Paolo Arena e Marco Graziotti intervistano Pasquale Pugliese
intervista pubblicata su:
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 267 del 30 luglio 2010
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come e' avvenuto il suo accostamento alla nonviolenza?
- Pasquale Pugliese: Da giovane studente di filosofia, sempre alla ricerca di punti di contatto tra il pensare e l’agire, consapevole della necessita' di operare per il cambiamento ma insoddisfatto dai limiti dei partiti (mi era molto chiara la serrata critica di Ignazio Silone in Uscita di sicurezza...), mi e' capitata tra le mani l’autobiografia di Gandhi. Ne ho colto principalmente la proposta della nonviolenza come prassi politica dal basso a disposizione di tutti. Ho cominciato a orientare la mia ricerca in questo campo, sia sul piano culturale che su quello politico che su quello personale, misurandomi - contemporaneamente - con gli scritti di Aldo Capitini, filosofo italiano della nonviolenza, sul cui pensiero ho lavorato per la tesi di laurea; con la scelta dell’obiezione di coscienza, svolgendo il servizio civile in una comunita' di prima accoglienza per giovani tossicodipendenti; e con il movimento universitario della “pantera”, nella difficile occupazione della facolta' di Lettere dell’Università di Messina, dov’era forte sia la componente fascista che quella legata alla criminalita' organizzata.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali personalita' della nonviolenza hanno contato di piu' per lei, e perche'?
- Pasquale Pugliese: In fase di formazione sicuramente Aldo Capitini, la cui opera ho studiato con passione e attenzione, e Gandhi che e' un punto di riferimento imprescindibile per chiunque di accosti alla nonviolenza. Successivamente, tra gli italiani, Lorenzo Milani e Danilo Dolci, e tra i personaggi internazionali Johan Galtung, Giuliano Pontara e Pat Patfoort. Quest’ultima ho avuto il piacere di invitarla piu' volte a Reggio Emilia per incontri di formazione con gli educatori. Poi, partecipando alle attivita' e all’organizzazione del Movimento Nonviolento, ho conosciuto e stimato tutti coloro che hanno continuato l’opera di Capitini. Ne cito tre per tutti: Pietro Pinna, Daniele Lugli e Mao Valpiana.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali libri consiglierebbe di leggere a un giovane che si accostasse oggi alla nonviolenza? E quali libri sarebbe opportuno che a tal fine fossero presenti in ogni biblioteca pubblica e scolastica?
- Pasquale Pugliese: Piu' volte mi e' capitato di animare gruppi di lettura sui “fondamenti” del pensiero nonviolento, ed ho proposto pagine antologiche tratte praticamente dai lavori di tutti i personaggi ricordati prima. Comunque l’ultimo libro che mi e' capitato d consigliare, in quest’ottica, e' L’antibarbarie di Giuliano Pontara. In una biblioteca sarebbe importante avere almeno i lavori dei nonviolenti italiani - Capitini, Dolci, Milani - anche nelle nuove edizioni antologiche che, man mano, vengono pubblicate. E poi sarebbe assolutamente necessario abbonarsi alla rivista fondata da Capitini nel 1964, "Azione nonviolenta", tutt’ora viva e vegeta, ed acquistare i “quaderni” editi dal Movimento Nonviolento. Inoltre, provero' ad indicare man mano dei riferimenti bibliografici relativi ai vari argomenti di questa intervista.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: In quali campi ritiene piu' necessario ed urgente un impegno nonviolento?
- Pasquale Pugliese: Oggi, credo che le condizioni civili, politiche e sociali in cui versa il nostro paese, richiedano un impegno nonviolento capace di agire contemporaneamente su molti versanti, tra loro intrecciati. Cio', purtroppo, non avviene nella maniera capillare, profonda e organica che l’urgenza delle questioni imporrebbe, ma molti amici della nonviolenza sono parte attiva in varie iniziative, campagne e movimenti di lotta. Tra questi, tra i piu' importanti, mi preme sottolineare: la difesa della democrazia, dell’informazione libera e la tutela della Costituzione; il disarmo, il ritiro dei militari italiani dai fronti di guerra, la riduzione drastica delle spese militari e la costituzione dei Corpi Civili di Pace; la lotta antirazzista a fianco dei migranti; la lotta alle mafie ed ai poteri occulti; la difesa e il rilancio della scuola, della cultura e l’avvio di buone prassi educative e formative esplicitamente ispirate alla nonviolenza.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali centri, organizzazioni, campagne segnalerebbe a un giovane che volesse entrare in contatto con la nonviolenza organizzata oggi in Italia?
- Pasquale Pugliese: Pur nella consapevolezza che oggi, fortunatamente, diverse organizzazioni - sia di ispirazione laica che religiosa - si rifanno alla nonviolenza, tuttavia continuerei a segnalare il Movimento Nonviolento, fondato da Aldo Capitini e da alcuni amici, nel 1961 in seguito alla prima “Marcia per la pace e le riconciliazione dei popoli” da Perugia ad Assisi. Segnalerei le sue sedi, i suoi centri studi, i suoi referenti locali e indicherei nel sito www.nonviolenti.org il punto di riferimento per raccogliere le informazioni necessarie. Suggerirei inoltre, se nel suo paese o nelle vicinanze non ci fossero gruppi organizzati, di farsi “centro” anche individualmente cercando, pian piano, di aggregare intorno a se' anche un piccolo gruppo. E con quello cominciare a fare attivita' culturale, formativa e politica dal basso. Un prezioso alleato e uno strumento insostituibile in questo senso sara' sicuramente l’abbonamento alla rivista “Azione nonviolenta” e la sua diffusione locale.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come definirebbe la nonviolenza, e quali sono le sue caratteristiche fondamentali?
