lunedì 5 marzo 2012

Giulio Girardi: la violenza è l'ultima parola della storia?


Una settimana fa, il 26 febbraio, dopo una lunga malattia è morto a 86 anni Giulio Girardi.



   Teologo e filosofo della liberazione, figura ponte tra la cultura cristana e quella marxista, tra la sinistra italiana e i movimenti di liberazione dll'america latina, Giulio Girardi negli ultimi anni aveva avviato, tra le altre cose, un'importante riflessione critica sulla nonviolenza, condensata anche nel libretto uscito nel 1999, seppur poco noto, Riscoprire Gandhi. La violenza è l'ultima parola della storia? (a cura del CIPAX, nella collana "Strumenti di pace").
    Mi piace ricordarlo proponendo l'ultima densa pagina di quel suo lucido lavoro.

    Al centro della nostra riflessione si poneva la domanda: è attuale Gandhi? Abbiamo subito precisato che l'attualità non riguardava solo un'alternativa strategica non violenta, ma un'alternativa globale di vita, di religione, di civiltà, di cultura. Per cui l'interrogativo si traduceva così: è attuale nei vari settori della società odierna (politica, economia, ecologia, religione, cultura, educazione) la ricerca di un'alternativa alla violenza, oppure è gicoforza riconoscere che la violenza, e quindi la morte, è l'ultima parola della storia? E' attuale nell'epoca della globalizzazione neoliberale un progetto di alternativa economica imperniato su comunità e progetti locali?
   La nostra riflessione è consistita, in definitiva, nell'approfondire il senso della domanda, cioè del progetto alternativo di civiltà che essa ipotizza, nei suoi molteplici aspetti. Tale esplorazione ha reso più evidente la totale inattualità di Gandhi dal punto di viosta della cultura oggi dominante: quella del neoliberalismo. Essa infatti non solo rappresenta una risposta radicalmente negativa agli interrogativi da lui sollevati, ma crea delle condizioni e dei condizionamenti tali, per cui le stesse domande sono soffocate, non possono più venire formulate, non hanno più senso. Soffocare le domande significa bloccare in partenza ogni ricerca intesa a rispondervi. Significa seppellire definitivamente la speranza.
   Riconoscere l'attualità di Gandhi significa invece rilanciare la sfida al fatalismo, scommettere sulla possibilità e sull'urgenza di una vittoria della forza del diritto, della verità, del'amore. Si tratta di una prospettiva puramente ideale? Si e no. Si, perché questo progetto non corrisponde a nessuna realtà esistente. No, perché esso, se adottato, influisce realmente sul presente come un'ipotesi storica feconda, che stimola la creatività intellettuale e l'audacia operativa a rompere le barriere del sistema di morte.
   Ecco perché la risposta alla domanda sull'attualità di Gandhi è così impegnativa. Perché è inseparabile dalle scelte di fondo, etiche, politiche, economiche e religiose di ciascuno e ciascuna. Il significato più profondo e più inquietante dell'incontro con Gandhi è proprio questo: ci obbliga a verificare le nostre scelte e a domandarci se esistano ancora per noi delle ragioni di vivere, di lottare e sperare.   

mercoledì 29 febbraio 2012

Cinque tappe in cinquanta giorni


La campagna di Reggio Emilia contro gli F-35



La campagna reggiana contro gli F-35 comincia di fatto il 7 gennaio quando, in occasione della visita del Presidente del Consiglio nella Città del Tricolore, mentre divampa il confronto tra contestatori e accoglienti, il Movimento Nonviolento di Reggio Emilia invia alla stampa una "lettera aperta" a Mario Monti. La lettera viene pubblicata su alcuni quotidiani locali, sia cartacei che on line, ed ha una certa diffusione sui social metwork http://24emilia.com/Sezione.jsp?titolo=Benvenuto+presidente+Monti%2C+ma+tagli+le+spese+militari&idSezione=32712

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Prima Tappa, 7 gennaio 2012

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"Lettera aperta al Presidente Monti, a Reggio Emilia il 7 gennaio a Reggio Emilia per il Tricolore

Benvenuto Presidente Monti, ma tagli le spese militari

Sig. Presidente,
riteniamo una scelta opportuna - e La ringraziamo per questo - quella di venire nella nostra Città a partecipare alle celebrazioni per il Tricolore, simbolo dell’unità nazionale e della coesione civile e sociale del nostro Paese.
Ci aspettiamo, tuttavia, che le politiche del Suo governo, chiamato a gestire la Cosa pubblica in un momento di grave crisi finanziaria e sociale, siano conseguenti a questo Suo importante gesto simbolico.
Noi crediamo che tagliare praticamente tutti i settori della spesa, senza scalfire minimamente le enormi spese militari che collocano l’Italia stabilmente all’8° posto al mondo per spesa pubblica in armamenti, non sia funzionale alla coesione civile e sociale del nostro Paese. Sono stati imposti pesanti sacrifici ai lavoratori, ai pensionati, ai ceti popolari e ai Servizi locali, ma noi crediamo che sia sacrosanto sacrificare invece l’acquisto dei 131 cacciabombardieri F35 capaci di trasportare testate nucleari, che hanno un costo complessivo di quasi 20 miliari di euro. L’importo di una manovra finanziaria!
Questa enorme spesa in micidiali strumenti di offesa, oltre ad essere contraria all’art. 11 della nostra Costituzione, che non solo “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionale”, in questo preciso momento storico è anche un’offesa a tutti i cittadini italiani che perdono il lavoro e non arrivano alla fine del mese.
Il Movimento Nonviolento - nel cinquantesimo anniversario della sua fondazione voluta da Aldo Capitini dopo la prima Marcia della Pace Perugia-Assisi - Le chiede il coraggio di avviare davvero il nostro Paese sulla strada di una prosperità che si coniuga con il disarmo, la pace e il lavoro, non con la proliferazione di orribili strumenti di guerra.
E’ stato calcolato che uno solo di questi cacciabombardieri costa quanto 183 asili nido. Ecco, dica da Reggio Emilia, dalla Città che vanta l’eccellenza italiana delle scuole dell’infanzia, che con le risorse risparmiate dalla rinuncia a questi scellerati armamenti saranno realizzati asili, scuole, biblioteche, università, che rappresentano la vera sicurezza per il futuro del nostro Paese.

Movimento Nonviolento

Centro di Reggio Emilia"
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Nelle settimane successive, il Centro del Movimento Nonviolento elabora e propone ad altre associazioni di area nonviolenta e pacifista un Appello al Consiglio Comunale perchè si pronunci contro l'acquisto dei caccia, che viene inviato alla stampa il 1° febbraio, con le seguenti sottoscrizioni: ANPI, Arci solidarietà, Berretti Bianchi, Caritas Diocesana, Centro Missionario Diocesano, Movimento Nonviolento, Pax Christi, Rivista Pollicino Gnus 
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Seconda Tappa, 1 febbraio 2012
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"Appello al Consiglio Comunale
Reggio Emilia, città di pace, esprima un No ai cacciabombardieri F35

Il nostro Paese sta attraversando una grave crisi sociale ed economica che vede il susseguirsi di manovre finanziarie, volte a pareggiare i conti dello Stato: si impongono drastici sacrifici ai cittadini con tagli agli enti locali, alla sanità, alle pensioni, all’istruzione, ma il Governo mantiene il programma di acquisto di 131 cacciabombardieri F35 “Joint Strike Fighter” al costo di circa 20 miliardi di euro (15 per il solo acquisto e altri 5 in parte già spesi per lo sviluppo e le strutture di assemblaggio), che si aggiungono alle spese militari "ordinarie" già superiori ai 20 miliardi di euro annui. L'importo di una manovra finanziaria di "lacrime e sangue"!
Noi crediamo che tagliare tutti i settori della spesa pubblica senza scalfire minimamente queste enormi spese per la guerra, aggravate dall'acquisto dei cacciabombardieri d'attacco capaci di trasportare testate nucleari, sia una doppia offesa: un'offesa alla Costituzione della Repubblica, che non solo “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionale”; un'offesa a tutti i cittadini italiani che perdono il lavoro, non arrivano alla fine del mese e vedono ridursi i servizi pubblici locali.
Siamo convinti che, sopratutto in un momento di crisi economica, per prima cosa siano da salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini, investendo soldi pubblici per creare i presupposti di un vero un risanamento del Paese, fondato sul lavoro per tutti, la coesione sociale e la convivenza civile. A ciò è contrario lo spreco di preziose risorse in costosi e minacciosi aerei da guerra, di un cui solo esemplare costa quanto 183 asili nido.
Per questo ci appelliamo al Consiglio Comunale di Reggio Emilia, sensibile ai temi del bene comune e della pace, chiedendo di deliberare la richiesta al Governo italiano di annullare almeno l'acquisto dei 131 cacciabombardieri F 35, azzerandone il programma, e destinare le risorse risparmiate alle spese sociali, educative, culturali e al rilancio del Servizio Civile Nazionale. Cioè a investimenti di pace e di vera sicurezza. Diversi importanti Comuni (Cuneo, Novara, Palermo, Padova, Pisa, Trieste, ecc) hanno già espresso la loro contrarietà a questa follia bellicista, altri stanno apprestandosi a farlo: è tempo che anche il Comune di Reggio Emilia, che esprime l'eccellenza nel campo dell'educazione, che promuove la Scuola di Pace insieme alla società civile e il cui Sindaco è presidente del Comuni d'Italia, faccia sentire con forza la sua voce contraria. Anche questa è un'azione educativa".
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Nel giro di poco tempo le associazioni sottoscrittrici, dalle 8 iniziali, nonostante il quasi silenzio della stampa cominciano a moltiplicarsi attraverso il passa-parola ed alcuni consiglieri comunali - i capogruppo di PD, SEL, Cinquestelle - sottoscrivono un ordine del giorno che recepisce integralmente i temi dell'appello convocando una conferenza stampa per il 16 febbraio, nella quale sono invitate le organizzazioni sottoscrittrici dell'Appello (ormai quarantadue) sono invitate a partecipare http://gazzettadireggio.gelocal.it/cronaca/2012/02/16/news/stop-all-acquisto-dei-bombardieri-reggio-si-mobilita-1.3187126
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Terza tappa, 16 febbraio 2012
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"La società civile reggiana contro gli F-35

