonomamente organizzare la propria vacanza.
I laboratori saranno guidati dal formatore Pasquale Pugliese
www.pasqualepugliese.blogspot.com

Gli ospiti alloggeranno in due casette immerse nel verde, con ingresso autonomo, ampio giardino, veranda e posto auto, situate sulla provinciale per Brattirò di Drapia:

- la prima casetta comprende 2 camere triple ben arredate, doppi servizi con box-doccia, cucinotto e soggiorno con TV satellitare;
- la seconda casetta è provvista di 3 camere doppie confortevoli, cucina ben arredata e bagno con box-doccia; i posti letto sono in totale 12.

Il costo è di 150 euro a persona,
e comprende alloggio, 11 ore di laboratorio formativo, coffee break, pranzo conviviale, consumi (gas-luce) e biancheria per la camera (esclusa la biancheria per il bagno).

Per contatti e prenotazioni: giusi.pugliese@gmail.com - cellulare: 340 8428029
- E' possibile prenotare fino al 20 agosto versando un anticipo di 30 euro -
Sconti del 15% su eventuali prenotazioni per la settimana successiva da parte degli ospiti che vorranno prolungare la propria vacanza a Tropea.

Programma dei laboratori:
Teoria e pratica della nonviolenza tra mafie e razzismo
E’ necessario dunque impegnarsi con la gente a produrre fatti nuovi, a tutti i livelli, che diano a ciascuno esperienza che, e come, è possibile il cambiamento; e suscitare occasioni di vera comunicazione tra persone di cultura e di vita diversa.
Danilo Dolci

Giovedì 9 settembre
nel pomeriggio, entro le h. 19.00

- arrivo e sistemazione dei partecipanti


Venerdì 10 settembre

h. 9.30 – 13.00 laboratorio:

- introduzione alla teoria e pratica della nonviolenza

h. 13.00 pranzo conviviale

pomeriggio, cena e serata liberi

Sabato 11 settembre
h. 9.30 –13.00 laboratorio:

- i conflitti interculturali e la lotta al razzismo

h. 13.00 pranzo conviviale

pomeriggio, cena e sera liberi


Domenica 12 settembre

h. 9.30 – 13.30 laboratorio

- la nonviolenza nella lotta alle mafie

h. 13.00 pranzo conviviale

pomeriggio: saluti e partenze


partecipanti (per la buona riuscita del laboratorio): min: 8.

lunedì 12 luglio 2010

“Io e gli altri”: la scuola e il razzismo dei giovani italiani.

di Pasquale Pugliese

(articolo pubblicato sul numero di luglio 2010 della rivista "Azione nonviolenta")


