In preparazione del decennale del G8 di Genova, ripropongo su questo blog le note scritte a caldo, dieci anni fa, appena qualche giorno dopo le tragiche giornate genovesi. Hanno un per me un valore storico/documentario, perchè hanno rapprentato l'avvio di una ricerca personale e collettiva, ma ancora incompleta, su nuovi modi di stare nei conflitti sociali.
Forse, anche in questi giorni - fatte tutte le ovvie e necessarie distinzioni - possono ancora significare qualcosa.
24 luglio 2001
Dopo la trappola di Genova: che fare?
Nonostante il dolore, l'amarezza e la rabbia per quanto avvenuto a
Genova nei giorni passati, cerchiamo di non perdere la lucidità e abbozzare
una prima analisi per provare a capire il perchè di quanto accaduto, a
leggere i nostri errori e a trovare la strada da percorrere adesso.
La trappola
Il Potere da sempre, quando è o si percepisce minacciato, reagisce con
la massima violenza di cui è capace: se necessario spara. Lo fa nella
maggior parte del mondo, lo ha già fatto anche in Italia e lo farà ancora
e, se questo non dovesse bastare, scatanerà la repressione feroce e
indiscriminata.
Il potere politico e militare nel nostro paese è in mano ad un governo
liberista-mafioso-fascista e, per chi ne aveva qualche dubbio, il
comportamento della polizia prima e del suo braccio mass-mediatico poi lo
comprova definitivamente.
Questo potere non aspettava altro che l'occasione per poter sfoderare
tutta la violenza di cui è capace nei confronti di un movimento solido,
vero, dal basso e dalla parte della verità e della giustizia, perciò
fortemente minaccioso. Non aspettava altro che qualcuno gliene fornisse
l'occasione o, almeno, gli fornisse l'opportunità di crearsi l'occasione.
Se l'occasione immediata è stata data dai criminali neri, sia che
fossero sia che non fossero in combutta con la polizia, l'opportunità più
profonda è stata data dal clima di tensione che si è venuto a creare ed è
montato intorno al vertice dei G8: le botte di Napoli, il ragazzo ferito a
Goteborg, l'attenzione mediatica ossessiva su tutto quanto si preparava per
Genova, la mobilitazione dell'esercito, l'annuncio dell'arrivo a Genova da
parte di coloro - antimperialisti, insurrezionalisti e quant'altro - che
non si riconoscevano nelle raccomandazioni del Genoa Social Forum, la
farneticante "dichiarazione di guerra" del portavoce delle tute bianche
(salvo dichiararsi pacifista all'ultimo minuto, ma qualcuno forse a
ventanni l'ha presa sul serio: attenzione, le parole sono pietre e si porta
la responsabilità delle loro conseguenze!), il susseguirsi di esplosioni
nella settimana del Vertice.
E poi l'illusione, da parte del GSF, di poter tenere insieme -
all'insegna del tutti a Genova - ma separate e distinte, in così poco
spazio, tutte le forme di testimonianza e azione, dalla preghiera
all'assalto alla zona rossa, dalle azioni dirette nonviolente ai vandalismi
annunciati: una forma di mobilitazione e contaminazione che ha favorito
l'emergere e l'imporsi, da tutte e due le parti della barricata, di coloro
che sguazzano nel torbido e danno sfogo - in queste occasioni dove si
possono confondere nella massa - alla violenza più brutale di cui sono
capaci. E nessuna azione sembra essere stata prevista per neutralizzali.
E' stata una battaglia campale e, come tutte le battaglie giocate sul
piano militare, ha avuto la meglio chi ha colpito più ferocemente, più
subdolamente, alle spalle e di nascosto.
E i nostri temi e le nostre proposte azzerate dalla violenza.
E' stata una trappola e noi ci siamo cascati. Se ne dovrà parlare
ancora, ma adesso bisogna venirne fuori.
La Rete di Liliput
Con i fatti di Genova il movimento emerso a Seattle entra nella fase
acuta del conflitto. In Italia, rispetto ad altre fasi storiche di lotta di
piazza, questa volta c'è la novità delle Rete di Lilliput: centinaia e
centinaia di associazioni - che quotidianamente lavorano sui temi sociali
ed ecologici - le quali, riunite nei nodi locali, hanno fatto la scelta
della nonviolenza.
La Rete di Lilliput all'interno del movimento di lotta ha, e deve
mantenere e rinforazare, un proprio ruolo fondamentale, delicato e
insostituibile: quello di percorrere la strada stretta che passa tra
l'assenza di conflitto da un lato e il conflitto violento dall'altro (che
conduce alla repressione e ad una nuova stabilizzazione) ossia di lavorare
alla trasformazione del conflitto in senso nonviolento, .