Prima i ringraziamenti.
Alla società civile reggiana che sta realizzando una mobilitazione strordinaria che ha portato in due settimane a quadruplicare le adesioni all'appello "Reggio Emilia, città di pace, esprima un No ai cacciabombardieri F 35". Partito da una decina di associazioni prevalentemente pacifiste questo Appello ha visto, ad oggi, l'adesione di oltre quaranta organizzazioni trasversali della società civile, attraverso un passaparola che cresce di momento in momento.
Alla società politica che ha risposto positivamente, sottoscrivendo in maggioranza – e andando anche oltre la maggioranza di governo locale - un ordine del giorno che, recependo integralmente le richieste dell'Appello, sarà votato lunedì prossimo in Consiglio Comunale.
Di cosa stiamo parlando?
F35 “Joint Strike Fighter”, caccia supersonico, invisibile, di quinta generazione, ottimizzato per l'attacco al suolo e per sganciare bombe atomiche.
Uno solo di questi mostri costa in media circa 150 milioni di euro. L'equivalente di quanto costano oltre 180 asili nido. Più del doppio di quanto c'è in finanziaria, per il 2012, per l'intero Servizio Civile Nazionale, ossia 69 milioni di euro! E le comparazioni potrebbero continuare all'infinito.
Questo mostro è costitutivamente contrario alla Costituzione italiana, alla lettera ed allo spirito che informa la Costituzione nel suo insieme: all'art 11, che non solo “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionale” e all'art. 52, che richiama al dovere di "difesa della Patria" (e non solo difesa militare, come sancito dalla Corte Costituzionale e dalla legge istitutiva del Servizio Civile Nazionale), non all'attacco alle Patrie altrui, come invece è insito nell'idea stessa del caccia F-35.
Del resto, che queste armi di attacco e le molte altre già acquistate non servano nenache per le infinite missioni militari all'estero, nelle quali il nostro Paese è trascinato ininterrottamente dal 1991, non è un pacifista a dirlo ma il generale Fabio Mini, già comandante del contigente NATO in Jugoslavia: "nessuna delle operazioni militari iniziate 20 anni fa (...) ha mai richiesto una sola delle portaerei, un solo cacciabombardiere, uno solo dei carri armati che, nel frattempo, ci succhiavano risorse".
A cosa servono?
Lo stesso ammiraglio Di Paola (ma perchè nessuno parla più di conflitto d'interessi se un ammiraglio fa il ministro della difesa?) nell'annunciare il 15 febbraio in conferenza stampa che la spesa militare sarà redistribuita, sottolinea che il programma degli F 35, pur "riesaminato", "rimane un impegno importante dal punto di vista tecnologico, industriale ed occupazionale"! Ma il ministro Di Paola non è ministro della ricerca scientifica, nè delle attività produttive, tanto meno del lavoro: è il ministro della difesa e dunque deve dirci a cosa servono questi mostri dal punto di vista della difesa della Patria e come il loro acquisto sia coerente con la Costituizione! Se vengono acquistati per creare lavoro, diano quei 15 miliardi direttamente ai Comuni che sanno bene come creare lavoro e servizi pubblici locali!
In molte occasioni è stato detto dallo stesso ministro, e dai vertici delle forze armate, che questi armamenti servono a mantenere lo "status" internazionale dell'Italia. E in effetti il nostro Paese è piazzato stabilmente all'8° posto per spesa pubblica militare tra le potenze mondiali, come tutti gli anni ci ricorda l'autorevole Istituto di ricerca di Stccolma SIPRI. Ma è un ben povero e primitivo status internazionale quello che si basa sul mostrare i muscoli e la grandezza delle clave!
L'Italia è il fanalino di coda in tutti gli indicatori virtuosi tra i paesi occidentali: la povertà di cui si allarga la forbice rispetto alla ricchezza, l'abbandono scolastico, l'investimento nella ricerca e nell'università (che futuro ha un Paese in cui si spende per gli armamenti quattro volte di più di quanto si spende per l'università, come ci ha ricordato una recente inchiesta de "la Repubblica"?), l'analfabetismo di andata e di ritorno, la disoccupazione, il dissesto idrogeologico e via elancando...E tuttavia si spendono ogni anno, prioritariamente e stabilmente, oltre 20 miliardi di euro (l'importo di una finanziaria lacrime e sangue!) solo per le ordinarie spese militari. A cui si aggiunge la spesa pluriennale per gli F-35 e quella prevista per l'ammodernamento di altri oltre 70 sistemi d'arma.
Il "Programma Pertini": svuotare gli arsenali e riempire i granai
Per questi motivi le oltre 40 organizzazioni reggiane credono che sopratutto in un'epoca di crisi come l'attuale si debba applicare il "Programma Pertini": svuotare gli arsenali, strumenti di morte, e riempire i granai, strumenti di vita. Anche per non rischiare di finire come la Grecia che oggi si trova con i granai vuoti, ma con gli arsenali stracolmi di armi che deve pagare fino all'ultimo centesimo proprio a quei Paesi che le impongono il licenziamento selvaggio dei lavoratori e il taglio di tutti i servizi per restare nell'euro!
Per questo abbiamo chiesto anche al Consiglio Comunale, primo organo della democrazia sul territorio, di votare un ordine del giorno in cui si chieda al governo l'azzeramento e la completa fuoriuscita dal programma degli F-35. Ed abbiamo chiesto al nostro Sindaco Graziano Delrio di portare questa delibera a conoscenza di tutti Comuni in quanto Presidente dell'ANCI.
Per questo il 25 febbraio saremo in piazza, anche a Reggio Emilia, a raccogliere le firme, come in altre 100 piazze d'Italia, per tagliare le ali alle armi!"
(dall'intervento in conferenza stampa)
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L'ordine del giorno viene presentato nel Consiglio del 20 febbraio ma poi rimandato al Consiglio successivo del 27 febbraio.
Intanto, il 25 febbraio, anche a Reggio Emilia si svolge la giornata delle "Cento piazze contro gli F-35" all'interno della Campagna nazionale "Taglia le ali alle armi" http://space.comune.re.it/scuoladipace/index.php?id=00722 .
Per lo stesso giorno la Scuola di Pace aveva già in cantiere il Seminario storico sul tema "Ma la guerra no! L'epica dimenticata di Mario e Fermo" http://space.comune.re.it/scuoladipace/libreria/locandina25_02_2012.pdf , per cui le organizzazioni sottoscrittrici dell'Appello al mattino svolgono il presidio in piazza Martiri del 7 luglio per la raccolta delle firme, e al pomeriggio partecipano al Seminario, al cui interno continua la raccolta della firme e la sottoscrizione dell'Appello al Consiglio Comunale che raggiunge cinquantuno adesioni http://space.comune.re.it/scuoladipace/libreria/appelloalconsigliocomunale_F35.pdf .
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Quarta Tappa, 25 febbraio 2012
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"Ma la guerra no!
L'epica dimenticata di Mario e Fermo

Quando decidemmo di svolgere il seminario storico su Mario Baricchi e Fermo Angioletti proprio il 25 febbraio, nel preciso anniversario della loro morte avvenuta il 25 febbraio del 1915, non sapevamo ancora che questa data avrebbe coinciso con la giornata di mobilitazione nazionale "Taglia le ali alle armi" per fermare l'acquisto dei cacciabombardieri F-35. Oggi questa coincidenza ci riconsegna una giornata densa di un impegno raddoppiato, ma coerente nelle sue finalità: al mattino la raccolta di firme contro gli armamenti in piazza Martiri del 7 luglio, al pomeriggio seminario storico per riportare alla memoria la storia di una tragica serata di lotta reggiana, di quasi un secolo fa, contro l'ingresso della Patria nella "Grande guerra". Tra le due cose c'è un filo di continuità.
La "Grande guerra" fu chiamata così non solo per la sua dimensione intercontinentale ma sopratutto per la capacità distruttiva su larga scala messa in campo dagli eserciti. Quella guerra provocò la repentina riconversione delle moderne invenzioni tecniche in strumenti bellici, finalizzati al terrore di massa. Le nuove fabbriche fordiste - chimiche, meccaniche, areonautiche e navali - furono rapidamente convertite al servizio delle armi chimiche, dei carri armati, degli aerei da combattimento, dei sottomarini da guerra, moltiplicando la produzione in tutti i settori. La società e l'economia intera vennero coinvolte nello sforzo bellico e la guerra diventò, per la prima volta, di massa e totale. Un salto di qualità distruttiva definitivo, con 16 milioni di morti complessivi in quattro anni, che da allora in poi sarebbe stato sempre più amplificato, in un'escalation senza fine di armamenti, morte e distruzione. Fino ai campi di sterminio, fino ad Hiroshima e Nagasaki, e poi all'equilibrio del terrore, al napalm, all'uranio impoverito, alle armi battereologiche, ai cacciabombardieri nucleari, ai droni telecomandati...In un vortice di violenza, presente sia quando le armi iper-tecnologiche vengono usate ai quattro angoli del pianeta, sia quando si accumulano e praparano le guerre, sottraendo ingenti risorse alle spese sociali e colonizzando la cultura diffusa che non pre/vede e, quindi, rende possibili le alternative. Del resto la guerra risponde alla logica del fine da raggingere che giustifica l'impiego di qualunque mezzo. All'estremo capo contemporaneo di questo filo della ricerca del mezzo di terrore più micidiale, che ha iniziato ad essere srotolato cento anni fa, c'è oggi il folle acquisto dei caccia F-35.
E' quindi coerente promuovere mattino il presidio in piazza per raccogliere le firme per l'azzeramento del programma di acquisto e svolgere al pomeriggio un seminario storico alla Scuola di Pace per ricordare e ripercorrere la vicenda di Mario Baricchi e Fermo Angioletti.
Abbiamo incontrato la storia di Mario e Fermo non attraverso la Grande Storia, quella scritta nei testi "importanti", ma attraverso le piccole narrazioni marginali e "militanti": il racconto che ne ha fatto Marco Adorni nel numero di marzo di Pollicino gnus del 2011; il loro tornare durante il percorso storico sui movimenti per la pace in Italia ed a Reggio Emilia, svolto nello scorso autunno, a cura di Infoshop Sante Vincenzi e Scuola di Pace, insieme ad Antonio Canovi; la chiaccherata di fronte ad una birra, nella serata antimilitarista del 4 novembre organizzata dal Movimento Nonviolento di Reggio Emilia, con il giovane storico Marco Marzi; il breve e intenso testo per il progetto "gli occhi di" che ne ha fatto Arturo Bertoldi per l'ISTORECO http://www.gliocchidi.it/persone/mario_e_fermo .
Per questo alla Scuola di Pace abbiamo deciso che era necessario approfondire di più, che era importante ricercare ancora su questa piccola grande storia del movimento antimiliarista reggiano.
Personalmente, inoltre, da non reggiano trapiantato a Reggio Emilia da vent'anni, sento il bisogno di capire ancora una cosa: perchè in questa città che ha cura della propria memoria, che è attenta a ricordare i propri non pochi "martiri" - le vittime degli eccidi del nazifascismo così come i martiri del 7 luglio '60, di cui da poco tempo abbiamo celebrato con il rilievo necessario il cinquantesimo anniversario – è avvenuta una gigantesta rimozione di questa drammatica vicenda? Perchè questi "martiri" della pace sono stati dimenticati?
Ricostruire quei fatti, e con essi proporre una narrazione che faccia emergere il punto di vista di chi era contrario alla guerra, fornisce una prospettiva storica a chi anche oggi, nella stessa città s'impegna alle guerre attuali ed alla loro preparazione. Ossia nella campagna per il disarmo e contro gli F-35".
(dall'introduzione al Seminario)
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Lunedì 27 febbraio l'odg contro gli F-35 viene riproposto e, finalmente, votato dal Consiglio Comunale di Reggio Emilia. La notizia è ripresa e rilanciata sul piano nazionale http://www.disarmo.org/nof35/reggio-emilia-vota-contro-i-caccia-f-35
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Quinta Tappa, 27 febbraio 2012
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Ordine del giorno ex art.20 dei consiglieri Nasuti, Vecchi, Montanari Federico e Olivieri in ordine ad appello al Governo perché sia bloccato il programma per la produzione e l'acquisto di 131 cacciabombardieri.
 
Appello al Governo perché sia bloccato il programma per la produzione e l'acquisto di tutti gli F-35 cacciabombardieri Joint Strike Fighter e siano ridotte le spse militari e le risorse recuperate siano utilizzate per il welfare municipale, le politiche per il lavoro (ammortizzatori sociali, sostegno all'occupazione e all'imprenditoria giovanile) e il potenziamento e la valorizzazione del Servizio Civile Nazionale
 

Il CONSIGLIO COMUNALE DI REGGIO EMILIA
 

PREMESSO CHE:
Il nostro Paese sta attraversando una grave crisi sociale ed economica che vede il susseguirsi di manovre finanziarie, volte a pareggiare i conti dello Stato: si impongono drastici sacrifici ai cittadini con tagli agli enti locali, alla sanità, alle pensioni, all’istruzione, ma il Governo mantiene il programma di acquisto di 131 cacciabombardieri F35 “Joint Strike Fighter” al costo di circa 20 miliardi di euro (15 per il solo acquisto e altri 5 in parte già spesi per lo sviluppo e le strutture di assemblaggio), che si aggiungono alle spese militari "ordinarie" già superiori ai 20 miliardi di euro annui. 
L'importo di una manovra finanziaria di "lacrime e sangue"!  