- Pasquale Pugliese: Non e' facile dare una definizione sintetica di nonviolenza. Negli incontri di formazione, di solito, chiedo ai partecipanti di proporne dei sinonimi e poi proviamo ad avvicinarci, per approssimazioni successive, ricercando insieme cio' che pare accomunare e distinguere la nonviolenza dalle parole sorelle, ma altre. Il mio contributo di solito e' volto a chiarificare i significati delle parole ed infine a spiegare la nonviolenza in quanto dinamica transculturale di “prassi-teoria-prassi”, che evolve attraverso aggiunte successive. In cui il punto di partenza sono state le pratiche nonviolente per affrontare i conflitti che, con maggiore o minore consapevolezza, singoli e popoli da sempre hanno messo in atto. Poi, a partire dall’esperienza gandhiana - che attraverso il satyagraha ha dato forma e consistenza politica e di massa, nella lotta per l’autogoverno dell’India, a queste pratiche antiche (non a caso uno dei piu' celebri aforismi gandhiani recita: io non ho niente di nuovo da insegnare al mondo: la verita' e la nonviolenza sono antiche come le colline) - a partire dall’esperienza gandhiana, dicevo, la nonviolenza e' entrata in maniera irreversibile nella storia del ‘900. Molti studiosi della politica e dei movimenti sociali, in varie parti del mondo, se ne sono occupati e nel far cio' hanno contribuito anche a diffonderne principi e metodi in altre latitudini; altri singoli e popoli li hanno fatti propri aggiungendo elementi legati alla propria specificita' ed altri ricercatori ne hanno evidenziato le nuove caratteristiche, in un processo continuo in cui ciascuno ha aggiunto e puo' sempre aggiungere qualcosa.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e femminismo?
- Pasquale Pugliese: Il movimento di emancipazione delle donne e' stato, probabilmente, il piu' importante movimento d’Occidente ad aver praticato metodi nonviolenti. Riuscendo ad operare, attraverso le sue diverse articolazioni, sui tre elementi costitutivi dei sistemi di violenza, come analizzati con efficacia da Galtung: la violenza diretta, la violenza strutturale e quella culturale (per l’approfondimento del pensiero di Galtung si puo' vedere l’imponente lavoro Pace con mezzi pacifici). Tutte contemporaneamente presenti nel sistema patriarcale. Naturalmente, come spesso succede, la lotta ad un sistema di violenza, di per se', non e' affatto garanzia di costituzione del sistema migliore possibile, e infatti la conquista della parita' di diritti tra uomini e donne ha portato anche ad alcune contraddizioni come, per esempio, il servizio militare volontario non abolito per tutti, uomini e donne, ma allargato a queste ultime. Che per fortuna lo hanno guardato con grande diffidenza, preferendo scegliere invece, in misura maggioritaria rispetto agli uomini, il servizio civile nazionale. E cio' aggiunge ancora qualcosa sul rapporto tra movimento delle donne e nonviolenza...
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza ed ecologia?
- Pasquale Pugliese: L’approccio nonviolento alle relazioni comprende, naturalmente, anche le relazioni con la natura. Per cui l’ecologia e' parte integrante della nonviolenza. Ma in una fase come questa, di grande pericolo per l’esistenza stessa della biosfera, cio' non e' sufficiente che sia dichiarato. Si tratta di sostenere le campagne e le lotte di resistenza verde dei popoli della terra e di far propri gli stili di vita piu' sobri e consapevoli. A partire, per esempio, dall’uso responsabile dei mezzi di trasporto e delle risorse energetiche. Uscendo dalla dipendenza dal fossile e dal nucleare (nel quale ci vogliono far ripiombare!) e lavorando per una riconversione dell’economia che sia sostenibile dal punto di vista ambientale e umano. Cio' che gli studiosi piu' avveduti chiamano la “decrescita felice” e che a me piace semplicemente chiamare un’”economia nonviolenta”.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza, impegno antirazzista e lotta per il riconoscimento dei diritti umani di tutti gli esseri umani?
- Pasquale Pugliese: Vedo dei rapporti strettissimi. Anzi, la nonviolenza moderna si forgia esattamente all’interno delle lotte di liberazione dei popoli dalle oppressioni di tipo razzista. E nasce, non a caso, in Sudafrica, un 11 settembre all’inizio del XX secolo - meno conosciuto di quello che ha aperto il XXI secolo perche' e' stato all’origine di una speranza collettiva e non di una tragedia - che ha dato avvio a un secolo di lotte nonviolente. Era infatti l’11 settembre del 1906 quando Gandhi, nel teatro imperiale di Johannesburg, presentava agli indiani immigrati in Sudafrica la sua proposta di lotta nonviolenta contro le discriminazioni subite. Metodo sperimentale, che solo dopo essere stato sperimentato con successo nel laboratorio sudafricano e' introdotto dallo stesso Gandhi in India.
E in India, nel 1959, si reco' a visitare le comunita' gandhiane il giovane pastore Martin Luther King, che aveva gia' sperimentato a sua volta il boicottaggio degli autobus di Montgomery, e dopo quel viaggio promosse con ancora maggior convinzione e consapevolezza la nonviolenza come metodo di lotta per la conquista dei diritti civili per la popolazione afroamericana degli Usa. Ancora in Sudafrica - stavolta alla fine del XX secolo - e' proprio l’uso della nonviolenza su larga scala che fa si' che si sgretoli finalmente il regime dell’apartheid, dando l’avvio, con Nelson Mandela presidente, non alle ritorsioni ed alle vendette, ma a un complesso e profondo processo di riconciliazione nazionale.
Oggi, ci troviamo ad affrontare il ritorno del razzismo in Italia. Dopo che per anni i conflitti interculturali sono stati demonizzati da un lato ("padroni a casa nostra: gli extracomunitari devono andarsene") e minimizzati dall’altro ("la nostra economia ne ha bisogno: possono rimanere purche' si comportino bene"), ma in nessun caso assunti - come fenomeno inevitabile nello “scatto di crescita” di una societa' che in pochissimi anni si e' ritrovata multiculturale e, pian piano, diventera' transculturale, ossia meticcia - e poi gestiti e trasformati in senso nonviolento, oggi questi conflitti degenerano in un dilagante razzismo. Alimentato dalla “pedagogia razzista di massa” (come la definisce Annamaria Rivera) della Lega, che offre alla “pancia” della gente, dove passano gli argomenti che banalizzano la realta' complessa, il capro espiatorio dei migranti quale “nemico interno” su cui scaricare quella rabbia sociale generata dalla vera insicurezza: quella esistenziale. Soprattutto in questo tempo di crisi generalizzata. Si tratta, percio', per coloro che si rifanno alla nonviolenza di assumere il razzismo come una vera emergenza di ordinaria violenza italiana che attraversa le leggi e le istituzioni, si diffonde dai mezzi di informazione e dilaga sui corpi dei migranti, come accade nei Cie e nelle tante Rosarno d’Italia.