Nel febbraio scorso è passata sotto silenzio la presentazione alle Camera dei Deputati di una interessante ricerca promossa dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative regionali, e commissionata all’istituto di ricerca SWG, sul tema “Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti”. Dall’indagine, che ha coinvolto 2085 intervistati in tutta Italia tra i 18 e i 29 anni ( http://www.parlamentiregionali.it/documenti/ricerche/ricerche.php ), emerge una realtà che tutti coloro che frequentano il mondo della scuola avevano già percepito: l’enorme espansione di sentimenti e atteggiamenti razzisti tra i giovani. Tuttavia i curatori della ricerca avvertono che rispetto al passato non ci troviamo più di fronte a un’ideologia politica o una teoria pseudoscientifica a supportare gli atteggiamenti razzisti: a manifestarsi è, spesso, un sentimento di fastidio nei confronti del diverso che potremmo definire “istintuale”, dettato da ragioni di ordine emotivo, pseudo-sicuritario e a-razionale. Questo sentimento di fastidio e antipatia, man mano crescente in riferimento ai gruppi nazionali/culturali indicati, raggiunge picchi fino al 47 % degli intervistati (quasi uno su due) nei confronti della categoria indistinta mediorientali/arabi/musulmani e addirittura fino al 69 % (ossia oltre due giovani su tre) nei confronti delle popolazioni rom e sinta.
Poiché la giovane età degli intervistati indica un campione da poco uscito dal circuito scolastico, accanto ai molti discorsi che si potrebbero fare sui piani sociologico, culturale e politico, mi sembra giusto segnalare come i dati che emergono da questa ricerca indicano il fallimento di un approccio pedagogico e organizzativo della scuola italiana che ha gestito il tema migrazione/intercultura all’interno di uno spettro che va dalla gestione dell’emergenza tutte le volte che in classe arriva un ragazzo straniero, alla costituzione "de facto" di classi ghetto fino - nel migliore dei casi - ai percorsi di integrazione degli alunni immigrati. Per sviluppare un ragionamento a commento dalla Ricerca indicata, tralasciamo le posizioni esplicitamente incapaci/escludenti nella gestione del fenomeno migratorio all’interno della scuola (rimandando ai molti approfondimenti disponibili su questo tema, tra i quali “l’inchiesta del mese” sul numero di “Animazione sociale” di gennaio 2010 su L’integrazione dei ragazzi stranieri alle superiori) e ci concentriamo sui tentativi messi in atto nelle scuole “virtuose”. Cioè in quelle scuole che rivolgono le giuste attenzioni nei confronti di chi arriva e deve essere accolto, costruendo protocolli di accoglienza, laboratori linguistici e quant’altro previsto dalle buone prassi, ma che non si sono preoccupate di mettere a fuoco un’idea di intercultura come educazione alla convivenza interculturale, ossia come processi di apprendimento diffuso di nuove competenze relazionali, all’altezza dei saperi necessari nell’epoca della complessità. Necessari per tutti, a cominciare dai ragazzi italiani. Si continua a parlare di integrazione degli alunni stranieri, intendendo di fatto favorire il loro processo di assimilazione all’interno di un contesto dato, senza mettere quasi mai in discussione quel contesto e la parzialità dei saperi di coloro che già lo abitavano. Si chiede a chi arriva di integrarsi, ma non si chiede (e non si insegna) a chi c’era già di imparare a con-vivere con le molteplici differenze. Si dimentica in questo modo uno dei capisaldi dei processi di costruzione della convivenza pacifica: la reciprocità. E si lasciano i giovani italiani senza anticorpi culturali di fronte alla “pedagogia razzista” diffusa ampiamente e costantemente dai mezzi di trasmissione e costruzione del senso comune.
Eppure, già nel 2007, al tempo del secondo governo Prodi si era tentato di delineare una “via italiana per la scuola interculturale”, articolata all’interno di un importante documento nel quale è scritto che scegliere l’ottica interculturale significa non limitarsi a mere strategie di integrazione degli alunni immigrati (…). Si tratta, invece, di assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della scuola nel pluralismo, come occasione per aprire l’intero sistema a tutte le differenze (…) promuovendo il confronto, il dialogo ed anche la reciproca trasformazione, per rendere possibile la convivenza ed affrontare i conflitti che ne derivano. (http://archivio.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/pubblicazione_intercultura.pdf ). Ma, com’è avvenuto per un analogo documento emanato dal Ministero nello stesso periodo (ottobre 2007) sul tema parallelo dell’educazione alla pace (“Linee guida per l’educazione alla pace”), anche questo, seppur non abrogato formalmente, è rimasto lettera morta e sepolta, da tutte le contro-riforme razziste che sta mettendo in campo il governo attuale dentro e fuori dalla scuola.

sabato 26 giugno 2010

Si raccolgono i frutti velenosi della "pedagogia" della barbarie

di Pasquale Pugliese

(articolo pubblicato su "Azione nonviolenta", giugno 2010)