Come rileva annualmente l'autorevole istituto internazionale del SIPRI di Stoccolma, l'Italia è l'ottavo Paese al mondo per spese militari, con 20.556,9 milioni di Euro per il 2010, con un incremento, per il 2011, dell'8,4.  A tali somme vanno poi aggiunti i circa 3 miliardi di Euro provenienti dai bilanci di altri ministeri che prevedono aperte finalità militari. 
 
 Dal punto di vista dell'attività produttiva in Italia, il settore degli armamenti è in piena espansione; come si è appreso lo scorso anno, l'Italia ha superato perfino la Russia, divenendo il secondo esportatore mondiale di armamenti, dopo gli Stati Uniti. 
 
Sul bilancio dello Stato, al momento, incombono ben 71 programmi di ammodernamento e riconfigurazione di sistemi d'arma, che ipotecano la spesa bellica da qui al 2026;
L’attuale governo non ha ritenuto, al momento, di diminuire le ingenti spese militari persistendo ancora il programma per l'acquisto di 131 aerei cacciabombardieri F-35-Jsf;

T
agliare tutti i settori della spesa pubblica senza scalfire minimamente queste enormi spese per la guerra, aggravate dall'acquisto dei cacciabombardieri d'attacco capaci di trasportare testate nucleari, sia una doppia offesa: un'offesa  alla Costituzione della Repubblica, che non solo “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionale”; un'offesa a tutti i cittadini italiani che perdono il lavoro, non arrivano alla fine del mese e vedono ridursi i servizi pubblici locali.
 

Il Consiglio Comunale di Reggio Emilia, raccogliendo l'appello che proviene dalla società civile della nostra città  
 
CHIEDE AL GOVERNO 

di ridurre le spese militari, annullando almeno l'acquisto dei 131 cacciabombardieri F 35, azzerandone il programma, e destinare le risorse recuperate per il welfare municipale, le politiche per il lavoro (ammortizzatori sociali, sostegno all'occupazione e all'imprenditoria giovanile) e il potenziamento e la valorizzazione del Servizio Civile Nazionale. Cioè a investimenti di pace e di vera sicurezza. 
 
CHIEDE AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
 
in quanto supremo garante della Costituzione e presidente del Consiglio supremo di difesa,
di tutelare la Costituzione nella sua interezza, con particolare riferimento all'art. 11, che non prevede l'acquisizione di micidiali strumenti di offesa, capaci di trasportare anche armi nucleari.
 
CHIEDE AL SINDACO DI REGGIO EMILIA

in qualità di Presidente dell ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), di farsi interprete delle presenti istanze presso il Presidente del Consiglio dei Ministri sen. Mario Monti e di farsi promotore presso tutti i Comuni associati all'ANCI dell'adozione di analoghe delibere.  
 
(22 voti favorevoli, 10 contrari, 1 astenuto)  

lunedì 27 febbraio 2012

Le parole della nonviolenza. Laboratorio di ricerca

Casa per la pace di Modena 
in collaborazione con 
 il Movimento Nonviolento 
e la Casa delle Culture
 con patrocinio del Comune di Modena
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il tema:
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Scriveva Aldo Capitini che la nonviolenza è affidata ad un metodo che è aperto ed è sperimentale. Al contrario delle costruzioni ideologiche, la nonviolenza non è prima teorizzata e poi praticata, ma è prima vissuta come mezzo di azione e di cambiamento di singoli e popoli; poi studiata, approfondita e di nuovo sperimentata nell'azione. Medoto aperto perchè nessuno è custode di una dottrina, di un corpus di norme definitivo, ma ciascuno può portare nuove aggiunte sia sul piano del pensiero che dell'azione. Metodo sperimentale perchè è creativa e trova sempre nuovi modi di attuarsi, è inesauribile e non può essere attuata perfettamente, ma è in continuo avvicinamento; e perciò ci diciamo "amici della nonviolenza" più che "senz'altro nonviolenti" (A. Capitini).
 Il "laboratorio di ricerca" è perciò un modo efficace per avvicinarsi alla nonviolenza e cercare, insieme agli altri, il proprio modo di essere e dirsi "amico della nonviolenza". Il laboratorio sulle parole della nonviolenza consente di affrontare i temi fondamentali con i quali il metodo nonviolento si è misurato e si misura, usandole come segnavia che aiutino a tracciare il sentiero lungo il quale si dipaneranno la riflessione e la ricerca collettiva. Il cammino nonviolento si inserisce in un orientamento che è, contemporaneamente, personale e politico. Ciascuna delle parole indicate ha infatti un doppio versante, individuale e collettivo, perché riguarda sia la trasformazione del singolo che quella della comunità, in una continua e necessaria reciprocità, in cui non si dà l'una senza l'altra.
Lavorare con le parole consente inoltre il confronto diretto – e "compresente" direbbe Capitini - con coloro che hanno sperimentato consapevolmente il metodo nonviolento nelle diverse dimensioni delle relazioni sociali, apportando una personale, significativa, aggiunta al pensiero ed alla prassi della nonviolenza. Infine, questo elenco di parole consente un approccio introduttivo a ciascuna di esse, e attraverso di esse a quell'agire sociale che definiamo nonviolenza, me non ne può evidentemente esaurire la profondità e la complessità di ciascuna. Rimanda, perciò, alla necessità di un approfondimento ulteriore, personale e/o collettivo, in una ricerca che non ha fine e coincide, tendenzialmente, con la vita stessa che si fa laboratorio. Non a caso Gandhi intitolò la sua biografia “Storia dei miei esperimenti con la verità”.
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gli incontri: 
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SABATO 3 MARZO 2012, ORE 16-19
Conflitto e violenza a partire dalla lettura di pagine selezionate di Jean Marie Muller, Il principio nonviolenza, Edizioni Plus, 2004
“quanto alla violenza essa appare immediatamente come uno s-regolamento del conflitto che non permette più di compiere la sua funzione, cioè di stabilire la giustizia tra due avversari”
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SABATO 17 MARZO 2012, ORE 16-19
Potere a partire dalla lettura di pagine selezionate di Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, vol 1, EGA, 1985
“similmente, le variazioni del potere del governante sono di volta in volta, direttamente o indirettamente, connesse con la disponibilità dei sudditi ad accettarlo, obbedirgli, collaborare con lui a realizzare ciò che egli vuole”
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SABATO 31 MARZO 2012, ORE 16-19
Politica a partire dalla lettura di pagine selezionate di Ekkehart Krippendorff, L'arte di non essere governati, Fazi Editore, 2003
“la politica di Gandhi contiene dei presupposti, pone in primis dei criteri da soddisfare che vanno in direzione di un radicale ripensamento e riorientamento della dimensione politica stessa”
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SABATO 14 APRILE 2012, ORE 16-19
Pace a partire dalla lettura di pagine selezionate di Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia, 2000 e Affrontare il conflitto, Edizioni Plus, 2008
 “al microlivello dell'interiorità individuale e della famiglia; al livello intermedio della società e al macrolivello dei conflitti tra le società e le regioni: a tutti questi livelli c'è spazio per la politica intesa come condotta pacifica verso la pace”
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SABATO E DOMENICA 21 E 22 APRILE 2012
Training Formativo A conclusione di questa parte del percorso si prevede un momento di training formativo, a carattere intensivo (un week end), con un formatore da definire a partire dagli orientamenti che emergeranno dal gruppo.
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 Gli incontri si svolgeranno presso la Casa delle Culture – via Wiligelmo, 80 (adiacente alla Polisportiva San Faustino)
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Conduttore del percorso: Pasquale Pugliese 
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È necessaria l’iscrizione al laboratorio
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 Per informazioni e iscrizioni:
vittoventuri@libero.it 349-3704622
rossellaperruccio@virgilio.it 340-3059381
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Per la partecipazione ai 4 incontri è previsto un contributo di € 10,00, mentre la quota per partecipare al week end di training, il 21 e 22 aprile 2012, sarà definita insieme dopo avere considerato i costi.

domenica 8 gennaio 2012

E' tempo di disarmo, culturale e militare




"...il rifiuto della guerra è per l'Italia e per tutti
una via d'uscita dalla difesa di posizioni insufficienti,
strumento di liberazione,
prova suprema di amore,
varco a uomo, società e realtà migliori."1
Aldo Capitini

"...non è realistico affannarsi per la pace
se non procediamo
a un disarmo della cultura bellica
nella quale viviamo.
E continueremo a perseguirla
se non ne prendiamo atto."2
Raimon Panikkar

Una premessa storica
Gennaio è un mese importante per la nonviolenza.
Il 30 gennaio del 1948 viene assassinato Mohandas K. Gandhi.
Quattro anni dopo, il 30 gennaio del 1952, Aldo Capitini organizza in Italia, nella sua Perugia, il primo "Convegno internazionale per la nonviolenza", in cui invita, tra gli altri, la collaboratrice di Gandhi, Asha Devi. Nel Convegno fu decisa la costituzione di un "Centro di coordinamento per la nonviolenza". Sull'attività svolta dal Centro Capitini ne scriverà alcuni anni dopo in questi termini: "soprattutto il Centro intendeva promuovere un'azione popolare di esposizione sulla nonviolenza, oltre riunioni di studio e convegni di sviluppo dell'idea; e si impegnava a stabilire collegamenti tra tutte le forze della nonviolenza nel mondo". Fu infatti l'avvio di un decennio di incessante lavoro, locale, nazionale e internazionale, che avrà come esito "popolare" la Marcia della Pace per la Riconciliazione dei popoli del 24 settembre 1961. Ma "una marcia", scriverà ancora Capitini, "non è fine a se stessa; continua negli animi, produce onde che vanno lontano, fa sorgere problemi, orientamenti, attività1".
Infatti, il 10 gennaio 1962, sui muri di Perugia è affisso il manifesto con la seguente dichiarazione: "Dopo la Marcia della pace per la fratellanza tra i popoli che si è svolta da Perugia ad Assisi domenica 24 settembre, si è costituito il MOVIMENTO NONVIOLENTO PER LA PACE, al quale aderiscono pacifisti integrali che rifiutano in ogni caso la guerra, la distruzione degli avversari, l'impedimento del dialogo e della libertà di informazione e di critica.
Il Movimento prende iniziative per la difesa e lo sviluppo della pace e promuove la formazione di Centri in ogni luogo".
Cinquant'anni dopo, grazie all'impegno di Pietro Pinna – primo collaboratore di Capitini nel Movimento Nonviolento - e di molti altri amici della nonviolenza, quell'onda è giunta lontano nello spazio e nel tempo. Fino a noi, qui ed ora.