La Rete di Lilliput deve investire le proprie energie per impedire che
un conflitto che coinvolge l'umanità e la natura intera venga condotto nel
cul de sac dello scontro con la polizia (nel quale il potere vuole condurlo
ed ha dimostrato di saperlo fare benissimo); per trovare la via d'uscita
dalla polarizzazione tra due soggetti antagonisti (contestatori vs forze
dell'ordine) che consente al resto del mondo di rimanere spettatore; per
non concedere a nessuno la possibilità di restringere il conflitto ad
affare tra noi ed il potere, ma lavorare per estenderlo, generalizzarlo,
portarlo tra tutti ,coinvolgendo la gente affinchè cominci, grazie alle
nostre azioni, a sentirsi interiormente in conflitto con se stessa ed il
proprio stile di vita e di consumo.
Si tratta di trasformare, lentamente ma profondamente, il consenso che
sostiene il sistema in dissenso ed il dissenso in azione.
Che fare?
Se questo è il servizio prezioso che la Rete di Lilliput può svolgere è
necessario, a mio avviso - soprattutto e urgentemente dopo Genova -
compiere alcune scelte strategiche necessarie alla trasformazione
nonviolenta del conflitto.
Gli obbiettivi di mantenere la possibilità di agire nelle piazze, di
ridurre al massimo la possibilità di degenerazioni violente, di mettere il
potere nell'impossibilità - o nella difficoltà estrema - di utilizzare il
suo apparato repressivo e di comunicare a più persone contemporaneamente le
nostre ragioni, possono essere tenuti insieme oggi, a mio avviso, solo
declinando la modalità lillipuziana reticolare, adottata come forma
organizzativa della Rete, anche come strumento di mobilitazione.
A tal fine bisogna, per un verso, lasciare modalità di azione ormai
usuali ma sempre più inefficaci o addirittura controproducenti:
1) abbandonare la rincorsa dei vertici del potere: uscire dalla
subalternità degli spazi e dei tempi di manifestazione imposti dalle loro
agende, che ci portano a scendere in piazza dove e quando vogliono i potenti;
2) uscire dalla logica della uguaglianza nella diversità, e della
contemporaneità, delle forme di lotta, adottata dal GSF: le forme che non
sono coerentemente nonviolente nei mezzi, nei fini, nella comunicazione,
nell'immaggine, fanno il gioco del potere. Non bisogna manifestare dove
manifestano compagni di strada che non condividono le nostre forme.
3) uscire dalla logica delle manifestazioni di massa che, in questa
fase, sono il ricettacolo di coloro che intendono sfidare il potere sul
piano, reale o simbolico, della forza e sempre più si trasformano in campi
di battaglia, a tutto vantaggio di chi vuole criminalizzare il movimento.
Per altro verso, bisogna strutturare una modalità di azione nuova,
nonviolenta, lillipuziana, reticolare:
1) creare presso ogni nodo, o insieme di nodi limitrofi, un gruppo di
azione nonviolenta GAN (dove sono stati costituiti gruppi di affinità tanto
meglio, che non si sciolgano);
2) avviare un programma di formazione per ciascun GAN serio e e
approfondito, teorico e pratico, sul metodo nonviolento e sulle sue
tecniche;
3) quando sarà completata la formazione, strutturare un' agenda di
azioni nonviolente locali concordate e contemporanee su tutto il territorio
nazionale, in base alle nostre priorità, di tempi e di temi (per esempio
per raggiungere un obbiettivo più avanzato in una campagna di boicottaggio,
o per fare un'azione di comunicazione efficace su un tema particolarmente
importante, per fare una contestazione capillare e diffusa ecc.).
Questa strategia lillipuziana e nonviolenta può consentire - se
attuata con persuasione, preparazione e organizzazione - di portare
efficacemente le nostre tematiche sui nostri territori, di comunicare a
viso aperto con i nostri concittadini che spesso ci conoscono - conoscono
il nostro impegno e lavoro quotidiano - e sanno che non siamo vandali
calati da chissà dove, di impedire - visti i numeri ridotti e non
trattandosi di manifestazioni ma di azioni dirette condotte da chi le
organizza - le infiltrazioni di provocatori (e comunque ci si prepara,
eventalmente, per isolarli, escluderli, consegnarli alla polizia o
sospendere l'azione), di rendere inutilizzabile l'apparato repressivo del
potere sia nella forma violenta che in quella disinformativa, perchè senza
alcun alibi e perchè tutto si svolge sotto gli occhi della nostra gente e
della stampa dei nostri paesi e città.
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