domenica 27 novembre 2011

Agire e studiare, con sacrificio e costanza

Le prime azioni dirette nonviolente in Italia.
 
Intervista a Pietro Pinna, cofondatore con Aldo Capitini del Movimento Monviolento,
fatta qualche anno fa e ancora oggi di grande attualità.
Pubblicata su "Azione nonviolenta", luglio 2004
 
Buon giorno Pietro, ci racconti come nacque l’idea di costituire un Gan?
L’idea, direi l’esigenza del GAN, nacque dall’insoddisfacente attività cui il Movimento Nonviolento veniva dedicandosi all’interno della Consulta Italiana per la Pace, la federazione delle diverse associazioni pacifiste che Capitini aveva istituita dopo l’effettuazione della Marcia della Pace Perugia-Assisi del ’61 per dare continuità alla loro occasionale collaborazione in quella iniziativa. Per due anni consecutivi noi del Movimento ci eravamo trovati esclusivamente occupati nel lavoro per la Consulta – di cui Capitini era presidente – a tutto scapito dello sviluppo del Movimento in sé ancora del tutto in erba, essendo stato costituito in concomitanza della nascita della Consulta.
Come funzionava la consulta?
La sua attività consisteva nella riproposizione di marce della pace a dimensione regionale, convegni di studio, produzione di documenti e di un periodico mensile. Le marce si riducevano a poco più che a semplici occasioni transitorie per i partecipanti di dare voce collettiva ai loro sentimenti e auspici per la pace; i documenti non concludevano che nella esortazione ai governanti affinché vi provvedessero di dovere. Tutta un’attività che finiva per risultare di una irrilevante ed effimera portata nella sua genericità pacifista, di nessuna incidenza sul piano politico istituzionale; e capite, tanto più insignificante per noi poiché avulsa dalla specifica istanza antimilitarista, di pacifismo assoluto del Movimento Nonviolento, che nel suo statuto diceva essere costituito da pacifisti integrali che rifiutano in ogni caso la guerra, il terrorismo e la tortura. La vita della Consulta, d’altro canto, era soggetta al soverchiante condizionamento ideologico e organizzativo del Comitato Italiano della Pace – ex Partigiani della Pace di dominanza del Partito Comunista -, a fronte delle altre ben più deboli componenti federate. Insomma, risultò alfine indispensabile per il Movimento Nonviolento di dare avvio in proprio ad una sua specifica attività, se voleva acquisire un’esperienza ed una forza in grado di sufficientemente pesare nella più incisiva qualificazione delle iniziative della Consulta. Nacque il Movimento e nacque la rivista “Azione nonviolenta”…
Ciò avvenne verso la fine del ’63. Al termine di un Seminario di 10 giorni che tenemmo sulle Tecniche della Nonviolenza, rimanemmo ancora riuniti alcune ore tra una dozzina di amici per discutere del possibile avvio di un’attività organizzata del Movimento. Due elementari esigenze ponemmo alla base dell’eventuale programma: il chiarimento e la diffusione dell’idea nonviolenta –allora misconosciuta per non dire avversata - , e un corrispondente impegno ad una sua pur minima esplicazione pratica. Le due cose dovevano procedere congiuntamente: non la sola teoria, che se non tradotta in atto risulta essere mera astrazione; non azione soltanto, poiché se cieca di idee chiare e definite, finisce per risultare inconcludente. Rispetto al primo punto, decidemmo in questo modo. Fino a quella data l’unico mezzo di collegamento del Movimento era costituito da un ciclostilato di 4 pagine spedito mensilmente ad un centinaio di supposti simpatizzanti – il Movimento non disponeva ancora di aderenti iscritti. Venne deciso di passare da quel ciclostilato ad un giornaletto a stampa; dopo aver avuto assicurata dagli stessi presenti alla riunione la disponibilità finanziaria per l’uscita di almeno tre numeri mensili, Capitini ed io ci assumemmo l’incarico di curarne la pubblicazione, che uscì col titolo “Azione nonviolenta”.