La politica come continuazione della guerra con altri mezzi
Nel 2012 il tema della "difesa e sviluppo della pace" è ancora urgente come cinquant'anni fa, ai tempi della guerra fredda. E come ai tempi della guerra fredda è urgente la questione corrispondente del "ripudio della guerra" e della sua preparazione, ossia il problema del disarmo.
Da quando, nel 1991, in Italia la guerra è stata di nuovo sdoganata, con la partecipazione attiva di "nostri" contingenti armati alla prima guerra del Golfo, il nostro Paese è impegnato da venti anni in conflitti armati in giro per il mondo, senza soluzione di continuità, chiamate surrettiziamente "missioni di pace". Non solo è tornato prepotentemente in auge, anche in Italia, l'insegnamento di Clausewitz sulla guerra come "continuazione della politica con altri mezzi", ma si è perfino rovesciato nel suo contrario, ossia nella politica come continuazione della guerra con altri mezzi.
Oggi, in Italia siamo nel pieno di una crisi politica, economica e sociale, talmente potente da aver spazzato via quel governo berlusconiano che sembrava irremovibile (ma quanto tempo ci vorrà ancora per liberarci dal berlusconismo?). La situazione finanziaria è sottoposta ormai direttamente alle organizzazioni finanziarie internazionali, di cui il presidente Monti è uno dei principali rappresentanti. Le manovre finanziarie, fatte di tagli alla spesa pubblica e di sacrifici per i ceti popolari, si susseguono per decine e decine di miliardi. Le differenze di classe si allargano enormente, al punto che il 10 % degli italiani più ricchi detiene il 50 % della riccheza complessiva; la povertà, la disoccupazione, l'analfabetismo si allargano in maniera estremamente preoccupante, ma c'è un settore, quello della preparazione della guerra attraverso la crescita e lo sviluppo degli armamenti che non conosce crisi o battute d'arresto. Non solo non c'è l'ombra di un taglio, e di una diversa distribuzione delle risorse in tal modo risparmiate, ma si impegnano le casse dello Stato per folli spese pluriennali, come il programma dei famigerati centotrentuno cacciabombardieri F35, capaci di trasportare testate nucleari, molti dei quali del modello più costoso, a decollo verticale, destinati ad arredare la portaerei Cavour, che li trasporterà minacciosamente in giro per il mondo, in contraddizione con la lettera e lo spirito della Costituzione italiana. Inoltre, affinchè l'operazione non trovi intoppi, per la prima volta nella storia repubblicana, il Ministero della "Difesa" è consegnato direttamente nelle mani dei militari, ad un Ammiraglio in palese conflitto d’interessi, senza più un controllore politico. Insomma, l'economia e la politica sono messi pericolosamente a servizio della guerra.
Intanto, minacciose nubi di una nuova guerra, dagli esiti incontrollabili e di portata anche nucleare, si vanno addensando sul cielo dell'Iran. E non sarebbe la prima volta che una crisi finanziaria internazionale viene "risolta" in una guerra mondiale...

Disarmare la cultura bellica, dissacrare la violenza
Eppure, solo con grande fatica e con una forte pressione dal basso dei movimenti per il disarmo, alcune organizzazioni politiche e alcuni mezzi di comunicazione cominciano timidamente a chiedere ragione di questo assoluto sbilanciamento dell'asse economico/politico del Paese a beneficio delle spesa pubblica militare, della crescita degli armamenti, della partecipazione di contingenti armati a campagne di guerra nel pieno "ripudio" dell'articolo 11 della Costituzione.
La stragrande maggioranza di intellettuali (ma ci sono ancora?), sindacati, partiti – pur indignati contro “la casta” - continua a tacere nei confronti della madre di tutte le caste: il complesso militare-industriale.
E’ come se ormai fossimo talmente immersi in questa nuova "cultura bellica" che non c'è ne rendiamo quasi più conto. La guerra e la sua preparazione, pozzo nero senza fondo che risucchia le migliori risorse economiche del Paese, sono tornati ad essere un dato normale, addirittura "naturale": opporvisi, o semplicemente dissentire, è diventato un tabù. Dunque, proprio questo è l'impegno più urgente nel "varco attuale della storia": la decostruzione della cultura di guerra dominante attraverso un lavoro in profondità volto a disarmarne il credito e la legittimazione.
De resto, è proprio quello che da tempo ci ricordano, nei loro lavori, anche i nostri "nostri" vecchi saggi. Per Johan Galtung "la violenza culturale fa si che la violenza diretta e strutturale appaiano e addirtittura vengano sentite come giuste – o almeno non sbagliate. (...). Il meccanismo psicologico è l'interiorizzazione. Lo studio della violenza culturale fa luce sul modo in cui gli atti di violenza diretta e i fatti della violenza strutturale sono legittimati e perciò resi accettabili nella società. Un modo in cui opera la violenza culturale è il cambiamento del colore morale di un atto dal rosso/sbagliato al verde/giusto, o almeno al giallo/accettabile; un esempio è la giustificazione dell'omicidio per conto della patria a fronte della condanna di quello commesso per conto proprio3". Per Jean Marie Muller "una volta giustificata la violenza, non ci sono più limiti al suo sviluppo. Inoltre, la legittimazione della violenza provoca una reazione a catena per la quale tutte le violenza si trovano legittimate. Così, in definitiva, l'uomo non giudica la violenza per ciò che essa è in realtà, ma secondo la rappresentazione che se ne fa"4. Per Giuliano Pontara "la realtà terribile della violenza viene immancabilmente nascosta e travisata usando un linguaggio asfittico e mistificatorio, un gergo trito, privo di vita e di emozioni. Nel linguaggio dei nazisti l'omicidio di massa era chiamato "soluzione finale", quello individuale dell'esecuzione capitale "trattamento particolare", le camere a gas "installazioni speciali" (...). Nello stesso gergo, i massacri etnici sono "pulizie", i bombardamenti che fanno stragi indiscriminate sono "missioni", le violenze di massa pianificate sono "operazioni", spesso assimilate a fenomeni naturali: "Operazione tuono", "Operazione tempesta del deserto"... Contro questa tendenza il compito della nonviolenza, ricorda Pontara, è opporre la "dissacrazione della guerra moderna, vista come ingiustificabile omicidio di massa pepretato su scala industriale che costa somme sempre più astronomiche"5. Per far questo, ribadisce infine Ekkeart Krippendorff, occorre svolgere "una buona volta, il compito secolare di caratterizzare le forze armate per quello che esse sono oggettivamente e di fatto: l'istituzione più pericolosa e più avversa alla vita, e a un tempo la più dispendiosa, che sia mai stata inventata"6.

Dal disarmo l'apertura alla "rivoluzione permanente"
Questo impegno culturale di decostruzione della cultura di guerra dominante è dunque urgente e necessario, e tuttavia - da solo - non è sufficiente. L'impegno che ci aspetta a cavallo di questo cinquantennio del Movimento fondato da Aldo Capitini è propriamente nonviolento, cioè educativo/formativo e politico insieme. Come avvenuto attraverso la Marcia della Pace e della riconciliazione dei popoli del 25 settembre del 2011 co-promossa dal Movimento Nonviolento, il lavoro incessante per il disarmo culturale non può essere disgiunto da un impegno attivo per la drastica riduzione delle spese militari, per la rinuncia al progetto degli F35, per il rispetto della Costituzione che ripudia la guerra, per la costruzione di un modello di difesa fondato sulla difesa popolare nonviolenta, per la costituzione dei Corpi Civili di Pace, per la difesa, la valorizzazione e lo sviluppo del Servizio Civile Nazionale e, in prospettiva, per il progressivo superamento dell'istituzione militare. Anzi, quanto più forte sarà l'azione politica in questi campi tanto più incisiva ne risulterà la ricaduta culturale e quanto più profondo il lavoro culturale tanto più efficace l'impegno politico.
Per questo è necessario continuare a sostenere attivamente le diverse Reti e Campagne che si occupano di specifici ambiti di azione (Rete italiana disarmo, IPRI-Corpi Civili di Pace, Comitato Italiano Cultura di Pace, Campagna No F35 ecc), ma è necessario anche aiutare Reti e Campagne a ri/leggersi all'interno di un orizzonte comune volto al più complessivo disarmo culturale e militare. In un'apertura reciproca che, almeno in alcuni momenti, sappia anche fare massa critica, capace di aprire varchi significativi nella società della politica e della cultura. Anche attraverso momenti di mobilitazione comune, mettendo per esempio congiuntamente a valore il 2 ottobre, Giornata internazionale della nonviolenza e la Settimana internazionale del disarmo dal 24 al 30 ottobre, caricandole di quella potenzialità politica e comunicativa che finora, separatamente, non siamo stati capaci esprimere.
Certo, il panorama che ha di fronte la nonviolenza organizzata in questo giro di boa dei cinquant'anni è molto complesso. Quella capitiana "rivoluzione permanente" capace di incidere nei vari livelli della realtà-società-umanità è ancora lontana dal dispiegarsi pienamente, eppure assumere la centralità del disarmo culturale e militare è una porta che ne apre molte altre: la rinuncia alle crescenti spese per gli armamenti – a partire dalla rinuncia agli F35 - può liberare risorse per le spese sociali, ma anche per per il Servizio Civile Nazionale; il Servizio Civile rinforzato e valorizzato può realizzare serie sperimentazioni di forme di "difesa civile non armata e nonviolenta", come previsto dalla legge istitutiva, 64/2001; l'avvio di queste sperimentazioni su ampia scala porterebbe all'introduzione concreta e scientifica di un nuovo paradigma nell'affrontare i conflitti, che a quel punto dovrebbe essere preso sul serio anche nei contesti formativi, universitari e scolastici; l'avvio di esperienze educative di trasformazione nonviolenta dei conflitti porterebbe allo sviluppo di una consapevole cultura della convivenza tra le differenze, ma anche al rafforzamento delle capacietà di empowerment e di azione, personale e collettiva, individuale e politica...innescando, man mano, un circuito positivo di trasformazione sociale in senso nonviolento, "varco a uomo, società e realtà migliori".
Utopia? Se Aldo Capitini avesse considerato utopistiche le proprie idee sessanta anni fa e non avesse dedicato loro, incessantemente, tutte le risorse della sua vita, costruendo esperienze tutt'ora vive e attive - come la Marcia della Pace, il Movimento Nonviolento, la rivista Azione nonviolenta - oggi non saremmo qui a parlarne. Il 20, 21 e 22 gennaio a Verona, per i 50 anni del Movimento Nonviolento, festeggeremo e ne parleremo ancora, insieme a tutti coloro che vogliono continuare a dare gambe, energia e intelligenza a questa piccola grande Storia collettiva. La nostra storia.
( http://nonviolenti.org/cms/index.php?mact=News,cntnt01,detail,0&cntnt01articleid=189&cntnt01origid=15&cntnt01returnid=238 )

1. Aldo Capitini, Italia nonviolenta, Centro studi Capitini, 1981
2. Pace e disarmo culturale, Rizzoli, 2003
3. In cammino per la pace, Einaudi, 1962
4. Il principio nonviolenza, Edizioni Plus, 2004
5. L’antibarbarie, EGA, 2006
6. L’arte di non essere governati, Fazi Editore, 2003





domenica 1 gennaio 2012

la disobbedienza civile

Guida pubblicata sul portale Unimondo.org

“Sotto un governo che imprigiona la gente ingiustamente, il vero posto per un uomo giusto è la prigione”. Con queste parole, scritte dopo aver passato una notte in prigione per essersi rifiutato di pagare le tasse in segno di protesta contro la guerra che nel 1846 gli Stati Uniti muovono al Messico, Henry David Thoureau fonda la moderna definizione della “disobbedienza civile”.
Dalla “Marcia del sale” di Gandhi alle lotte per il riconoscimento dei diritti civili degli afro-americani negli Stati Uniti guidate da Martin Luthr King, dalle riflessioni di Hannah Arendt, John Rawls fino a Gene Sharp e, in Italia, dall'impegno per la nonviolenza di Aldo Capitini e Danilo Dolci la disobbedienza e la resistenza civile hanno assunto diverse forme che trovano nella noncollaborazione e nella protesta nonviolenta le modalità che accomunano l’impegno attivo sia per puntare al cambiamento di una legge o di una particolare istituzione nei governi democratici, sia - più radicalmente - per convogliare la mobilitazione popolare nell’opposizione ai regimi dispotici e dittatoriali.