A tutte queste ingiustizie bisogna rispondere, io credo, con la nonviolenza lungo tre direttrici:
- una indirizzata ai cambiamenti normativi, mettendo in campo delle campagne specifiche per l’abrogazione di quella barbarie giuridica che e' il reato di clandestinita', per il diritto di cittadinanza per i bambini figli di migranti che nascono in Italia e per il diritto di voto ai loro genitori, almeno nelle elezioni amministrative;
- una indirizzata ai mezzi d’informazione costituendo, per esempio, “osservatori territoriali” rispetto a come vengono trattati i migranti nei mass-media locali, spesso formidabili veicoli di stereotipi e pregiudizi, che si aggiungono a quelli diffusi dai mezzi nazionali;
- infine, una indirizzata alla formazione delle comunita' migranti rispetto alle “tecniche” della nonviolenza, per aiutarli a condurre con maggiore forza le mobilitazioni e anche la loro autodifesa... come si faceva nel Sud degli Usa negli anni ’50 e ‘60.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotta antimafia?
- Pasquale Pugliese: In Italia è in atto una "guerra civile” della quale nessuno tiene il conto preciso: quella delle mafie contro gli italiani. Non e' facile trovare una cifra unitaria che definisca i numeri dei morti per mano delle mafie: si va, in base alle fonti, da un minimo di 3.000 negli ultimi 12 anni a un massimo di 30.000 negli ultimi 30 anni. Per fare un confronto, in Irlanda del Nord la “guerra dell’Ulster” dal 1969 al 1998 ha prodotto 3.500 morti, mentre nei Paesi Baschi la lotta dell’Eta per l’indipendenza ha prodotto circa 800 morti in 40 anni. Ed i morti non dicono tutto sulla guerra in atto.
La democrazia, l’economia e la societa' italiana sono pesantemente condizionate, a tutti i livelli, dai poteri mafiosi e occulti, molto di piu' di quanto abbiamo finora immaginato. Inoltre, nonostante che con i 135 miliardi di euro di fatturato annuo “accertato”, le mafie siano la prima “azienda” multinazionale italiana, con ramificazioni e traffici in tutte le regioni d’Italia e in tutti i paesi del globo, esse sono ancora profondamente radicate in un sistema di violenza territoriale tale per cui almeno tre regioni in Italia sono sotto occupazione, oltre che sul piano militare, anche sui piani economico, politico, sociale, sanitario, ambientale e mediatico.
Oggi, tra tutte, la terra piu' martoriata e' sicuramente la Calabria, stretta nelle maglie della ‘ndrangheta, la mafia piu' potente del pianeta. Terra in cui, come ribadisce tra gli altri Pierpaolo Bruni, magistrato antimafia a Crotone, “le principali liberta' costituzionali sono condizionate: il voto, la libera impresa, il diritto di cronaca, la liberta' di manifestazione del pensiero. La democrazia azzerata. Viviamo in un avamposto. Ai margini della vita civile”. Terra in cui non e' consentita un’informazione libera, ed e' concentrato il piu' alto numero di giornalisti che vive sotto costante minaccia di morte, per se' e per la propria famiglia, solo perche' continuano a fare con onesta' il proprio lavoro di cronisti politici o giudiziari sui quotidiani locali. Cio' e' raccontato, per esempio, nel bel libro Avamposto. Viaggio nella terra dei giornalisti infami, di due giovani giornalisti, Roberta Mani e Roberto Rosso, da cui emerge con nitidezza il profilo di una terra in cui la mafia rappresenta l’istituzione totale e dove l’immaginario dei bambini e dei ragazzi e' segnato nel peggiore dei casi dalla paura e contemporaneamente dall’ammirazione per i feroci custodi della violenza; nel migliore, e' privo di futuro. Una terra dove le relazioni umane sono viziate da un deviato sentimento di rispetto, vincolato non alla dignita' umana, ma ai legami con le famiglie potenti, e chi non sta al gioco e' un “infame”. Su questi elementi “culturali” e sociali la ‘ndrangheta fonda il suo dominio piu' solido e profondo.
Per queste ragioni, la via d’uscita dalla guerra e dall’occupazione delle mafie non puo' avvenire solo per via militare e giudiziaria, ma ha bisogno di una risposta nonviolenta. Ha bisogno di una diffusa obiezione di coscienza da parte dei singoli e di una diffusa disobbedienza civile da parte dei popoli, nei loro territori: obiettare e disobbedire alla legge della violenza, della sottomissione, della rassegnazione. Ma perche' cio' possa avvenire e' necessario un profondo lavoro di “coscientizzazione”, come Paulo Freire definisce il primo passo della sua “pedagogia degli oppressi”, per aiutare chi nasce e cresce dentro un sistema di violenza a rendersene conto, a giudicarlo, a prenderne le distanze ed infine a combatterlo, obiettando e disobbedendo ai poteri occulti e disumani. Anche se annidati, come per Peppino Impastato, dentro la propria famiglia e tra gli stessi “amici”...
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotte del movimento dei lavoratori e delle classi sociali sfruttate ed oppresse?
- Pasquale Pugliese: Un rapporto strettissimo che passa anche attraverso il movimento sindacale. Il sindacato, infatti, oltre ad avere l’importante ruolo sociale e politico di tutela dei diritti dei lavoratori, sempre piu' violati in tutti i paesi da un capitalismo neoliberale senza vincoli e senza regole, e' anche il principale custode di un prezioso strumento di lotta nonviolenta: lo sciopero. Anche per questo, l’unica tessera che possiedo, oltre quella del Movimento Nonviolento, e' quella sindacale.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotte di liberazione dei popoli oppressi?
- Pasquale Pugliese: Credo che le lotte di liberazione in cui i popoli hanno usato la nonviolenza per uscire dal proprio stato di oppressione, interna o esterna, sono quelle che hanno realizzato i cambiamenti piu' profondi e duraturi: lo abbiamo visto nel corso del ‘900 in India, in Sudafrica, in Cile, nei paesi dell’Europa dell’Est. Altre lotte di liberazione sono oggi in corso e diversi popoli hanno scelto consapevolmente di usare la nonviolenza: i tibetani, i birmani, i saharawi. Penso, percio', che i nostri movimenti che si ispirano alla nonviolenza abbiano il compito di operare affinche' sempre piu' popoli si approprino degli strumenti nonviolenti per liberarsi dalle proprie catene. Rifuggendo, possibilmente, dai rischi della presbiopia sociale, che ti fa vedere piu' nitidamente le oppressioni geograficamente lontane, ma piu' confusamente quelle sotto casa: per esempio quelle subite dai migranti o dal popolo calabrese...