Quindi il nome della rivista in qualche modo deriva dal fatto che avevate deciso di occuparvi prioritariamente dell’azione…
Non prioritariamente, ma come ho già detto, di pari passo con l’elaborazione e la diffusione delle idee: “Azione nonviolenta” per il dibattito delle idee e l’informazione sulle iniziative, ma subito affiancata dall’azione, dalla loro messa in atto. Una volta Capitini ebbe a scrivere, in relazione all’apparire in Italia del primo episodio di obiezione di coscienza politica: “Ci voleva il sorgere del caso concreto di rifiuto per dare a quell’atto tanta risonanza da far conoscere in Italia meglio di tanti discorsi e libri che cos’è l’obiezione di coscienza”. Quanto alla nascita del GAN, in quella medesima riunione non facemmo altro che chiedere di alzare la mano a chi intendesse partecipare ad un gruppo di azione – senza peraltro saper nulla ancora di che cosa comportasse quell’idea. Quattro giovani comunque vi assentirono, io ne assunsi la coordinazione, e all’istante concordammo di fare una prima riunione alla fine della settimana successiva, dove battezzammo il gruppo col nome appunto di Gruppo di Azione Diretta Nonviolenta, da cui la sigla GAN.
A quale tema pensaste di applicarvi?
Fu quello dell’obiezione di coscienza. Ci venne in via naturale di pensarlo, perché ci apparteneva personalmente. Io ero stato obiettore, altri nel gruppo si apprestavano a divenirlo. Il punto di forza della nostra dedizione all’azione, era che non si trattava di un ideale astratto o di una realtà lontana da noi, ma che riguardava la nostra stessa vita. Quel tema ci offriva inoltre la possibilità di dibattere la questione, strettamente pertinente all’impegno del Movimento, dell’opposizione alla preparazione della guerra, la cui minaccia in quegli anni era particolarmente avvertita dall’intera opinione pubblica sotto l’incubo di un possibile conflitto atomico.
Quale era il vostro obiettivo immediato?
Il nostro proposito era quello di sensibilizzare la comune opinione pubblica al problema appunto dell’obiezione di coscienza, con un contatto diretto attraverso manifestazioni di piazza. Il dibattito sul tema si era acceso nell’ambiente politico e intellettuale fin dal sorgere del primo caso di obiezione politica, nel 1949, ma poi era venuto stagnando. Singoli parlamentari avevano, sì, presentato dei progetti di legge in proposito, mai però discussi in Parlamento. Gli obiettori continuavano così a venir processati, con condanne al carcere tra l’altro assurdamente reiterate al medesimo obiettore. Noi intendevamo contribuire ad animare un movimento di pressione dal basso che inducesse alfine il nostro paese, perlomeno, al conseguimento democratico del riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza come da tempo vigeva in altri Stati.
Come vi formaste all’azione? Preparaste il lavoro?
Noi cinque eravamo all’inizio semplici conoscenti occasionali. Tenemmo perciò delle riunioni preparatorie per meglio conoscerci e affiatarci tra noi, per convenire su alcuni basilari principi e modalità d’azione della nonviolenza, oltreché impadronirci al meglio della storia e delle ragioni dell’obiezione di coscienza. Con l’ausilio di un amico avvocato esaminammo altresì le disposizioni di legge che regolavano le manifestazioni di piazza. Infine, dopo esserci bene accordati sulla disciplina nonviolenta da tenere al riguardo, elaborammo e predisponemmo con cura il materiale occorrente. Merita che vi sottolinei un dato, circa queste preliminari riunioni. Ci ritrovavamo puntualmente, ogni successivo fine settimana, provenendo ciascuno da diverse città. Già questo fatto, che comportava sacrificio di denaro e di tempo sottratti alla vacanza settimanale, veniva a testimoniare e a corroborare in partenza la serietà dell’impegno. Sacrificio e costanza, due elementi essenziali della nonviolenza. E vorrei anche sollecitarvi qui ad un altro impegno da prendere sul serio. Capita spesso di constatare come l’amico che pur ci dice del suo entusiasmo per la lettura di un buon libro di comune conoscenza, lo abbia però letto una volta sola. Ma cosa gli è rimasto, dello spirito e del contenuto di quel libro, alla sua prima lettura? È stato detto che un libro che non si legge una seconda volta, non valeva la pena di leggerlo la prima volta. Ricordo che Capitini, al quale veniva rimproverato da taluni suoi lettori di risultare un po’ troppo difficile in certi passaggi dei suoi scritti, rispose che talora lo faceva di proposito affinché il lettore si soffermasse sulla pagina con più attenzione e riflessione. E ricordo pure che noi del GAN inserivamo talvolta nei nostri cartelli e volantini una espressione inusuale e curiosa che veniva ad attrarre e a concentrare l’occhio del lettore sull’intero testo. Ho detto tutto ciò affinché anche voi, avendo per mano i libri sulla nonviolenza, non vi fermiate a scorrerli una volta sola, ma torniate a rileggerli due, tre, cinque volte, ogni volta capendo meglio e traendone sempre più ispirazione. Noi del GAN, ad esempio, venivamo alle riunioni preparatorie dopo esserci letto e riletto, per dirne uno, l’opuscoletto di Capitini “Teoria della nonviolenza”.