Per la lettura integrale della Guida:
http://www.unimondo.org/Guide/Politica/Disobbedienza-civile/(desc)/show





domenica 11 dicembre 2011

Perchè le spese militari sono un tabù?

Qualche risposta rileggendo un testo di Ekkehart Krippendorff sull'istituzione militare
 
Perchè, pur in un momento di crisi e di ossessiva invocazione del rigore nel bilancio dello Stato, non si tagliano le spese militari? Perchè, nonstante i drammatici tagli alla spesa pubblica imposti dal governo, solo flebili voci – per lo più extraparlamentari e marginali – chiedono una stretta a queste folli spese di morte che pre/vedono dei costi abnormi? Perchè, per la stragande maggioranza di forze politiche, sindacali, mediatiche non è assurda la crescita di questo unico capitolo di spesa pubblica, ma è assurda la richiesta che venga tagliato? Talmente assurda che non si pongono neanche il problema?

Ho trovato le risposte più convincenti a queste insistenti domande rileggendo alcune pagine del politologo tedesco Ekkehart Krippendorff ne "L'arte di non essere governati" (del 1999, ma pubblicato in italiano nel 2003), in particolare il capitolo "Critica dell'istituzione militare".
Riportiamone qualche brano:

"L'unica istituzione comune a tutti gli Stati è quella degli esperti in uniforme, accasermati, equipaggiati con le armi di volta in volta più moderne e conseguentemente addestrati all'applicazione della violenza fisica: i militari. Esistono Stati con o senza partiti, parlamenti, costituzioni scritte, tribunali indipendenti, con o senza presidenti, banche centrali, chiese di Stato, moneta propria, lingue nazionali e così via, ma tutti hanno le forze armate.
Globalmente considerati, tutti gli Stati spendono per le forze armate più che per l'educazione e la salute dei loro cittadini. Le forze armate sono il maggiore datore di lavoro in assoluto; i danni ambientali direttamente e indirettamente provocati dalle forze armate sono superiori a quelli provocati da ciascuna singola industria.Nel ventesimo secolo il numero di rovesciamenti violenti di singoli governi dovuti all'intevento delle forze armate supera quello causato da ribellioni politiche o rivoluzioni. Sono le forze armate ad aver scritto, come afferma Eric Hobsbawm nel suo bilancio del secolo passato << il capitolo più nero nella storia occidentale delle torture e del controterrore >>.
Dall'altro lato, proprio questa istituzione con le sue guerre, di cui soltanto nell'ultimo secolo sono cadute vittime milioni e milioni di persone, per tacere del numero molto più grande delle persone cacciate dalla loro terra e di quelle ridotte alla fame dalla conseguenze della guerra, riceve da parte delle scienze sociali un'attenzione relativamente modesta, e nella stampa e nell'opinione pubblica l'istituzione militare viene trattata solo come uno dei tanti temi.
L'istituzione militare non viene però vista come uno dei tanti organi dello Stato, bensì come quello addirittura più ovvio tra di essi. La maggior parte delle persone, quasi indipendentemente dalla loro provenienza culturale, sono in grado di immaginarsi tanto poco uno Stato senza forze armate quanto uno Stato senza bandiera o sedi del governo. Proprio per questo, pare, le forze armate sono così di rado oggetto di dibattito scientifico o pubblico. Si noti bene: l'istituzione e non le rispettive forze armate in concreto, che finiscono continuamente sulla "linea del fuoco" delle controversie politiche in quanto fattore di potere, sia come voce del bilancio pubblico, o ancora sotto l'aspetto dell'ottemperamento o meno dei loro compiti istituzionali"

In realtà, in Italia, sono sottratte al dibattito pubblico le forze armate tout-court, sia come istituzione che come esercito "concreto". Non sono mai al centro di "controversie politiche", neanche in riferimento al bilancio dello Stato. Anzi, per la prima volta nella Storia repubblicana un ammiraglio in servizio viene nominato Ministro della Difesa – controllore e controllato in una persona sola - senza che nessuno batta un ciglio. Il confronto politico si è aperto perfino rispetto alla Chiesa cattolica e alle tasse non pagate per gli immobili, ma si evita accuratamente di occuparsi di spese per esercito e armamenti. Dunque il radicamento dell'ovvietà delle forze armate, nel nostro Paese, risiede ancora più nel profondo.
Proseguiamo la lettura:

"Ma già a questo punto si affollano le domande poste così di rado e a cui ancor più raramente viene data una chiara risposta: qual è la funzione dei militari? E' possibile coglierne e spiegarne l'essenza ricorrendo alla loro "funzione"? (...)
Per capire perchè l'istituzione militare sembri costituire una componente così ovvia dello Stato, quasi come un inno nazionale, un apparato fiscale o la polizia, perchè l'idea pura e semplice di uno Stato senza portatori di uniforme sia per la classe politica di qualsiasi colore tanto insopportabile e impensabile quanto, ad esempio, quella di un papa che dubiti della paternità divina di Gesù Cristo o dell'Immacolata concezione; perchè i rappresentanti politici senza le loro forze armate si sentano, per così dire, come se fossero nudi; insomma per cogliere la dimensione profonda di questo bisogno di sicurezza, è sufficiente, per cominciare, elencare i rituali militari mediante i quali gli Stati manifestano e testimoniano il loro reciproco rispetto: compagnie d'onore, sciabole guizzanti, bande militari, che fanno della più civile delle melodie una marcia ritmata e marziale, fucili con baionette lucide e appuntite, in basso punte di stivali allineate con il righello e in alto volti irrigiditi, addestrati a non mostrare nessuno stato d'animo, nessun sentimento umano, in modo che non possano distinguersi da macchine ubbidienti a qualsivoglia comando, occasionalmente lo sparo di salve di saluto e la parata al passo dell'oca."

Si badi che Krippendorff non parla di rituali antichi e dimenticati, ma delle rinnovate parate militari che, in Italia, per esempio, oltre a "festeggiare" il 4 novembre - giornata che dovrebbe essere piuttosto di lutto a memoria, non retorica, delle vittime di tutte le guerre – si sono espanse anche al 2 giugno, Festa della Repubblica, che viene celebrata al passo dell'oca e con lo sfoggio di tutti gli osceni strumenti di morte, come se solo le foze armate rappresentassero degnamente la Patria.
Ancora:

"Questi rituali sono i resti reali e simbolici di quella prassi, caratteristica dell'epoca dell'assolutismo, mediante cui i dominatori facevano sfilare davanti ai loro ospiti i propri giocattoli da guerra allo scopo di mettere chiaramente in vista la potenza e le proprie capacità, che si trattasse di dissuasione o di intimidazione. In quella società di lupi dei giochi dinastici a somma nulla ognuno doveva aver paura di ogni altro ed essere in grado di minacciarlo per poter sopravvivere, oppure per restare (politicamente) in vita. Le parate e le dimostrazioni militari erano – e sono ancora! - espressione del timore di perdere i propri privilegi, la propria posizione, il trono. Esse lanciavano, e lanciano, però, anche un messaggio diretto verso la base: << Io sono il tuo Stato, il tuo signore, tu mi dovresti temere e amare e non avere alcun altro signore oltre a me, e se sei disubbidiente, vedi allora quale potente macchina, che sta ai miei comandi, è in grado di
sopraffarti >>. Infine i dominatori con le loro parate fanno coraggio a se stessi, per loro il passo di marcia di disciplinati soldati, il silenzio alla luce delle fiaccole, le marcette e gli uomini in uniforme rappresentano orgasmi sia acustici che visivi del potere"

Questi rituali militari, "orgasmi del potere", risalgono all'epoca dell'assolutismo degli Stati moderni. Eppure, spiega Krippendorff, non è li che si trova l'origine della simbiosi tra Stato ed esercito, essa si forma ancora prima nel tempo, nel momento di passaggio tra il feudalesimo e l'epoca moderna. Gli stessi Stati moderni vennero creati da dinastie che avevano bisogno di fornire una "sistemazione durevole e sicura ai loro eserciti, ai quali soltanto dovevano il loro potere". In quella fase fondativa non è "la guerra la continuazione della politica con altri mezzi", secondo la definizione fornitane da Clausewitz, ma, al contrario avviene la fondazione della politica moderna come "continuazione della guerra con altri mezzi" Non a caso Niccolò Macchiavelli, padre della scienza politica moderna, fu anche uno stratega militare che guidò i fiorentini all'assedio di Pisa.
Seguiamo il ragionamento di Krippendorff:

"La politica come continuazione della guerra con altri mezzi, il suo ruolo in quanto sguattera dell'autoconsapevoleza militare dei nuovi Stati, le cui strutture erano state sviluppate e finalizzate a soddisfare le necessità degli eserciti permanenti: dalla fortificazione delle città attaverso la costruzione di strade fino al sistema fiscale, dall'orgaznizzazione cameralistico-mercantilistica della produzione nelle manifatture per i fanbbisogni dell'esercito fino al censimento amministrativo della popolazione a scopo di reclutamento, dalle dottrine della virtù politica e dai codici militari fino all'edificazione strategica di castelli e palazzi posti nel centro delle libere città, dalla simbologia consistente nel fatto che il re indossava la stessa uniforme dei suoi ufficiali e soldati – essi infatti personificavano lo Stato, erano lo Stato – fino alle bandiere e agli emblemi del dominio (per lo più aquile e leoni), nei confronti dei quali ora il cittadino si doveva mostrare reverente e attraverso i quali poteva definirsi un senso statale e nazionale. Da tutti questi elementi, trasformatisi più volte, adattatisi alle mutate condizioni sociali, attraverso un processo di socializzazione, in parte a mezzo di indottrinamento sistematico (scuola, servizio militare obbligatorio), in parte mediante mutuo esercizio, le forze armate in quanto istituzione e la dimensione militare quale forma di pensiero divennero parte integrante della cultura e della statalità europea. (...)
[l'istituzione e la dimensione militare] Sono parte integrante della nostra cultura, dalla musica all'architettura fino alla letteratura, costituendo quindi anche lo sfondo, per lo più del tutto inconsapevole, del nostro modo di immaginare l'ordine e la sicurezza. Ogni critica elementare di questa istituzione va quindi a cozzare contro strati profondi, consapevolmente coltivati dalla tradizione e cresciuti attraverso secoli di statualità moderna, che si sottraggono ad argomentazioni razionali, funzionali, o che sono difficilmentre raggiungibili dalla critica stessa".

Per cui, continua Krippendorff, "uniformazione, accasermamento e legittimazione a scopo strategico di dominio dell'istituzione militare costituiscono la spina dorsale e le raison d'etre della statalità moderna". (...) L'istituzione militare si è trasformata nel cancro di tutte le società, assorbe risorse materiali e intellettuali a discapito del bilancio statale per la salute, l'istruzione e la cultura, si nutre e si riproduce a spese della società civile che deve poi assumersi anche i costi dei danni provocati ogniqualvolta l'istituzione militare entra in azione uscendo dal suo stato di quescienza"

La società civile paga dunque due volte, la prima quando – in tempi ordinari - alimenta le voraci casse di eserciti e armamenti, sottraendo risorse a tutti gli altri settori pubblici; la seconda nella ricostruzione del tessuto civile dopo che – nei tempi speciali – l'esercito è entrato in azione. Ciò riguarda sia l'azione che si rivolge verso l'esterno, con le guerre, quanto quella che si rivolge verso l'interno dello Stato con, appunto, i "colpi di stato" ("in due terzi degli Stati attuali sono i militari a comandare direttamente o indirettamente, e la politica economica e sociale si basa sul riconoscimento del primato dei privilegi militari"). Oggi, in Italia, il tempo ordinaro e il tempo speciale sono intrecciati e sovrapposti, con vent'anni di partecipazione consecutiva a guerre in giro per il mondo, che legittimano ancora di più la necessità di risorse economiche e di costosi armamenti, e la percezione di pace e "sicurezza" diffusa retoricamente all'interno del Paese.