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e pacifismo?
- Pasquale Pugliese: I movimenti che si ispirano alla nonviolenza sono parte del piu' vasto movimento per la pace, ma stanno al suo interno con una propria specificita' che, a mio avviso, possiamo riassumere attraverso tre elementi caratterizzanti:
- assumono il problema della violenza nella sua portata piu' ampia e profonda, che riguarda non solo la guerra, ma anche quelle strutture economiche, politiche, militari, culturali che - oltre a renderla possibile - sono fattori di violenza esse stesse;
- lavorano non per un’utopia irenica - pace come assenza di conflitti - ma assumono la realta' dei conflitti come parte ineliminabile della condizione umana, dal piano inter-personale a quello inter-nazionale, e sperimentano pratiche e propongono interventi per trasformare i conflitti in senso meno distruttivo. Ricercando e indicando le alternative possibili alla violenza e alla guerra.
Conseguentemente, i movimenti che si ispirano alla nonviolenza sono per il superamento degli eserciti e degli armamenti e operano attivamente per loro sostituzione con quelle forme di difesa non armata e dal basso, che alcuni chiamano “difesa popolare nonviolenta” e altri “difesa civile” (rispetto a questi temi suggerisco le diverse ricerche e pubblicazioni di Alberto L’Abate, Tonino Drago e Nanni Salio).
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e antimilitarismo?
- Pasquale Pugliese: Per le ragioni indicate l’antimilitarismo e' costitutivo della nonviolenza. Ma credo che sia costitutivo anche dell’ispirazione piu' profonda presente nel patto fondamentale che e' la nostra, martoriata, Costituzione. Mi spiego: l’articolo 11 della nostra Carta fondamentale “ripudia” (che e' termine forte, che indica cio' che e' stato sperimentato con orrore e viene, per sempre, allontanato da se') “la guerra” non solo “come strumento di offesa alla liberta' degli altri popoli”, ma anche “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ma perche' il ripudio di questo mezzo sia effettivo, il diretto corollario e' che bisogna sostituire l’uso del mezzo militare, strumento di guerra, con altri mezzi capaci di risolvere le controversie in maniera non militare. E’ proprio per questo che oggi, in una legge dello stato - la numero 64 del 2001 istitutiva del Servizio Civile Nazionale - e' possibile che ci sia scritto, all’articolo 1, che il Servizio Civile, “e' finalizzato a concorrere, in alternativa al servizio militare obbligatorio, alla difesa della Patria con mezzi ed attivita' non militari”. Salvo che poi per la spesa “ordinaria” dell’apparato militare - quel mezzo ripudiato dalla Costituzione - vengono spesi oltre 20 miliardi di euro l’anno, mentre per il servizio civile - che dovrebbe declinare il “mandato” dell’art. 11 - c’e' un taglio continuo delle gia' poche briciole, che non solo non consentono al ServizioCivile Nazionale di “concorrere” con il servizio militare, ma riducono anno dopo anno il numero di giovani che sono disponibili a fare anche un “semplice” servizio connotato socialmente...
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e disarmo?
- Pasquale Pugliese: Per tutto ciò il rapporto tra nonviolenza e disarmo e' stringente, perche' nella preparazione bellica si sperperano ogni anno esattamente tanti miliardi quanti ne taglia Tremonti alle spese sociali nelle sue finanziarie. Non solo tagliare scuola, sanita', cultura, stipendi, pensioni ecc. e' una violenza in se', ma non tagliare le spese per gli armamenti e il mostruoso apparato militare impedisce anche di sperimentare qualunque forma alternativa di difesa. Del resto, le spese militari, non sono volte piu' alla “difesa” ma soprattutto all’offesa perche', come ha scritto il Movimento Nonviolento nel documento di adesione allo sciopero generale della Cgil contro la legge finanziaria, “agli oltre 20 miliardi di euro previsti per le spese 'ordinarie' di mantenimento di un apparato sprecone, in cui i comandanti sono piu' dei comandati, lo stesso governo dei 'tagli' sta per sommare altri 16 miliardi di spese per l’acquisto di 131 caccia F-35, aerei da attacco capaci di trasportare anche armi nucleari”.
Tutto ciò, e molto altro, e' ben documentato nel recente libro di Vignarca e Paolicelli, Il caro armato. Che consiglio.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione filosofica?
- Pasquale Pugliese: Non e' facile rispondere a una domanda di tale profondita' e vastita' nel corso di un’intervista. Provo tuttavia ad indicare, solo superficialmente, alcuni “guadagni” di pensiero - rilevanti per la mia formazione - apportati alla riflessione filosofica da quegli “amici della nonviolenza” che piu' di altri ne hanno esplorato il sentiero filosofico: Aldo Capitini, Giulino Pontara e Jean-Marie Muller.