Che sia in atto da tempo nel nostro paese una “pedagogia” razzista di massa, di cui la Lega è la punta più “avanzata”, è un fatto rilevato dagli studiosi più attenti alle dinamiche sociali e culturali (vedi, tra gli altri, Annamaria Rivera Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo. Edizioni Dedalo 2009). Così come la ricaduta di questo processo sul piano elettorale è sotto gli occhi di tutti. A tal proposito scrive ancora la Rivera a commento del risultato delle ultime elezioni regionali: “Le ragioni della disfatta del centrosinistra, e ancor di più della sinistra che si vuole alternativa, stanno anzitutto nell'incapacità di comprendere e analizzare questa mutazione. Non aver capito o voluto capire a suo tempo che la Lega Nord andava esercitando una pedagogia di massa”. (da La mutazione italiana su il manifesto, 31 marzo 2010).
Oggi questa “pedagogia” razzista ha le sue applicazioni anche nell’organizzazione scolastica, secondo una linea espressa con la consueta rozzezza ed efficacia dal fondamentalista padano Mauro Borghezio: “i padri devono capire che se vengono a procreare qui da noi gli effetti ricadono sui figli” (da La guerra ai bambini di Luca Telese su Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2010). E’ il capovolgimento dei principi affermati nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, ratificata dall’Italia nel 1991: “Gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari” (www.unicef.it.). Tale capovolgimento è il principio (sia nel senso di inizio che di fondamento) della barbarie, da cui discendono le applicazioni scolastiche.
Alcune applicazioni sono di carattere nazionale, per esempio il tetto del 30% dei bambini “stranieri” nelle classi, fissato dalla ministra Gelmini: questa norma è del tutto ideologica, perché indica la “stranierità” a partire dall’assenza della cittadinanza italiana, che si può conseguire solo dal diciottesimo anno di età, anche se si è nati in Italia e si parla perfettamente l’italiano…con l’accento locale. Infatti sono scattate subito alcune deroghe. Ma laddove si applicherà avrà un effetto punitivo nei confronti dei più deboli, perché costringerà i bambini ultimi arrivati, che avrebbero bisogno di un nuovo radicamento territoriale, a mendicare una scuola dove essere accolti, lontano da casa, in un altro quartiere, accompagnati da mamme spesso prive di mezzi di trasporto.
Altre applicazioni della barbarie sono di carattere locale e riguardano quei comuni (Milano, Bologna, Parma…) che hanno deciso di escludere i bambini più piccoli dagli asili nido e dalle scuole dell’infanzia, perché figli di genitori “clandestini”. Discriminandoli nel loro diritto di iniziare quel processo di socializzazione con tutti i bambini, fin dalla prima infanzia, necessario non solo a loro, ma al futuro stesso della nuova società italiana.
Ancora, con crudeltà è l’applicazione della barbarie quando discrimina i bambini tra coloro che possono o non possono mangiare all’interno della stessa scuola, a secondo che i loro genitori abbiano pagato o meno la retta. Come abbiamo appreso dall’eco mediatica suscitata da queste notizie riferite ad alcuni Comuni governati dalla Lega Nord, i bambini figli di genitori economicamente in difficoltà (prevalentemente figli di migranti) sono stati discriminati all’ora del pranzo, costretti a mangiare un panino (a Montecchio Maggiore, Vicenza) o ad allontanarsi dalla scuola (ad Adro, Brescia). I Sindaci piuttosto che provare a recuperare la somma dovuta agendo sui genitori, come si fa normalmente per una multa non pagata, hanno infierito direttamente sui bambini, sottratti al rito conviviale del pasto in comune con i loro compagni di classe.
Come ha avvertito qualche anno fa nel suo bel libro Giuliano Pontara (L’antibarbarie, EGA, 2006) siamo prepotentemente ripiombati sotto molti aspetti nell’epoca della barbarie e la nonviolenza ai diversi livelli – pedagogico, politico, culturale – deve sempre di più configurarsi come l’argine dell’anti-barbarie. Partendo anche dalle intuizioni educative di Aldo Capitini: “il bambino sta davanti a noi, non dietro di noi, anzi ci indica una realtà liberata dai limiti attuali”. (Oggi in L’educazione è aperta. Antologia degli scritti pedagogici a cura di Gabriella Falcicchio). Ossia, i bambini ci presentano un’esigenza avanzata di liberazione alla quale dobbiamo corrispondere operando oggi per la comunità aperta del futuro. Contro ogni barbarica chiusura.

domenica 16 maggio 2010

Destina il tuo 5 per mille al Movimento Nonviolento

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, al livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il Movimento persegue lo scopo della creazione di una comunità mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del Movimento Nonviolento sono:

1. L'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono pratimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.