Che fare per liberarsi di questo cancro?
Poiché il problema ha radici profonde, culturalmente stratificate, la risposta, secondo Krippendorff, deve svolgersi allo stesso livelo di profondità e dunque proprio sul piano culturale, nelle sue differenti declinazioni: storica, di genere, scientifica e, infine, politica.
Storica: "il primo passo in direzione di un capovolgimento dei valori da parte della critica dell'istituzione militare consiste nello scrivere e leggere la storia, e sopratutto quella dell'epoca moderna, sotto l'aspetto del ruolo in essa giocato dalla violenza organizzata dallo Stato e dai suoi risultati sia socio-politici che cultural-ideologici. E' la storia di una malattia sociale, la storia di una patologia".
Di genere: "Sono uomini quelli che si sono organizzati in strutture militari, che difendono i loro privilegi nella forma di valori e orizzonti di senso militari e cercano di legittimare il loro potere attraverso la guerra. La critica dell'istituzione militare trapassa in critica del patriarcato".
Scientifica: "E' una via abbastanza diretta quella che collega la scienza naturale dei primordi dell'età moderna disposta alla violenza e l'istituzione militare quale asse portante dello Stato moderno. Alla base di ambedue queste manifestazioni della modernità sta la violenza come metodo; la scienza moderna e l'istituzione militare sono due delle sue forme di manifestazione, e entrambe hanno provocato effetti catastrofici. Esemplare al riguardo è la collaborazione tra di esse nello sviluppo della prima bomba atomica".
Politica: "In quanto le forze armate, a partire dal diciassettesimo secolo, hanno pervaso la società politica, plasmandola e orientandola nel proprio senso, esse hanno segnato il discorso sulla politica ormai "statalizzata", sulle dottrine della virtù politica e sugli ideali di possibili atteggiamenti sociali.(...) La famosa definizione di Clausewitz, secondo cui la guerra sarebbe la continuazione della politica con altri mezzi, non fa che tirare le conseguenze implicite nella tradizione macchiavellica, le conseguenze dell'aver definito la politica come la prosecuzione della guerra con altri mezzi diversi rispetto a quelli militari, cioè di aver pensato sempre politica e dimensione militare come un tutt'uno".

Su tutti questi piani deve oggi svolgersi il "compito secolare" indirizzato in primo luogo all'opinione pubblica, da promuovere in maniera scientifica: "caratterizzare le forze armate per quello che esse sono oggettivamente e di fatto: l'istituzione più pericolosa e più avversa alla vita, e a un tempo la più dispendiosa, che sia mai stata inventata".

Dunque, mi pare che sia tempo di non disperdere le energie e di mettersi al lavoro per promuovere un significativo e necessario disarmo culturale se vorremo ottenere, in un tempo ragionevole, ma misurabile sul piano della storia, un significativo e necessario disarmo militare, che pre/veda anche il taglio delle spese militari.

domenica 27 novembre 2011

Agire e studiare, con sacrificio e costanza

Le prime azioni dirette nonviolente in Italia.
 
Intervista a Pietro Pinna, cofondatore con Aldo Capitini del Movimento Monviolento,
fatta qualche anno fa e ancora oggi di grande attualità.
Pubblicata su "Azione nonviolenta", luglio 2004
 