Vedi che un po’ lo stiamo già facendo, col libro che abbiamo in mano. E’ difficile far passare il messaggio che le cose vanno preparate con cura.
Sì, per il fatto che in tutti noi c’è una immediata tendenza, com’è nelle cose della natura, ad affrontarle col minimo sforzo. Siamo in tal modo sguarniti, all’inizio, del di più necessario a superarne le possibili asperità. Questo di più è la necessaria preparazione, se vogliamo poi venire adeguatamente a capo delle cose. A fare un buon soldato – diceva Gandhi nelle sue istruzioni alla preparazione nonviolenta – occorre un congruo addestramento; così doveva essere per un buon nonviolento, preparato con cura sul piano dottrinale, psicologico e fisico.
Come avete acquisito le modalità delle vostre azioni? Le avete apprese da qualcuno o le avete acquisite col tempo?
Sono venute da sé, spontaneamente e gradualmente. Non conoscevamo allora nessun testo che istruisse sull’azione diretta. Tuttavia, pur privi della conoscenza di tecniche specifiche, il nostro stile di manifestazione venne a maturare direi naturalmente, in concordanza dell’animo col principio nonviolento che ci ispirava e ci accomunava.
Quindi l’azione nonviolenta non è solo un insieme di tecniche ma richiede un legame tra interiorità ed esteriorità…
È l’animo, il tuo intimo di persuaso della nonviolenza che essenzialmente e preliminarmente conta – la persuasione intima della madre nei suoi rapporti con il figlio, che le detta spontaneamente il comportamento tecnico adeguato. Le tecniche senza la persuasione intima risultano di scarso valore, imperfette nell’esecuzione e di effimera portata nel successivo rapporto complessivo. Una volta ebbi una fugace occasione di accennarne con Gene Sharp, considerato il massimo studioso dell’azione diretta. Suppongo che conosciate la sua prestigiosa opera intitolata “La politica dell’azione nonviolenta”. Ebbene, non so se abbiate rilevato che egli vi viene ad intendere per nonviolenza la semplice aviolenza, ossia l’esclusiva applicazione pragmatica – non di principio – di tecniche aliene dalla violenza. Al fine di metterne in luce l’indubbio valore, Sharp non ne considera però anche i limiti, escludendo dal prendere in considerazione l’importanza sia del principio etico sia del complessivo metodo d’azione della nonviolenza. Certamente, come egli ci scopre e illustra assai bene, sono avvenute numerose azioni storiche che hanno raggiunto il loro momentaneo obiettivo senza un dichiarato impegno alla nonviolenza. Si potrebbe però osservare, all’inverso, che altrettante e più azioni semplicemente aviolente sono degenerate e finite per abortire. Ma – vedete – decisivamente importante è considerare non tanto la riuscita della singola momentanea azione in sé, quanto il più vasto orizzonte a cui si tende. Se l’azione che attualmente intraprendo è intesa non soltanto alla soluzione del contingente momento conflittuale, ma è rivolta a stabilire un più elevato livello morale e di giustizia tra le parti in causa, la semplice aviolenza finisce per mostrare il suo fiato corto al raggiungimento di questo traguardo. Ciò ad esempio ci viene patentemente dimostrato dal pur lodevole metodo di azione della democrazia, che aviolenta all’origine ma non nutrita dalla complessiva nonviolenza, giunge a ribaltarsi nel suo esatto contrario, con l’uso della violenza fino all’estremo della guerra. Le disastrose conseguenze qui accennate stanno sotto gli occhi di tutti. Insomma – e chiudo il monologo – se sei veramente impegnato alla nonviolenza, non puoi farne a meno se vuoi farla vivere nel corpo morale del tuo agire, come nel tuo corpo fisico non puoi fare a meno che agiscano a dovere cuore e polmoni. È il sangue giornaliero del tuo essere, un suo fluire costante, non un frammentario intermittente episodio. Capitini, pur alieno com’era dal lasciarsi andare ad affermazioni categoriche, venne a scrivere una volta: “La nonviolenza non è un flirt, questo dev’essere ben chiaro”.