Aldo Capitini ha svolto una critica serrata alla realta' attuale nella sua totalita', dalla dimensione ontologica a quella politica, e si e' confrontato con le grandi correnti filosofiche e religiose del passato e del presente che hanno dato legittimita' etica e religiosa all’esistente (idealismo e cristianesimo, su tutte) oppure che non sono riuscite a trasformare la critica in prassi di trasformazione (esistenzialismo). Capitini ha elevato una protesta cosmica nei confronti del male, della violenza e del dolore ed ha assunto la nonviolenza come principio trasformatore della realta', capace di incidere nelle trame profonde della relazioni umane e naturali. Agire attraverso la “prassi pura” della nonviolenza significa aprire, hic et nunc, spazi e tempi di realta' liberata - realta' di tutti - all’interno delle chiusure e finitezze della realta' attuale. Cio' segna anche la distinzione tra l’utopia e la “persuasione” o la profezia. Lo ha segnalato bene Norberto Bobbio (che ha inserito Capitini tra le poche figure di intellettuali italiani presentate nel suo Maestri e compagni), nell’introduzione al libro di Capitini, pubblicato postumo, Il potere di tutti: “Il profeta, in quanto volto alla realta' da liberare, e' proteso verso il futuro. Anche l’utopista guarda al futuro. Ma il profeta non e' l’utopista. Mentre l’utopista disegna una stupenda struttura di societa' ideale ma ne rinvia l’attuazione a tempi migliori, il profeta comincia subito. Qui ed ora”. E lo puo' fare perche' agisce sui mezzi. Nella filosofia politica occidentale la violenza e' da sempre legata alla politica nella misura in cui da questa e' esclusa la dimensione etica. Cio' ha fatto si' che si venisse a creare una dicotomia tra il mezzo che, sciolto da ogni vincolo etico, puo' essere comprensivo di qualunque strumento, anche il piu' violento e distruttivo - come ha dimostrato tragicamente la storia del ‘900, da Auschwitz a Hiroshima - e il fine della politica che e' il governo della comunita'. Per Capitini, che ha introdotto nella riflessione filosofica il rapporto mezzi/fini come fissato da Gandhi nella prassi, la nonviolenza si oppone a questa separatezza e ricolloca l’etica all’interno dell’agire politico, operando in tal modo una rivoluzione culturale rispetto all’intera tradizione occidentale - da Machiavelli a Weber a Lenin - che vuole la guerra come via alla pace, l’autoritarismo alla liberta', la violenza alla rivoluzione. In questo senso, l’opera filosofica di Aldo Capitini in Italia e', per certi versi, paragonabile a quella di Hannah Arendt in Germania, entrambi impegnati a ricostruire - fuori dai partiti - la legittimita' dell’azione politica nei paesi che hanno portato alle estreme conseguenze la sua separazione dall’etica, dando vita al fascismo e al nazismo.
Giuliano Pontara, ha condotto questa ricerca sul rapporto tra etica e politica, per un verso, fino ai luoghi costitutivi delle categorie profonde della cultura occidentale, nella tragedia greca e, per altro verso, fino ad un’analisi minuziosa e generativa del satyagraha gandhiano. Contribuendo in maniera significativa al riconoscimento della dignita' di filosofia pratica - valida anche per l’Occidente e per il XXI secolo - alla proposta di Gandhi. Anche, tra l’altro, attraverso un serrato confronto con il marxismo. Pontara individua gia' nella giovane Antigone, in conflitto con il re di Tebe, Creonte, suo zio, la figura che mette in crisi le leggi scritte della citta' a partire dalle leggi non scritte della coscienza, attraverso un’azione di disobbedienza per la quale paga con la vita. E’ con Antigone che la categoria della disobbedienza civile entra per la prima volta nella storia, ma solo alcuni millenni dopo assumera' dignita' politica. Anche attraverso l’esperienza gandhiana. Pontara rivolge, infatti, grande attenzione alla “teoria e pratica della nonviolenza” come sperimentata dal movimento gandhiano e, in particolare, al metodo di lotta “satyagraha” (la forza della verita'), individuandone i sei principi di base, necessari per fare dell’azione politica un’azione etica fondata sulla coscienza: Principio di astensione dalla violenza; Principio di adesione alla verita'; Principio di auto-sacrificio; Principio dell’agire costruttivo; Principio del compromesso; Principio di gradualita' dei mezzi.
Principi che mantengono la propria validita' filosofica e pratica anche di fronte a quelle “tendenze naziste” che Pontara vede dilagare nella realta' attuale, che definisce della “barbarie”: la visione del mondo come teatro di una spietata lotta, il diritto assoluto del piu' forte, lo svincolamento della politica da ogni limite morale, l’elitismo, il disprezzo per il debole, la glorificazione della violenza, il culto dell’obbedienza assoluta, il dogmatismo fanatico. A questa “Weltanschauung” Pontara contrappone quella nonviolenta, ritenendola l’unica realmente alternativa, appunto “l’antibarbarie”: il mondo come teatro delle forze costruttive, il primato della democrazia, la subordinazione della politica all’etica, l’umilta' dell’egualitarismo, l’empowerment dei deboli, la dissacrazione della violenza, la responsabilita' della disobbedienza, il fallibilismo.
Anche Jean-Marie Muller, in particolare ne Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, si occupa di nonviolenza in chiave filosofica a partire da un’analisi della violenza nella nostra cultura. “La cultura”, afferma Muller, “coltiva la violenza (coltivare viene dal latino 'colere' che significa nello stesso tempo 'coltivare' e 'onorare') inculcando negli individui l’idea che essa e' la virtu' dell’uomo forte, dell’uomo coraggioso, dell’uomo d’onore che assume il rischio di morire per difendere i valori che danno un senso alla sua vita”. Anzi, insiste, assistiamo, piuttosto che alla sua messa al bando, alla banalizzazione della violenza, che e' una modalita' ancora piu' pervasiva di diffusione. Dunque, per poter esercitare una critica nei confronti della violenza il primo passo da compiere e' quello di ”prendere una distanza dalla nostra cultura per disapprendere quello che abbiamo appreso, per rinnovare il nostro sguardo sull’uomo e sul mondo, per ri-pensare il nostro pensiero. Si tratta di mettere in dubbio le nostre credenze per riprendere coscienza, per ri-prendere conoscenza”. E dopo un’analisi distintiva tra la violenza e le parole con le quali viene spesso confusa (conflitto, aggressivita', lotta, forza e costrizione), necessaria perche' “questa confusione di linguaggio esprime confusione di pensiero”, Muller passa ad occuparsi della nonviolenza come esigenza filosofica, che cosi' definisce: “la nonviolenza non e' una filosofia possibile, non e' una possibilita' della filosofia, e' la struttura della filosofia. Disconoscere questa esigenza o, peggio ancora, rifiutarla, e' negare la possibilita' umana di spezzare la legge della necessita', e' negare all’uomo la liberta' di affrancarsi dalla fatalita' per diventare un essere ragionevole”. Muller svolge l’argomentazione di questa affermazione, all’interno del suo volume, attraverso un dialogo serrato con l’intera storia della filosofia, rappresentata, tra gli altri, da Levinas, Machiavelli, Hegel, Max Weber, Aristotele, Hannah Arendt, Popper, Clausewitz, Eric Weil e, infine, Gandhi. Volume cui, naturalmente, rimando.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione delle e sulle religioni?