Buon giorno Pietro, ci racconti come nacque l’idea di costituire un Gan?
L’idea, direi l’esigenza del GAN, nacque dall’insoddisfacente attività cui il Movimento Nonviolento veniva dedicandosi all’interno della Consulta Italiana per la Pace, la federazione delle diverse associazioni pacifiste che Capitini aveva istituita dopo l’effettuazione della Marcia della Pace Perugia-Assisi del ’61 per dare continuità alla loro occasionale collaborazione in quella iniziativa. Per due anni consecutivi noi del Movimento ci eravamo trovati esclusivamente occupati nel lavoro per la Consulta – di cui Capitini era presidente – a tutto scapito dello sviluppo del Movimento in sé ancora del tutto in erba, essendo stato costituito in concomitanza della nascita della Consulta.
Come funzionava la consulta?
La sua attività consisteva nella riproposizione di marce della pace a dimensione regionale, convegni di studio, produzione di documenti e di un periodico mensile. Le marce si riducevano a poco più che a semplici occasioni transitorie per i partecipanti di dare voce collettiva ai loro sentimenti e auspici per la pace; i documenti non concludevano che nella esortazione ai governanti affinché vi provvedessero di dovere. Tutta un’attività che finiva per risultare di una irrilevante ed effimera portata nella sua genericità pacifista, di nessuna incidenza sul piano politico istituzionale; e capite, tanto più insignificante per noi poiché avulsa dalla specifica istanza antimilitarista, di pacifismo assoluto del Movimento Nonviolento, che nel suo statuto diceva essere costituito da pacifisti integrali che rifiutano in ogni caso la guerra, il terrorismo e la tortura. La vita della Consulta, d’altro canto, era soggetta al soverchiante condizionamento ideologico e organizzativo del Comitato Italiano della Pace – ex Partigiani della Pace di dominanza del Partito Comunista -, a fronte delle altre ben più deboli componenti federate. Insomma, risultò alfine indispensabile per il Movimento Nonviolento di dare avvio in proprio ad una sua specifica attività, se voleva acquisire un’esperienza ed una forza in grado di sufficientemente pesare nella più incisiva qualificazione delle iniziative della Consulta. Nacque il Movimento e nacque la rivista “Azione nonviolenta”…
Ciò avvenne verso la fine del ’63. Al termine di un Seminario di 10 giorni che tenemmo sulle Tecniche della Nonviolenza, rimanemmo ancora riuniti alcune ore tra una dozzina di amici per discutere del possibile avvio di un’attività organizzata del Movimento. Due elementari esigenze ponemmo alla base dell’eventuale programma: il chiarimento e la diffusione dell’idea nonviolenta –allora misconosciuta per non dire avversata - , e un corrispondente impegno ad una sua pur minima esplicazione pratica. Le due cose dovevano procedere congiuntamente: non la sola teoria, che se non tradotta in atto risulta essere mera astrazione; non azione soltanto, poiché se cieca di idee chiare e definite, finisce per risultare inconcludente. Rispetto al primo punto, decidemmo in questo modo. Fino a quella data l’unico mezzo di collegamento del Movimento era costituito da un ciclostilato di 4 pagine spedito mensilmente ad un centinaio di supposti simpatizzanti – il Movimento non disponeva ancora di aderenti iscritti. Venne deciso di passare da quel ciclostilato ad un giornaletto a stampa; dopo aver avuto assicurata dagli stessi presenti alla riunione la disponibilità finanziaria per l’uscita di almeno tre numeri mensili, Capitini ed io ci assumemmo l’incarico di curarne la pubblicazione, che uscì col titolo “Azione nonviolenta”.
Quindi il nome della rivista in qualche modo deriva dal fatto che avevate deciso di occuparvi prioritariamente dell’azione…
Non prioritariamente, ma come ho già detto, di pari passo con l’elaborazione e la diffusione delle idee: “Azione nonviolenta” per il dibattito delle idee e l’informazione sulle iniziative, ma subito affiancata dall’azione, dalla loro messa in atto. Una volta Capitini ebbe a scrivere, in relazione all’apparire in Italia del primo episodio di obiezione di coscienza politica: “Ci voleva il sorgere del caso concreto di rifiuto per dare a quell’atto tanta risonanza da far conoscere in Italia meglio di tanti discorsi e libri che cos’è l’obiezione di coscienza”. Quanto alla nascita del GAN, in quella medesima riunione non facemmo altro che chiedere di alzare la mano a chi intendesse partecipare ad un gruppo di azione – senza peraltro saper nulla ancora di che cosa comportasse quell’idea. Quattro giovani comunque vi assentirono, io ne assunsi la coordinazione, e all’istante concordammo di fare una prima riunione alla fine della settimana successiva, dove battezzammo il gruppo col nome appunto di Gruppo di Azione Diretta Nonviolenta, da cui la sigla GAN.
A quale tema pensaste di applicarvi?
Fu quello dell’obiezione di coscienza. Ci venne in via naturale di pensarlo, perché ci apparteneva personalmente. Io ero stato obiettore, altri nel gruppo si apprestavano a divenirlo. Il punto di forza della nostra dedizione all’azione, era che non si trattava di un ideale astratto o di una realtà lontana da noi, ma che riguardava la nostra stessa vita. Quel tema ci offriva inoltre la possibilità di dibattere la questione, strettamente pertinente all’impegno del Movimento, dell’opposizione alla preparazione della guerra, la cui minaccia in quegli anni era particolarmente avvertita dall’intera opinione pubblica sotto l’incubo di un possibile conflitto atomico.
Quale era il vostro obiettivo immediato?
Il nostro proposito era quello di sensibilizzare la comune opinione pubblica al problema appunto dell’obiezione di coscienza, con un contatto diretto attraverso manifestazioni di piazza. Il dibattito sul tema si era acceso nell’ambiente politico e intellettuale fin dal sorgere del primo caso di obiezione politica, nel 1949, ma poi era venuto stagnando. Singoli parlamentari avevano, sì, presentato dei progetti di legge in proposito, mai però discussi in Parlamento. Gli obiettori continuavano così a venir processati, con condanne al carcere tra l’altro assurdamente reiterate al medesimo obiettore. Noi intendevamo contribuire ad animare un movimento di pressione dal basso che inducesse alfine il nostro paese, perlomeno, al conseguimento democratico del riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza come da tempo vigeva in altri Stati.
Come vi formaste all’azione? Preparaste il lavoro?
Noi cinque eravamo all’inizio semplici conoscenti occasionali. Tenemmo perciò delle riunioni preparatorie per meglio conoscerci e affiatarci tra noi, per convenire su alcuni basilari principi e modalità d’azione della nonviolenza, oltreché impadronirci al meglio della storia e delle ragioni dell’obiezione di coscienza. Con l’ausilio di un amico avvocato esaminammo altresì le disposizioni di legge che regolavano le manifestazioni di piazza. Infine, dopo esserci bene accordati sulla disciplina nonviolenta da tenere al riguardo, elaborammo e predisponemmo con cura il materiale occorrente. Merita che vi sottolinei un dato, circa queste preliminari riunioni. Ci ritrovavamo puntualmente, ogni successivo fine settimana, provenendo ciascuno da diverse città. Già questo fatto, che comportava sacrificio di denaro e di tempo sottratti alla vacanza settimanale, veniva a testimoniare e a corroborare in partenza la serietà dell’impegno. Sacrificio e costanza, due elementi essenziali della nonviolenza. E vorrei anche sollecitarvi qui ad un altro impegno da prendere sul serio. Capita spesso di constatare come l’amico che pur ci dice del suo entusiasmo per la lettura di un buon libro di comune conoscenza, lo abbia però letto una volta sola. Ma cosa gli è rimasto, dello spirito e del contenuto di quel libro, alla sua prima lettura? È stato detto che un libro che non si legge una seconda volta, non valeva la pena di leggerlo la prima volta. Ricordo che Capitini, al quale veniva rimproverato da taluni suoi lettori di risultare un po’ troppo difficile in certi passaggi dei suoi scritti, rispose che talora lo faceva di proposito affinché il lettore si soffermasse sulla pagina con più attenzione e riflessione. E ricordo pure che noi del GAN inserivamo talvolta nei nostri cartelli e volantini una espressione inusuale e curiosa che veniva ad attrarre e a concentrare l’occhio del lettore sull’intero testo. Ho detto tutto ciò affinché anche voi, avendo per mano i libri sulla nonviolenza, non vi fermiate a scorrerli una volta sola, ma torniate a rileggerli due, tre, cinque volte, ogni volta capendo meglio e traendone sempre più ispirazione. Noi del GAN, ad esempio, venivamo alle riunioni preparatorie dopo esserci letto e riletto, per dirne uno, l’opuscoletto di Capitini “Teoria della nonviolenza”.
Vedi che un po’ lo stiamo già facendo, col libro che abbiamo in mano. E’ difficile far passare il messaggio che le cose vanno preparate con cura.
Sì, per il fatto che in tutti noi c’è una immediata tendenza, com’è nelle cose della natura, ad affrontarle col minimo sforzo. Siamo in tal modo sguarniti, all’inizio, del di più necessario a superarne le possibili asperità. Questo di più è la necessaria preparazione, se vogliamo poi venire adeguatamente a capo delle cose. A fare un buon soldato – diceva Gandhi nelle sue istruzioni alla preparazione nonviolenta – occorre un congruo addestramento; così doveva essere per un buon nonviolento, preparato con cura sul piano dottrinale, psicologico e fisico.
Come avete acquisito le modalità delle vostre azioni? Le avete apprese da qualcuno o le avete acquisite col tempo?
Sono venute da sé, spontaneamente e gradualmente. Non conoscevamo allora nessun testo che istruisse sull’azione diretta. Tuttavia, pur privi della conoscenza di tecniche specifiche, il nostro stile di manifestazione venne a maturare direi naturalmente, in concordanza dell’animo col principio nonviolento che ci ispirava e ci accomunava.
Quindi l’azione nonviolenta non è solo un insieme di tecniche ma richiede un legame tra interiorità ed esteriorità…
È l’animo, il tuo intimo di persuaso della nonviolenza che essenzialmente e preliminarmente conta – la persuasione intima della madre nei suoi rapporti con il figlio, che le detta spontaneamente il comportamento tecnico adeguato. Le tecniche senza la persuasione intima risultano di scarso valore, imperfette nell’esecuzione e di effimera portata nel successivo rapporto complessivo. Una volta ebbi una fugace occasione di accennarne con Gene Sharp, considerato il massimo studioso dell’azione diretta. Suppongo che conosciate la sua prestigiosa opera intitolata “La politica dell’azione nonviolenta”. Ebbene, non so se abbiate rilevato che egli vi viene ad intendere per nonviolenza la semplice aviolenza, ossia l’esclusiva applicazione pragmatica – non di principio – di tecniche aliene dalla violenza. Al fine di metterne in luce l’indubbio valore, Sharp non ne considera però anche i limiti, escludendo dal prendere in considerazione l’importanza sia del principio etico sia del complessivo metodo d’azione della nonviolenza. Certamente, come egli ci scopre e illustra assai bene, sono avvenute numerose azioni storiche che hanno raggiunto il loro momentaneo obiettivo senza un dichiarato impegno alla nonviolenza. Si potrebbe però osservare, all’inverso, che altrettante e più azioni semplicemente aviolente sono degenerate e finite per abortire. Ma – vedete – decisivamente importante è considerare non tanto la riuscita della singola momentanea azione in sé, quanto il più vasto orizzonte a cui si tende. Se l’azione che attualmente intraprendo è intesa non soltanto alla soluzione del contingente momento conflittuale, ma è rivolta a stabilire un più elevato livello morale e di giustizia tra le parti in causa, la semplice aviolenza finisce per mostrare il suo fiato corto al raggiungimento di questo traguardo. Ciò ad esempio ci viene patentemente dimostrato dal pur lodevole metodo di azione della democrazia, che aviolenta all’origine ma non nutrita dalla complessiva nonviolenza, giunge a ribaltarsi nel suo esatto contrario, con l’uso della violenza fino all’estremo della guerra. Le disastrose conseguenze qui accennate stanno sotto gli occhi di tutti. Insomma – e chiudo il monologo – se sei veramente impegnato alla nonviolenza, non puoi farne a meno se vuoi farla vivere nel corpo morale del tuo agire, come nel tuo corpo fisico non puoi fare a meno che agiscano a dovere cuore e polmoni. È il sangue giornaliero del tuo essere, un suo fluire costante, non un frammentario intermittente episodio. Capitini, pur alieno com’era dal lasciarsi andare ad affermazioni categoriche, venne a scrivere una volta: “La nonviolenza non è un flirt, questo dev’essere ben chiaro”.
E invece, spesso questo non è ben chiaro, nemmeno nei movimenti che si dichiarano per la nonviolenza…
Sono movimenti che assumono soltanto la prima, seppur fondamentale, condizione della nonviolenza di principio, cioè a dire la sola astensione dalla violenza – quella posizione che abbiamo già definito col termine ad essa più propriamente consono di aviolenza. Manca in quei movimenti l’assunzione delle altre congiunte condizioni che rendono la nonviolenza veramente e compiutamente efficace. Poiché la distinzione tra le due posizioni è di cruciale importanza, sarà bene richiamare – pur soltanto limitandoci a nominarle – queste ulteriori condizioni altrettanto essenziali: il rispetto della verità; la disponibilità costante al compromesso onorevole; la disponibilità ad assumere un proprio maggior sacrificio rispetto a quello possibilmente derivante all’anniversario dalla situazione conflittuale; la gradualità nell’impiego progressivo dei mezzi di azione, da quelli più blandi legittimi e democratici a quelli più radicali fino alla disobbedienza civile; infine – ma contemporaneo alle altre condizioni – il programma costruttivo, volto ad avviare da subito i primi possibili tratti della nuova società liberata da instaurare, che Capitini definiva la realtà dell’unità amorevole tra tutti. Quei movimenti dovrebbero finalmente arrivare a capire quanto la loro semplice aviolenza, applicata ad esempio al rifiuto della guerra, finisca per approdare – sia pur nobile ed impegnata quant’essa sia – ad una condizione del tutto sterile, di penosa assoluta scontata inconcludenza. Arrivare a capire che non questa o quella guerra va avversata, soltanto al momento ultimo del suo esplodere, ma che è l’idea della guerra in sé che va rifiutata, alla sua origine, nella mentalità e nelle corrispettive istituzioni che la mantengono in essere quale necessario mezzo estremo della vita conflittuale politica. Termino dunque questa mia perorazione dicendo che quei movimenti, se veri nonviolenti nel loro impegno pacifista, non dovrebbero tornare tranquillamente ad eclissarsi una volta terminata l’ennesima guerra, per poi soltanto rimettersi in marcia agli squilli della nuova guerra – come ci è stato di vedere e di soffrire nella serie bellica di quest’ultima dozzina d’anni; ma invece, scontato l’ennesimo scacco della loro vana tardiva protesta, rimanere in campo e subito, dal giorno dopo, trovarsi impegnati per l’abolizione qui ed ora della macchina portante della guerra, l’esercito – al cui mantenimento, ahinoi!, continuano a consentire ed a collaborare anche i partecipanti di quegli stessi movimenti.
Veniamo a noi. Se tu potessi ricominciare a fare azioni dirette nonviolente, oggi su quale campo pensi sia prioritario impegnarsi?
L’ho appena detto, quello ovvio, che per me e per l’intera umanità considero il più essenziale e urgente: il campo dell’opposizione assoluta alla guerra, ossia l’azione per il disarmo unilaterale, integrale e immediato dell’esercito. Vale a spenderci tutta una vita. Se poi volete che ne indichi un altro, altrettanto angustiante nella sua cieca tragicità quanto una vera guerra, è quello della strage quotidiana di vite umane degli incidenti automobilistici. A volte, per la morte casuale di un nostro concittadino, vediamo montare nel paese un rigurgito di emotività e di compartecipazione. Ma che invece la morte di quelle decine di persone, puntualmente, ogni giorno, sia considerata senza fiatare un dato di vita normale e quindi trascurabile, al più annotata a fine anno come mero dato statistico nel registro del dio supremo dello sviluppo – di merci e non piuttosto di valori umani – non dovrebbe sgomentare e avvilire chiunque?