Il Movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della libertà di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuazione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

Per dare forza al Movimento Nonviolento destina il 5 x 1000

codice fiscale
93100500235

Scrivi il codice fiscale e metti la tua firma nell'apposito spazio della dichiarazione dei redditi

domenica 9 maggio 2010

A Reggio Emilia verso la Perugia-Assisi

Venerdi 14 maggio

presso il circolo Arci PiGal .
via Petrella 2 .
Reggio Emilia

In collaborazione con l’Agenzia Tempo Presente,
Pollicino gnus
e il Circolo Arci PiGal

Da Reggio ad Assisi (via Perugia)…in marcia per la pace.
1961-2010: Una storia lunga mezzo secolo.

Il 24 settembre 1961 prendeva il via la prima “Marcia per la Pace e la fratellanza
tra i popoli” voluta da Aldo Capitini, fondatore del Movimento Nonviolento.
Da allora, quasi 50 anni fa, molti reggiani hanno percorso la strada che da Perugia
porta ad Assisi, incontrando il variopinto movimento per la pace italiano che ha
trovato in questo appuntamento un costante punto di riferimento. Ricavandone
linfa e motivazioni per l’impegno sul nostro territorio. In preparazione di questa
nuova edizione della Marcia, la Scuola di Pace – partendo dalla visione di un
breve fi lmato sulla Marcia del 1961 commentato da Gianni Rodari - propone
un momento di incontro tra tutti coloro che hanno animato nel passato e nel
presente il movimento per la pace a Reggio Emilia. E’ un appuntamento di
riflessione sull’impegno per la pace ieri e oggi, di memoria attraverso la visione documenti dell’archivio del movimento pacifista e nonviolento reggiano, di incontro con gli stands dei gruppi e delle associazioni che saranno presenti,
di festa e convivialità con musiche e danze, prima di partire ancora una volta per Assisi, via Perugia.

ore 18.00
Dopo la presentazione e la visione del documento fi lmato sulla prima Perugia-Assisi, e dopo una introduzione
a carattere storico a cura di Antonio Canovi sull’evoluzione del movimento per la pace nella nostra città
dagli anni ’60 in poi, saranno raccontate dai protagonisti, e intrecciate in una narrazione a più voci, alcune tra
le più importanti esperienze storiche e contemporanee del movimento per la pace reggiano:
- le azioni per il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza e per l’obiezione
alle spese militari;
- il lavoro per il disarmo negli anni ‘80
- il movimento per la pace nel mondo cattolico;
- le lotte eco-pacifi ste contro le centrali nucleari;
- i momenti di mobilitazione contro le guerre degli anni ‘90 e 2000;
- i centri di documentazione per la pace;
- l’esperienza della “rete lilliput”;
- progetti, percorsi ed esperienze di formazione ed educazione alla pace ed alla
nonviolenza;
- la Scuola di pace

Durante il pomeriggio ci sarà un Saluto del Sindaco, Graziano Delrio.

ore 20.30
Cena conviviale (al costo di 10 euro a persona: è necessaria la prenotazione)

a seguire
Danze popolari dal mondo, con l’Associazione “Balliamo sul mondo”

venerdì 16 aprile 2010

Conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire: "più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo" (Alex Langer)

di Pasquale Pugliese

(articolo pubblicato su "Azione nonviolenta", aprile 2010)