- Pasquale Pugliese: Questo e' un terreno sul quale non mi addentro perche' non ho molto di significativo da dire, se non che per me ha un senso molto importante la constatazione che la maggior parte dei maestri di nonviolenza: a) abbiano avuto riferimenti religiosi; b) hanno avuto riferimenti religiosi differenti. Cio' mi fa pensare ad un trans-religiosita' della nonviolenza, che si associa a quella trans-culturalita' di cui abbiamo gia' detto. Rimando, inoltre, chi volesse approfondire questo aspetto al volume Convertirsi alla nonviolenza. Credenti e non credenti si interrogano su laicita', religione, nonviolenza, a cura di Matteo Soccio.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sull'educazione?
- Pasquale Pugliese: Da quanto detto rispetto al rapporto tra nonviolenza e filosofia, risulta anche evidente il nesso tra nonviolenza e prospettiva educativa. Naturalmente, molte sarebbero le cose da dire, ma provero' a concentrarmi, sinteticamente, su alcuni elementi che considero essenziali.
Le cosiddette “agenzie educative”, prime tra tutte la famiglia e la scuola, veicolano un doppio livello di apprendimenti, uno di tipo piu' culturale, rivolto ai saperi intellettuali, ed uno piu' relazionale, rivolto ai saperi sociali. L’approccio educativo nonviolento propone un contributo specifico su entrambi i piani, che ritiene non possano essere sconnessi e scollegati, ma anzi vanno saldamente tenuti insieme. Proviamo a vedere brevemente.
Nel preambolo della Costituzione dell’Unesco del 1945 e' contenuta la famosa dichiarazione: “Poiche' le guerre cominciano nelle menti degli uomini, e' nelle menti degli uomini che si devono costruire le difese alla pace”. Per trovare conferma o meno a questa affermazione, negli anni ’80, l’Agenzia delle Nazioni Unite per la Cultura ha commissionato ad un’equipe di studiosi internazionali una ricerca multidisciplinare sulle cause della violenza, passata - poco, in verita' - alla storia con il nome di “Dichiarazione di Siviglia”. Dopo una puntuale decostruzione dei molti pregiudizi e luoghi comuni sull’inevitabilita' biologica della violenza, gli autori concludono con una riaffermazione del ruolo della cultura nell’orientare gli individui e le societa' verso la violenza o la nonviolenza: “Cosi' come le guerre cominciano nella mente degli esseri umani, anche la pace comincia nella nostra mente. La stessa specie che ha inventato la guerra puo' inventare la pace. In questo compito ciascuno di noi ha la sua parte di responsabilita'”. Diversi studiosi anche in tempi piu' recenti hanno confermato la validita' scientifica della ricerca: cito per tutti il lavoro del biologo Piero Giorgi La violenza inevitabile. Una menzogna moderna, del 2008. Studiosi come Girard, Galtung e Muller, inoltre, si sono incaricati di spiegare i meccanismi di generazione e di “permanenza” della cosidetta “violenza culturale”, che giustifica e legittima le altre violenze, in particolare la guerra, facendole apparire come inevitabili. A questo punto e' evidente l’importanza, anzi la necessita’, di una educazione nonviolenta: essa ha la funzione di aggredire la violenza culturale attraverso una decostruzione delle categorie consolidate di interpretazione della realta', nell’ottica batesoniana dell’”apprendimento di terzo livello”: aiutare ad “apprendere a disapprendere”. Per poi sostituire, maieuticamente, la legittimazione culturale della guerra con la ricerca e la proposta delle alternative possibili. Anche attraverso la lettura e l’interpretazione critica dei contenuti didattici. Naturalmente, se questa e' la portata del compito, e' chiaro che, per dirla con Morin, ”c’e' un’inadeguatezza sempre piu' ampia, profonda e grave tra i nostri saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realta' e problemi sempre piu' polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari, dal’altra”. Lo sguardo competente e lucido della complessita', capace di ricondurre reciprocamente le dimensioni locali e quelle globali, e' pertanto una prima acquisizione di cui devono dotarsi insegnanti ed educatori per delegittimare la cultura riduzionista della violenza e promuovere la cultura e i saperi della nonviolenza.
Questo guadagno culturale, seppur necessario, non e' ancora sufficiente per un’educazione nonviolenta, perche' gli educatori e gli insegnanti svolgono un ruolo cruciale anche rispetto all’acquisizione dei saperi sociali. Infatti l’uso della violenza, a tutti i livelli, da quello interpersonale a quello internazionale, e' sempre il tentativo di risolvere un conflitto, ma il suo effetto e' esattamente quello contrario di alimentare dell’altra violenza, attraverso quei meccanismi descritti puntualmente dall’antropologa Pat Patfoort, di escalation e/o di catena e/o di interiorizzazione (sui quali si puo' vedere in particolare Difendersi senza aggredire. La potenza della nonviolenza). In tutti i casi, la violenza fa degenerare i conflitti da eventi fisiologici della relazione umana in eventi patologici e distruttivi. Percio', la capacità di trasformare i conflitti in occasione di relazione piu' profonda con l’altro/gli altri, ossia specificamente la pedagogia della nonviolenza, e' l’altra acquisizione di cui devono dotarsi educatori e insegnanti, per poter aiutare maieuticamente bambini e ragazzi a sperimentare direttamente relazioni ispirate alla nonviolenza nel quotidiano. Specialmente nei momenti di crisi dei conflitti.
Nella scuola italiana di oggi un terreno fondamentale, e al contempo un’occasione formidabile, per l’apprendimento di nuovi saperi relazionali e' quello legato alla gestione delle differenze conflittuali nella convivenza interculturale. Come ho raccontato in un recente articolo su "Azione nonviolenta" (7/2010), a cui rimando per gli approfondimenti, nel febbraio scorso e' passata sotto silenzio la presentazione alle Camera dei Deputati di una interessante ricerca promossa dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative regionali, e commissionata all’istituto di ricerca Swg, sul tema “Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti”. Dall’indagine emerge la realta' dell’enorme espansione di sentimenti e atteggiamenti razzisti tra i giovani italiani dai 18 ai 29 anni (fino a picchi di due su tre). Poiche' la giovane eta' degli intervistati indica un campione da poco uscito dal circuito scolastico, questi risultati sono da cogliere come un segnale del fallimento dell’approccio pedagogico e organizzativo delle scuole italiane rispetto al dato strutturale degli studenti provenienti da famiglie migranti. Pur tralasciando quelle scuole che hanno gestito il tema migrazione/intercultura in chiave emergenziale (spesso costituendo de facto delle classi ghetto) e concentrandoci su quelle scuole che rivolgono le giuste attenzioni nei confronti di chi arriva e deve essere accolto (costruendo protocolli di accoglienza, laboratori linguistici e quant’altro previsto dalle buone prassi), risulta tuttavia che esse non si sono preoccupate di mettere a fuoco un’idea di intercultura come educazione alla convivenza interculturale, ossia come un processo di apprendimento diffuso di nuove competenze relazionali, all’altezza dei saperi necessari nell’epoca della complessita'. Necessari per tutti, a cominciare dai ragazzi italiani. Si continua, al contrario, a parlare di “integrazione” degli alunni stranieri, intendendo di fatto favorire il loro processo di assimilazione all’interno di un contesto dato, senza mettere mai in discussione quel contesto e la parzialita' dei saperi di coloro che gia' lo abitavano. Si chiede a chi arriva di integrarsi, ma non si chiede (e non si insegna) a chi c’era gia' di imparare a con-vivere con le molteplici differenze. Anche quando complicano gli assetti relazionali.