E invece, spesso questo non è ben chiaro, nemmeno nei movimenti che si dichiarano per la nonviolenza…
Sono movimenti che assumono soltanto la prima, seppur fondamentale, condizione della nonviolenza di principio, cioè a dire la sola astensione dalla violenza – quella posizione che abbiamo già definito col termine ad essa più propriamente consono di aviolenza. Manca in quei movimenti l’assunzione delle altre congiunte condizioni che rendono la nonviolenza veramente e compiutamente efficace. Poiché la distinzione tra le due posizioni è di cruciale importanza, sarà bene richiamare – pur soltanto limitandoci a nominarle – queste ulteriori condizioni altrettanto essenziali: il rispetto della verità; la disponibilità costante al compromesso onorevole; la disponibilità ad assumere un proprio maggior sacrificio rispetto a quello possibilmente derivante all’anniversario dalla situazione conflittuale; la gradualità nell’impiego progressivo dei mezzi di azione, da quelli più blandi legittimi e democratici a quelli più radicali fino alla disobbedienza civile; infine – ma contemporaneo alle altre condizioni – il programma costruttivo, volto ad avviare da subito i primi possibili tratti della nuova società liberata da instaurare, che Capitini definiva la realtà dell’unità amorevole tra tutti. Quei movimenti dovrebbero finalmente arrivare a capire quanto la loro semplice aviolenza, applicata ad esempio al rifiuto della guerra, finisca per approdare – sia pur nobile ed impegnata quant’essa sia – ad una condizione del tutto sterile, di penosa assoluta scontata inconcludenza. Arrivare a capire che non questa o quella guerra va avversata, soltanto al momento ultimo del suo esplodere, ma che è l’idea della guerra in sé che va rifiutata, alla sua origine, nella mentalità e nelle corrispettive istituzioni che la mantengono in essere quale necessario mezzo estremo della vita conflittuale politica. Termino dunque questa mia perorazione dicendo che quei movimenti, se veri nonviolenti nel loro impegno pacifista, non dovrebbero tornare tranquillamente ad eclissarsi una volta terminata l’ennesima guerra, per poi soltanto rimettersi in marcia agli squilli della nuova guerra – come ci è stato di vedere e di soffrire nella serie bellica di quest’ultima dozzina d’anni; ma invece, scontato l’ennesimo scacco della loro vana tardiva protesta, rimanere in campo e subito, dal giorno dopo, trovarsi impegnati per l’abolizione qui ed ora della macchina portante della guerra, l’esercito – al cui mantenimento, ahinoi!, continuano a consentire ed a collaborare anche i partecipanti di quegli stessi movimenti.
Veniamo a noi. Se tu potessi ricominciare a fare azioni dirette nonviolente, oggi su quale campo pensi sia prioritario impegnarsi?
L’ho appena detto, quello ovvio, che per me e per l’intera umanità considero il più essenziale e urgente: il campo dell’opposizione assoluta alla guerra, ossia l’azione per il disarmo unilaterale, integrale e immediato dell’esercito. Vale a spenderci tutta una vita. Se poi volete che ne indichi un altro, altrettanto angustiante nella sua cieca tragicità quanto una vera guerra, è quello della strage quotidiana di vite umane degli incidenti automobilistici. A volte, per la morte casuale di un nostro concittadino, vediamo montare nel paese un rigurgito di emotività e di compartecipazione. Ma che invece la morte di quelle decine di persone, puntualmente, ogni giorno, sia considerata senza fiatare un dato di vita normale e quindi trascurabile, al più annotata a fine anno come mero dato statistico nel registro del dio supremo dello sviluppo – di merci e non piuttosto di valori umani – non dovrebbe sgomentare e avvilire chiunque?
Tornando al Gan, come vi muoveste concretamente?