Le relazioni interculturali, che sono prima di ogni altra cosa relazioni tra persone che fanno riferimento a valori, norme e pratiche costruite in contesti e cornici culturali differenti, portano con sé un gradiente ineliminabile di conflittualità, dovuto alla co-esistenza su uno stesso territorio di stili di vita in parte – reciprocamente - differenti. E poiché queste relazioni – che accompagnano da sempre la storia dell’umanità - caratterizzano anche l’attuale varco della società italiana, rendendola sempre più complessa, è necessario oggi più che mai elaborare saperi diffusi capaci di sostenere le relazioni conflittuali, mettendone a valore l’arricchimento reciproco, al di là degli elementi di scontro. Se ciò non avviene, il dato conflittuale diventa predominante, fagocita tutto il resto e genera diffusione di paure, di insicurezza e quindi di razzismo. E il razzismo, una volta innescato si fa pian piano sistema e si sviluppa sui vari livelli della discriminazione: quello “culturale” e mass mediatico, quello normativo e legislativo e infine quello direttamente agito sui corpi dei migranti, in un circuito in cui le varie dimensioni si alimentano e rinforzano reciprocamente. E questo è proprio ciò che sta avvenendo in questa fase in Italia.
Perciò, parafrasando san Paolo (e citando Joan Galtung, che individua i tre elementi necessari per operare la trasformazione dei conflitti), a proposito dei saperi oggi indispensabili, potremmo dire: "queste sono le cose che rimangono: la nonviolenza, la creatività e l’empatia, ma (nei conflitti interculturali) tra tutte la più importante è l’empatia".

L’empatia per una convivenza dialogica
La filosofa Laura Boella, nel suo interessante lavoro sul "Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia" (Raffaello Cortina Editore, 2006) così definisce questo sapere: "l’empatia è l’atto attraverso cui ci rendiamo conto che un altro, un’altra, è soggetto di esperienza come lo siamo noi: vive sentimenti ed emozioni, compie atti volitivi e cognitivi. Capire quel che sente, vuole e pensa l’altro è elemento essenziale della convivenza umana nei suoi aspetti sociali, politici e morali. E’ la prova che la condizione umana è una condizione di pluralità: non l’Uomo, ma uomini e donne abitano la Terra". Questo atto è possibile solo attraverso l’incontro con l’altro, scoprendosi inevitabilmente dentro la relazione. E la Boella alcune pagine più avanti aggiunge: "l’emozione dell’ incontro è questo: lo sconvolgimento, lo stupore, la sorpresa derivanti dal nascere di una ricerca destata dall’apparizione dell’altro". Naturalmente, quanto più l’altro è altro, differente e portatore di differenze, tanto maggiore sarà lo sconvolgimento e tanto più sarà necessario operare una "ricerca", ossia apprendere a praticare l’empatia. Che, detto con una metafora corrente, significa mettersi nei suoi panni, "mettersi nei panni dell’altro".
Ma anche nell’empatia vi sono diverse gradazioni: c’è un livello massimo che coincide con la santità come praticata dal poverello di Assisi, Francesco, che sveste i suoi panni di ricco borghese e di cavaliere armato, per vestire - realmente - i panni degli altri del tempo, "i minores", i più poveri (e con questi nuovi panni può andare anche a trovare un altro altro, il sultano d’Egitto); o un livello di pari grandezza che è quello di Gandhi che sveste progressivamente i panni di avvocato dell’Impero britannico per cucire - realmente - e vestire i panni degli altri, della moltitudine dei poveri indiani. Ma all’interno delle relazioni interculturali non a tutti è chiesto di eguagliare questi livelli massimi di empatia: è sufficiente provare ad uscire dalle proprie cornici culturali, a decentrarsi dal proprio egocentrismo (o “egotismo”, come direbbe Aldo Capitini), cercando di guardare il mondo anche con gli occhi degli altri. A capire, e rispettare, il loro punto di vista sulle cose, anche se molto distante dal nostro. Ciò corrisponde alla 3^ regola dell’”arte di ascoltare”, delle sette proposte da Marianella Sclavi: "se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva" ("Arte di ascoltare e mondi possibili", Bruno Mondatori editore, 2003). Anche se non parla la tua lingua ed ha una prospettiva completamente differente. Nasce da qui la possibilità dell’unica convivenza possibile nel tempo della globalizzazione, della complessità e dei conflitti, quella che Ramin Jahanbegloo (autore di "Leggere Gandhi a Teheran". Marsilio 2008) chiama la "convivenza dialogica".