Ecco, ancora una volta, la necessita' della pedagogia della nonviolenza.
Ma la scuola, sappiamo, versa in una crisi profonda alimentata da questo regime che il poeta Giancarlo Majorino chiama, non a torto, “dittatura dell’ignoranza”. Di fronte all’umiliazione della scuola e della cultura io credo che gli amici della nonviolenza non possano rimanere inerti, ma debbano impegnarsi - come sempre - su due versanti: quello di accompagnare le lotte e le campagne degli insegnanti e degli educatori a difesa del diritto di tutti alla conoscenza; quello di provare a costruire luoghi educativi e formativi per tutti, come hanno fatto la maggior parte dei maestri di nonviolenza, nei quali sperimentare - qui ed ora - pedagogia e metodi della nonviolenza. Questa e' l’ispirazione che, nel nostro piccolo, ci guida a Reggio Emilia nell’esperienza della Scuola di Pace; questa credo che sia anche l’ispirazione del Decennio Onu “per una cultura di pace e nonviolenza per i bambini del mondo”, che sta volgendo al termine e sul quale andrebbe fatto un bilancio.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sulla scienza e la tecnologia?
- Pasquale Pugliese: Suggerisco la lettura di un libro del filosofo Gunther Anders che per me e' stato di fondamentale importanza: Essere o non essere: diario di Hiroshima e Nagasaki.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione storica e alla pratica storiografica?
- Pasquale Pugliese: Rispetto alla riflessione storica credo che ci sia molta strada da fare perchee' ho l’impressione che - nonostante i grandi progressi svolti dalla pratica storiografica del ‘900, penso per esempio alla scuola delle Annales - il paradigma storiografico largamente dominante continui a considerare ancora i cambiamenti e i movimenti nella storia solo quando sono collegati ad eventi violenti o bellici. Anzi, il mito della “violenza levatrice della storia” e' i tra quelli che presidiano maggiormente la tenuta del modello culturale dominante, tanto a destra quanto a sinistra. Generalmente gli storici tendono a trascurare gli approfondimenti su quelle azioni trasformative, a volte anche rivoluzionarie, che non hanno visto in campo l’uso della violenza o, magari, lo hanno prevenuto. Per esempio, e' ancora da scrivere una storia sociale della resistenza non armata (e a volte decisamente nonviolenta) al fascismo e al nazismo, che pure e' stata la forma di opposizione che ha coinvolto le piu' larghe masse di cittadini europei, e di cui c’e' ancora testimonianza e memoria in tutti i borghi e in tutte le contrade. Gli unici esempi di ricerca storica in controtendenza che conosco, rispetto a questo argomento, sono quelli di Jacques Semelin in Francia, che ha scritto il volume Senz’armi di fronte a Hitler, e i lavori di Anna Bravo in Italia, in particolare sulla resistenza civile delle donne. Oltre naturalmente la ricerca sulla storiografia curata da Enrico Peyretti. Mi sembra, francamente, che quello storico sia un versante sul quale c’e' ancora molto da ricercare.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come caratterizzerebbe la formazione alla nonviolenza?
- Pasquale Pugliese: Poiche' la nonviolenza non e' una filosofia e non e' una tecnica, ma e' l’uno e l’altro contemporaneamente e insieme, ed e' anche una visione dell’esistenza ed uno stile di vita, un’azione politica ed una pratica educativa, la formazione alla nonviolenza deve necessariamente muoversi su diversi piani e livelli. Inoltre, poiche' la questione della nonviolenza suscita ancora molti fraintendimenti, l’approfondimento e la chiarificazione concettuale e metodologica su tutti i temi che abbiamo attraversato credo che debba di/mostrare - nel confronto con i diversi problemi - quale sia “l’aggiunta” specifica dell’approccio nonviolento. Non ci sono, infine, percorsi di avvicinamento alla nonviolenza validi sempre e per tutti, ma sono collegati ai diversi contesti e alla sensibilita' di chi fa e di chi riceve la proposta formativa. Tra le altre, un’esperienza ormai ventennale che mi piace segnalare sono i campi estivi di formazione del Mir e del Movimento Nonviolento.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come caratterizzerebbe l'addestramento all'azione nonviolenta?
- Pasquale Pugliese: Non entro nello specifico della preparazione dell’azione diretta, nel quale ci sono formatori piu' esperti di me, se non per dire che l’azione nonviolenta e' costitutivamente azione educativa nei confronti di se stessi e degli altri, perche' il suo fine e' con-vincere, ossia vincere insieme... Constato, tuttavia, che ormai ci sono molti “manuali” (il primo in Italia e' stato scritto proprio da Capitini, con il titolo Le tecniche della nonviolenza) e molti corsi di formazione, ma poche sperimentazioni concrete.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali mezzi d'informazione e quali esperienze editoriali le sembra che piu' adeguatamente contribuiscano a far conoscere o a promuovere la nonviolenza?
- Pasquale Pugliese: Ho già citato “Azione nonviolenta” ed il sito del Movimento Nonviolento. Ci sono poi altre riviste cartacee di area nonviolenta e ricercando sui motori di ricerca di internet si trovano molte esperienze d’informazione on line. Un grande lavoro di qualita' e di approfondimento, svolto con la costanza della quotidianita', e' quello del notiziario on-line “La nonviolenza e' in cammino”, e dalle ulteriori emanazioni di esso. Si tratta, tuttavia, nel complesso di esperienze piuttosto frammentarie che non riescono a fare massa critica per uscire dai circuiti piu' o meno di nicchia degli addetti ai lavori. E questo e' un tema sul quale dovremmo aprire una riflessione collettiva.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali esperienze in ambito scolastico ed universitario le sembra che piu' adeguatamente contribuiscano a far conoscere o a promuovere la nonviolenza?