Tornando al Gan, come vi muoveste concretamente?
In quegli anni, la mentalità ufficiale continuava ad essere di totale avversione all’obiezione di coscienza. Contro i nostri tentativi di parlarne in piazza, quella mentalità trovava un sostegno repressivo nei regolamenti polizieschi di pubblica sicurezza, “intruglio di fascismo e di reminiscenze borboniche”, come li definì l’allora vice-primo ministro Nenni nel nuovo governo di centro-sinistra.
Parliamo dunque del rapporto con le forze dell’ordine. Erano quelli gli anni di fatti gravi come i morti di Reggio Emilia…
Sì, infatti. Nel clima d’odio che avvelenava la vita politica di quegli anni, le manifestazioni di piazza finivano quasi sempre per degenerare in scontri cruenti con le forze di polizia. Bastava un minimo incidente, proveniente o dall’animosità e dalle intemperanze dei dimostranti o talora dalle stesse forze dell’ordine, perché la piazza si trasformasse in un campo di battaglia, con un infuriare di manganellate, caroselli, lacrimogeni e perfino, come voi accennate, fucilate omicide. Per noi del GAN, ovviamente, non si dette mai la circostanza di arrivare a quegli estremi selvaggi, dato che – a parte il freno del nostro atteggiamento nonviolento – in quattro gatti com’eravamo non facevamo massa da disperdere senza sugo con la violenza. Tuttavia, anche se non drammatici, i nostri rapporti con la polizia si presentarono fin dall’inizio di notevole difficoltà, sul piano direi mentale e nervoso. Da inesperti in materia quali eravamo, nel confronto con le questure zelantemente prone a vietarci meccanicamente le manifestazioni, il nostro iniziale puntello dirimente su cui poggiare fu il richiamo al rispetto preminente della Costituzione. Ne portavamo sempre appresso il testo e ne recitavamo a memoria gli appositi articoli: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola e ogni altro mezzo di diffusione. Per le riunioni in luogo pubblico, le autorità possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.” Poca cosa invero, a trattenere le questure dal loro zelo non propriamente democratico, al servizio piuttosto del potere autoritario che a quello dei cittadini. Sta di fatto che sin dalla prima manifestazione – come dicevo – avemmo a dover confrontarci con i loro puntuali divieti. Non potevamo ovviamente contentarcene, chiudere lì la partita e restarcene a casa: che GAN altrimenti saremmo mai stati? Così, dopo aver rispettosamente replicato alla questura di non averci messi in grado di tener debito conto del suo divieto poiché non adeguatamente motivato, l’avvisammo al contempo che di conseguenza avremmo effettuata la manifestazione come precedentemente notificatale. “Effettuazione” per modo di dire. Infatti, non appena arrivati noi in piazza, non ci eran dati che pochi minuti di saluto e di dialogo con gli agenti; tradotti in questura e lì trattenuti per diverse ore, venivamo quindi denunciati per manifestazione vietata (che non c’era stata!). La prima volta ci adeguammo di buon volere: c’era il preliminare bisogno di acquisire un’esatta conoscenza di quel modo illegale di procedere poliziesco e di fare una debita reciproca conoscenza, intanto saggiando la nostra tenuta e capacità di azione. Ma da quei primi interventi lasciatici tranquillamente reprimere sul nascere, fu necessario passare ad una qualche resistenza a quel troppo comodo modo di fare dei tutori dell’ordine.
…È la ricostruzione a posteriori di come andarono le cose o la progressione fu programmata?
No, la progressione nella maggiore radicalità della nostra azione conseguì in via necessaria da come andarono le cose – come voi dite -, così assurdamente arbitrarie da imporci il dovere di contrastarle foss’anche soltanto a tutela di un fondamentale diritto democratico, prima ancora della possibilità negataci di esprimere liberamente le nostre idee. Attuammo così un secondo stadio di azione, che venne a consentirci di rimanere e farci vedere in piazza per un sufficiente lasso di tempo prima dello scontato intervento della polizia e ne documentasse l’arbitrio sullo svolgimento della nostra legittima e più che tranquilla manifestazione. La cosa si svolgeva così. Alcuni di noi, sparsi qui e là nella piazza, cominciavano a distribuire volantini, altri ad assestare in giro dei cartelli. Questo ci dava modo di iniziare ad attrarre l’attenzione di un discreto numero di passanti e trattenerli a scambiare qualche battuta. La polizia altresì si trovava costretta ad indugiare nel suo intervento, dovendo prima riprendersi dal nostro inaspettato dispiegamento, e poi al momento dell’intimazione del fermo trovarsi alquanto imbarazzata con attorno una schiera di cittadini, fatti attoniti e riluttanti da quel suo procedere contro pacifici e rispettosi dimostranti quali noi eravamo. Poi comunque consentivamo a lasciarci andare ancora una volta alla trafila del fermo che vi ho descritto per le prime manifestazioni, soddisfatti stavolta di avervi potuto dare un minimo inizio. Ma c’era bisogno per noi di non stare più a quel gioco, così tanto scorretto. Troppo comodo e facile era per la polizia di stroncare la manifestazione sul nascere, e per noi poco utile sprecar energie, oltre che tempo e denari, a quel ridotto livello. Decidemmo pertanto di passare ad un terzo stadio di azione, che comportava la renitenza a sottostare volontariamente al fermo ingiustificato – tanto più che nel frattempo eravamo stati assolti nel primo dei processi intentatici dalla polizia.
Cosa dunque faceste? Che cosa vi accadde?
Organizzammo per una stessa giornata, e nel medesimo posto, due manifestazioni separate tra loro di alcune ore. All’inizio del mattino, ancora deserto di passanti, quattro dimostranti solitari si presentarono in piazza senza esporre alcun cartello, subito abbordati da alcuni funzionari della questura da noi preavvertita. All’accenno dei dimostranti ad iniziare la manifestazione, ecco scattare l’immancabile denuncia. La cosa venne a risultare d’una arbitrarietà talmente plateale che – per dirla in breve – quella questura ebbe a ricordarsene. Infatti nel conseguente processo, che fu ovviamente di assoluzione, il giudice non si limitò a smentirne l’operato, ponendone altresì in evidenza il ridicolo. Poche ore dopo, preavvisata la questura che saremmo comunque tornati senza tregua a manifestare nella stessa piazza di prima, un altro gruppo di dimostranti entrò in azione, nell’ora di punta del mezzogiorno, disponendosi tranquillamente a sedere sul piedistallo del monumento al centro della piazza, ed esibendo alcuni cartelli che riproducevano gli articoli della Costituzione sulla libertà di manifestazione. Furono subito attorniati da un drappello di agenti in divisa, a loro volta attorniati da un nugolo di curiosi. Gli agenti, dopo vani tentativi di farli allontanare, vi desistette: la situazione era talmente tranquilla ed attraente, che la folla non se ne dava per inteso. Addirittura una ragazza venne a sedersi accanto ai dimostranti, e contro le intimazioni degli agenti a scostarsi da lì, vi persistette dicendo che non ne vedeva il motivo da pacifica cittadina qual’era e che quei dimostranti le erano simpatici. Così il tempo passava, col comandante delle forze dell’ordine che non sapeva che fare, di fronte all’inatteso rifiuto dei dimostranti al suo ordine di sgombero, a cui essi rispondevano che vi avrebbero senz’altro aderito, non appena fossero stati loro precisati i comprovati motivi richiesti dalla Costituzione. Ricordo ancora l’episodio di una persona che si trovava in prima fila nella folla accalcata intorno, e che all’indirizzo del dimostrante che si era così espresso gridò bravo!, e sporgendo il figlioletto che reggeva sulle spalle al di sopra di quelle degli agenti lo incitò a dire: “Stringi la mano al signore”, tra uno sgorgare di applausi. Venne infine l’ordine superiore del questore di procedere al fermo con lo sgombero forzato. I dimostranti vi si erano ben preparati, sul piano fisico ed anche giuridico: abbandonarsi passivamente all’azione di sgombero non comporta per legge il reato di resistenza a pubblico ufficiale. L’inusitata operazione per i poliziotti viene a farsi alquanto complicata e psicologicamente intrigante. Ad uno ad uno i dimostranti, lasciatisi andar sdraiati inerti a terra, vengono strascinati per decine di metri al furgone di polizia ai lati della piazza, essi tranquilli e gli agenti sbuffanti, ai quali l’atteggiamento pacifico dei dimostranti e il clima altrettanto disteso e interessato che – come fosse uno spettacolo teatrale – s’era instaurato tra le centinaia di cittadini tutt’intorno, non dava appiglio alla loro più familiare e sbrigativa pratica di sgombero a base di manganellate. Da quella dimostrazione che inaugurava il terzo grado di azione con la resistenza passiva al fermo, non avemmo poi più nessun impedimento a manifestare liberamente, perlomeno da parte della questura di Milano dove essa avvenne.
A un certo punto il Gan si scioglie… perché?
Soltanto nominalmente, non nella sostanza. Già durante il periodo delle sue azioni di piazza, il GAN aveva esteso la propria attività ad altri tipi e settori di iniziativa, che non comportavano le troppo usuali complicazioni poliziesche. In tal modo si dava agio ad una più ampia partecipazione ad esse di persone e associazioni simpatizzanti, allargando così l’interesse al lavoro più generale del Movimento Nonviolento, nel cui nome quelle iniziative venivano indette: campi di lavoro-studio-addestramento alla nonviolenza, convegni, seminari sulla nonviolenza, marce, eccetera. Inframmezzate a queste, il GAN proseguiva peraltro nelle sue specifiche manifestazioni di piazza, che per la loro originalità e il positivo costrutto andavano suscitando un vivo interesse in diversi movimenti della contestazione. E al termine della serie di azioni dirette di cui abbiamo prima parlato, il GAN dismise definitivamente il suo nome ma ne mantenne lo spirito e il metodo, trasferendoli poco dopo ad un’altra modalità di azione diretta, quella delle marce antimilitariste, che suscitarono la partecipazione di centinaia di persone e di gruppi i più diversi, sospinti dall’entusiasmo di portarsi ora a più confacenti azioni dirette sullo stile di quelle del GAN, allontanandosi così dal disastroso tipo di manifestazione tendenzialmente turbolenta e rissosa corrente in quegli anni.
Già, le marce antimilitariste…un’altra stagione straordinaria… puoi farcene almeno un cenno? Poiché in questa chiacchierata vi interessa eminentemente parlare dell’azione diretta, non starò a dilungarmi sui tant’altri aspetti di quelle marce, di grande valore educativo: sia nei riguardi delle migliaia di cittadini che le marce (ciascuna della durata dai 10 ai 15 giorni) nei loro vari momenti della giornata ti davano la possibilità di avvicinare, cittadini tra i più diversi che, attratti da quell’originale tipo di manifestazione pacifica e dialogante, vi trovavano ogni agevolezza, anche se dissenzienti dalle idee dei marciatori, di colloquiare con loro in modo semplice e franco, contenti di vedersi inseriti in quell’ambiente civile e democratico in cui poter esprimere come mai pubblicamente le proprie idee, fuori dalle lambiccate astruserie dei loro vertici politici e confessionali; educative le marce per le stesse forze dell’ordine, che dalla disciplina nonviolenta dei marciatori e dal grande interesse e simpatia della popolazione che li attorniava, erano condotte a rimanere sul piano per esse più dignitoso di effettive garanti dell’ordine pubblico democratico che non su quello più abitualmente repressivo; ed educative pur anche le marce per gli stessi accaniti oppositori di destra, ripiegati a riflettere sullo smacco di inerzia e di silenzio cui veniva ad approdare il loro programmato intento di far naufragare le marce attraverso l’arma consueta della vociferante provocazione e dello scontro violento. Vuoi dirci qualcosa di più proprio a quest’ultimo riguardo?
Ma sì, per finire, vi cito uno soltanto tra i moltissimi episodi, avvenuto durante una marcia in quel Friuli-Venezia dove da tempo si distinguevano gruppi di giovani della destra fascista notoriamente dediti alla provocazione ed alla aggressione nei confronti degli avversari di sinistra. Al termine della camminata giornaliera di una ventina di chilometri i marciatori si erano seduti compostamente in terra al centro della piazza principale di Codroipo, in attesa di iniziare il loro consueto comizio-dibattito con la popolazione. A un lato della piazza, affollata di paesani, vi era già ad accoglierli un folto manipolo di baldi fascisti, e ingenti forze dell’ordine attruppate al lato diametralmente opposto. In questo spazio della piazza così sgombro, i fascisti ebbero campo e agio di esibirsi a lungo contro i marciatori con urla, insulti, minacce, lancio di uova e ortaggi. Insulti e minacce venivano tranquillamente ricambiati dai marciatori con ampi sorrisi, e i pomodori accolti e perfino sollecitati con applausi, così ristoratori com’erano della sete patita nella lunga camminata della giornata. Di più, i marciatori invitavano civilmente i fascisti schiamazzanti a prendere la parola all’altoparlante della marcia, dove potevano più distintamente esprimere al meglio e quanto volevano le ragioni del loro dissenso. Ma, poverelli, educati com’erano a poco più che alla gazzarra e alla rissa, non seppero fare null’altro che continuare a prodursi in quella loro penosa esibizione, sempre speranzosi di farne sprigionare in qualche marciatore anche soltanto un guizzo esasperato che accennasse ad un gesto di sfida, con finalmente l’atteso pretesto di scatenarsi al loro beneamato scontro violento. La gazzarra fascista incalzava da oltre mezz’ora, con le forze dell’ordine sempre immobili all’estremità della piazza – i loro comandanti occupati a scambiare gioviali battute con gli stessi fascisti tra i quali si erano amichevolmente ritrovati fin dall’inizio. Ma all’opposto di quanto sperato, l’intera indecorosa provocazione venne alfine a miseramente sgonfiarsi. In un momento di particolare tensione, il coordinatore della marcia riuscì a farsi sentire in tutta la piazza parlando scanditamente dal proprio altoparlante. Disse prima di voler tralasciare il fatto delle forze dell’ordine lì immobili a non bloccare com’era loro dovere la chiassata fascista, che comunque per quanto fastidiosa poco caleva alla tenuta pacifica dei marciatori; poi – rivolto particolarmente alla folla di cittadini che attentamente continuavano a sostare agli angoli della piazza – li invitò a ben osservare peraltro come l’assurda disposizione dei poliziotti schierati alle spalle dei marciatori lasciava completamente libero il campo ai fascisti di far precipitare la situazione da un momento all’altro verso un possibile tafferuglio da cui anche un parapiglia generale. Talmente plateale venne a risultare la tolleranza e quasi la compiacenza poliziesca alla provocazione in corso, che il comandante degli agenti dovette alfine risolversi a farli schierare di fronte al gruppo dei fascisti – che si trovarono ridotti a zittirsi e a rodersi in un ghetto di sovrana inettitudine. Prese quindi avvio senza più alcun disturbo il comizio-dibattito, con un concorso eccezionale di pubblico. È tempo veramente di concludere, non vi pare? A voi di aggiungere un qualche altro possibile capitolo all’esperienza del GAN, che, persuasi come siete della sua attuale validità, vi interessa riproporla anche alla approfondita considerazione dei presenti movimenti della contestazione globale, impegnati nella possibile attuazione di una società un po’ più umana e civile, più di pace, di nonviolenza.
(Intervista a cura di Pasquale Pugliese e Luca Giusti) http://nonviolenti.org/cms/index.php?page=an-luglio-2004#b