Guardare gli altri senza empatia
Altrimenti, senza il filtro relazionale dell’empatia, l’incontro con gli altri, piuttosto che convivenze dialogiche, genera l’avvio di quei meccanismi di difesa ed esclusione studiati dagli psicologi sociali (vedi per esempio di Giuseppe Mantovani "Intercultura". Il Mulino 2004 e "L’elefante invisibile". Giunti 2005) che portano dalle categorizzazioni mentali agli stereotipi, dagli stereotipi ai pregiudizi e dai pregiudizi alla discriminazione, cioè al razzismo. Senza scomodare le vicende più tragiche e terribili della storia del ‘900, che hanno avuto come motore proprio le ideologie fondate sul razzismo, questa narrazione dell’incontro non empatico con gli altri è possibile trovarlo nel cuore stesso delle società democratiche:
"generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche de legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra di loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini sempre anziani invocano pietà con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro…"
Questo testo di circa un secolo fa (citato da Marco Aime in "La macchia della razza". Ponte alle Grazie 2009), non parla degli albanesi o dei rumeni o dei rom, bensì degli italiani visti dall’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso degli USA nel 1912. Ma lo sguardo privo di empatia, tendente a costruire un modello umano altro, alieno, inchiodato alla sua “naturale” ed irriducibile differenza, senza alcun tentativo di com-prensione delle ragioni che fondano agiti e comportamenti presenti in tutti processi migratori, è lo stesso con il quale vengono sbrigativamente riassunti oggi in Italia i tratti degli “extracomunitari” e dei “clandestini”, parole passpartout e offensive volte, più che a definire i migranti, a segnalarne l’essenziale “alienità” e minacciosità.
Ciò non è dovuto solo al tradizionale “provincialismo” della società italiana, che adesso si scopre multiculturale ma impreparata sui saperi della complessità, bensì risponde ad una precisa strategia mediatica che fa della costruzione ed alimentazione della paura un business politico: più la gente ha paura più è alimentato il suo bisogno di sicurezza, che viene venduto dalla destra egemone sul mercato del consenso elettorale. E’ la strategia della paura, che per vivere ed alimentarsi ha bisogno della definizione di una riconoscibile minaccia interna.