- Pasquale Pugliese: Come quella citata di Reggio Emilia, esistono ormai in Italia diverse altre esperienze di “Scuole di pace” e di educazione alla pace che operano in collaborazione con le scuola di ogni ordine e grado. Si contano invece, si' e no, sulle dita di due mani le esperienze universitarie italiane. Nel resto del mondo invece i cosiddetti peaces studies sono insegnati nelle universita' piu' prestigiose e si contano oltre 600 corsi di laurea.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: I movimenti nonviolenti dovrebbero dotarsi di migliori forme di coordinamento? E se si', come?
- Pasquale Pugliese: Rispetto alle forme di coordinamento in passato sono state fatte diverse iniziative su temi specifici, con maggiore o minore efficacia, ma mai strutturali e definitive. Ma nel prossimo futuro c’e' una data che, a mio avviso, puo' diventare il punto di contatto di tante storie e movimenti per la pace e la nonviolenza. E’ il 24 settembre del 2011, cinquantesimo anniversario della prima “Marcia per la pace e la riconciliazione dei popoli” da Perugia ad Assisi, fortemente voluta e organizzata da Aldo Capitini e dai pochi amici che poi diedero vita al Movimento Nonviolento. Da quella marcia, in questo mezzo secolo, molte storie e molti percorsi si sono dipartiti e molte altre volte la campagna umbra e' stata attraversata dalle bandiere della pace. Credo che, nel nome di Capitini, sia la preparazione di quella giornata un’occasione giusta per costruire, tutti insieme, un momento d’incontro capace di prospettare una nuova strada comune.
Anche di questo penso che parleremo nel prossimo congresso nazionale del Movimento Nonviolento (il XXIII), che si svolgera' a Brescia dal 29 ottobre al primo novembre 2010.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e movimenti sociali: quali rapporti?
- Pasquale Pugliese: Quando i movimenti di ispirazione nonviolenta sono entrati in maniera convinta dei movimenti sociali ritengo che abbiano dato un contributo significativo. Mi attengo ad un esempio che conosco direttamente, il cosiddetto “movimento dei movimenti”, o altermondialista, che ha accompagnato il passaggio di secolo con una mobilitazione planetaria di critica all’economia neoliberista ed alle sue guerre. Critica che aveva centrato, con almeno quindici anni di anticipo, le questioni centrali che oggi vengono al pettine con la crisi economica globale, da un lato, e con gli indicibili orrori in Iraq ed Afghanistan, dall’altro. In Italia, il canale di partecipazione dei movimenti nonviolenti al piu' diffuso movimento sociale e' stata l’esperienza della Rete Lilliput, la quale, seppur in un primo momento era vista come l’ala “religiosa “ del movimento, sempre piu' ha caratterizzato le sue azioni in maniera precisa fino ad essere indicata nelle ricerche sociologiche come la “componente etico-nonviolenta del movimento globale” (si puo' vedere, per esempio, l’interessante lavoro della giovane ricercatrice Laura Lombardo, Fra identita' e organizzazione. La rete Lilliput). La presenza di questa importante componente nonviolenta organizzata ha influito, direttamente e indirettamente, sull’atteggiamento complessivo del movimento il quale - anche di fronte ad una repressione feroce come quella avvenuta a Genova nel 2001, che in altre epoche avrebbe avviato una generazione alla scelta violenta - ha sostanzialmente tenuto, nel suo complesso, sulla nonviolenza al punto da far scrivere ad un autore come Erri De Luca, che di conflitti sociali se ne intende, “Tu con le tue passate notizie di piazze arrostite affumicate sei presso di lei scaduto: questa generazione ammette di subire violenza ma non vuole sporcarsene reagendo. Vuole che l’aggressione sia da una parte sola, snuda il loro diritto e lo mostra allo stato di natura, per quello che e': sopraffazione” (da Il contrario di uno).
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: Potrebbe presentare la sua stessa persona (dati biografici, esperienze significative, opere e scritti...) a un lettore che non la conoscesse affatto?
- Pasquale Pugliese: Sono nato nel 1968 a Tropea, sul Tirreno calabrese, ho studiato filosofia e svolto il servizio civile al di la' dello stretto, Messina. Migrante in direzione Nord, come molti calabresi della diaspora, sono infine approdato a Reggio Emilia. Dove ho fatto per diversi anni l’educatore in un progetto del Comune chiamato Gruppi Educativi Territoriali. Ne sono poi diventato coordinatore, supervisore ed oggi mi occupo di progettazione educativa. Contemporaneamente, fin dai tempi dell’universita', ho mantenuto un costante dialogo con il Movimento Nonviolento grazie al quale sono maturate molte di quelle convinzioni che ho appena espresso. Da un po’ di tempo, accompagno la vita del movimento cercando di dare un contributo al suo coordinamento nazionale ed alla rivista “Azione nonviolenta”, sulla quale seguo, per lo piu', le tematiche educative. A Reggio Emilia, dopo aver partecipato negli anni, a molte “reti”, “coordinamenti” e “campagne”, negli ultimi tempi mi dedico alla Scuola di Pace, sia sul piano dell’organizzazione che della formazione (www.comune.re.it/scuoladipace). Da poco tempo sto provando anche a muovere i primi passi sul web, dove ho un “profilo” su facebook, nel quale sono attivi diversi contatti con amici della nonviolenza di tutt’Italia, e dove cerco di seguire un rudimentale blog nel quale, man mano, inserisco articoli e interventi e dove finira' anche questa intervista. (www.pasqualepugliese.blogspot.com). Tuttavia, tra tutte le attivita', quella principale, che richiede le mie migliori energie e mi da' le maggiori soddisfazioni, e' quella di papa' di due splendide bambine: Annachiara e Martina.
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- Paolo Arena e Marco Graziotti: C'e' qualcosa che vorrebbe aggiungere?
- Pasquale Pugliese: Ringraziare per questa intervista, nella quale ho cercato di soffermarmi sulle domande alle quali ritenevo di poter dare un particolare contributo di senso. Mi scuso percio' per la lunghezza di alcune risposte.
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