La costruzione della minaccia interna: due ricerche
La strategia della paura prevede la costruzione quotidiana dell’insicurezza attraverso quella che il “Terzo rapporto sulla sicurezza in Italia” ( realizzato da Demos per la Fondazione Unipolis, in collaborazione con Osservatorio di Pavia), presentato nello scorso gennaio dal suo coordinatore Ilvo Diamanti, definisce la “bolla dell’insicurezza mediatica”, di cui se ne possono apprezzare i contorni mettendo a confronto i telegiornali italiani ed europei:
"dal confronto sulla criminalità tra i principali telegiornali pubblici e privati europei di Italia,
Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna nel periodo 2008-2009 si ricavano alcune significative peculiarità :
− la quantità di notizie relative alla criminalità in Italia è superiore a quella degli altri paesi
europei, soprattutto nelle reti pubbliche. Il Tg1 ha il doppio di notizie del Tg spagnolo e
venti volte in più rispetto al telegiornale tedesco;
− la pagina della criminalità in Italia è costante, l’agenda dei telegiornali francesi, inglesi,
tedeschi e spagnoli non rileva la presenza quotidiana di notizie criminali. L’agenda di quelli
italiani, invece, prevede almeno due notizie di criminalità tutti i giorni;
− la copertura mediatica della criminalità “comune” è una peculiarità dei telegiornali
italiani; nei telegiornali degli altri paesi europei, notizie di furti, rapine, incidenti
automobilistici non trovano rappresentazione, viceversa in quelli italiani i reati comuni
occupano circa il 60% di tutta la pagina dedicata alla criminalità".
(si può scaricare una versione sintetica della ricerca dal sito www.demos.it)
Per cui, seppur i reati contro la persona in Italia sono in costante calo da molti anni, la percezione diffusa è che vi sia invece un pericolo costante in agguato per tutti e per ciascuno all’interno delle nostre città. Il passo successivo nella strategia della paura è identificare nei migranti i soggetti portatori della minaccia. I quali, nelle rappresentazioni mediatiche non hanno volto e voce, non esistono, se non quando possono essere identificati come devianti e/o coinvolti in fatti di cronaca nera. Questo si evince chiaramente da un’altra indagine, la “Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani”, di qualche settimana anteriore alla precedente (dicembre 2009), a cura della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma, diretta da Mario Porcellini, che nell’introduzione tra le altre cose scrive:
"il ritratto delle persone straniere immortalato dai media si può così riassumere: è spesso un criminale, è maschio (quasi all’80%) e la sua personalità è schiacciata sul solo dettaglio della nazionalità o della provenienza “etnica” (presente spesso nel titolo delle notizie). (…) L’immigrazione viene raramente trattata come tema da approfondire e, anche quando ciò avviene, è accomunata alla dimensione della criminalità e della sicurezza. Anzi, la congiunzione e sovrapposizione del fenomeno migratorio e della sicurezza appare il paradigma interpretativo privilegiato dai media nei loro racconti delle attuali dinamiche in atto nel contesto italiano (…) Le parole, dunque, contribuiscono a tematizzare la presenza degli immigrati in Italia con un riferimento forte alla minaccia costituita dagli stranieri alla sicurezza degli italiani".
(si può scaricare una versione sintetica della ricerca dal sito www.unhcr.it)
La saldatura di insicurezza e migrazione nella percezione diffusa dell’opinione pubblica è dunque il lievito del razzismo.

Più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo
Che fare di fronte a questa strategia della paura che, attraverso la costruzione di una identificabile minaccia interna, fonda in Italia un sistema razzista sempre più ramificato ed articolato? Insieme alle necessarie lotte antirazziste a fianco delle vittime della discriminazione, Alex Langer ci indica la strada di un vero e proprio “programma costruttivo”, che fonda i saperi della con-vivenza, ossia della relazione empatica e dialogica tra differenti: "conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire". In mancanza di strumenti mediatici positivi altrettanto potenti di quelli che diffondono insicurezza e paura, è solo attraverso la conoscenza diretta della realtà e delle persone in carne ed ossa che in essa vivono che è possibile ridimensionare, e forse infine bucare, la “bolla mediatica” che ne dà una rappresentazione distorta e minacciosa. Solo conoscendosi, incontrandosi, comunicando e facendo delle cose insieme, si scoprirà che l’altro è prima di tutto un essere umano e che nessuno (se non i fondamentalisti di qualunque latitudine, padana e no) ha un’identità unica, ferma e irriducibile, ma tutti – personalmente e collettivamente - siamo in evoluzione verso una nuova civiltà, che come tutte le precedenti sarà meticcia. "La convivenza", scrive Langer a commento del terzo punto del “Decalogo per la convivenza inter-etnica”, "offre e richiede molte possibilità di conoscenza reciproca. Affinché possa svolgersi con pari dignità e senza emarginazione, occorre sviluppare il massimo possibile livello di conoscenza reciproca. “Più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo”, potrebbe essere la controproposta allo slogan separatista"…e razzista.