In quegli anni, la mentalità ufficiale continuava ad essere di totale avversione all’obiezione di coscienza. Contro i nostri tentativi di parlarne in piazza, quella mentalità trovava un sostegno repressivo nei regolamenti polizieschi di pubblica sicurezza, “intruglio di fascismo e di reminiscenze borboniche”, come li definì l’allora vice-primo ministro Nenni nel nuovo governo di centro-sinistra.
Parliamo dunque del rapporto con le forze dell’ordine. Erano quelli gli anni di fatti gravi come i morti di Reggio Emilia…
Sì, infatti. Nel clima d’odio che avvelenava la vita politica di quegli anni, le manifestazioni di piazza finivano quasi sempre per degenerare in scontri cruenti con le forze di polizia. Bastava un minimo incidente, proveniente o dall’animosità e dalle intemperanze dei dimostranti o talora dalle stesse forze dell’ordine, perché la piazza si trasformasse in un campo di battaglia, con un infuriare di manganellate, caroselli, lacrimogeni e perfino, come voi accennate, fucilate omicide. Per noi del GAN, ovviamente, non si dette mai la circostanza di arrivare a quegli estremi selvaggi, dato che – a parte il freno del nostro atteggiamento nonviolento – in quattro gatti com’eravamo non facevamo massa da disperdere senza sugo con la violenza. Tuttavia, anche se non drammatici, i nostri rapporti con la polizia si presentarono fin dall’inizio di notevole difficoltà, sul piano direi mentale e nervoso. Da inesperti in materia quali eravamo, nel confronto con le questure zelantemente prone a vietarci meccanicamente le manifestazioni, il nostro iniziale puntello dirimente su cui poggiare fu il richiamo al rispetto preminente della Costituzione. Ne portavamo sempre appresso il testo e ne recitavamo a memoria gli appositi articoli: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola e ogni altro mezzo di diffusione. Per le riunioni in luogo pubblico, le autorità possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.” Poca cosa invero, a trattenere le questure dal loro zelo non propriamente democratico, al servizio piuttosto del potere autoritario che a quello dei cittadini. Sta di fatto che sin dalla prima manifestazione – come dicevo – avemmo a dover confrontarci con i loro puntuali divieti. Non potevamo ovviamente contentarcene, chiudere lì la partita e restarcene a casa: che GAN altrimenti saremmo mai stati? Così, dopo aver rispettosamente replicato alla questura di non averci messi in grado di tener debito conto del suo divieto poiché non adeguatamente motivato, l’avvisammo al contempo che di conseguenza avremmo effettuata la manifestazione come precedentemente notificatale. “Effettuazione” per modo di dire. Infatti, non appena arrivati noi in piazza, non ci eran dati che pochi minuti di saluto e di dialogo con gli agenti; tradotti in questura e lì trattenuti per diverse ore, venivamo quindi denunciati per manifestazione vietata (che non c’era stata!). La prima volta ci adeguammo di buon volere: c’era il preliminare bisogno di acquisire un’esatta conoscenza di quel modo illegale di procedere poliziesco e di fare una debita reciproca conoscenza, intanto saggiando la nostra tenuta e capacità di azione. Ma da quei primi interventi lasciatici tranquillamente reprimere sul nascere, fu necessario passare ad una qualche resistenza a quel troppo comodo modo di fare dei tutori dell’ordine.
…È la ricostruzione a posteriori di come andarono le cose o la progressione fu programmata?
No, la progressione nella maggiore radicalità della nostra azione conseguì in via necessaria da come andarono le cose – come voi dite -, così assurdamente arbitrarie da imporci il dovere di contrastarle foss’anche soltanto a tutela di un fondamentale diritto democratico, prima ancora della possibilità negataci di esprimere liberamente le nostre idee. Attuammo così un secondo stadio di azione, che venne a consentirci di rimanere e farci vedere in piazza per un sufficiente lasso di tempo prima dello scontato intervento della polizia e ne documentasse l’arbitrio sullo svolgimento della nostra legittima e più che tranquilla manifestazione. La cosa si svolgeva così. Alcuni di noi, sparsi qui e là nella piazza, cominciavano a distribuire volantini, altri ad assestare in giro dei cartelli. Questo ci dava modo di iniziare ad attrarre l’attenzione di un discreto numero di passanti e trattenerli a scambiare qualche battuta. La polizia altresì si trovava costretta ad indugiare nel suo intervento, dovendo prima riprendersi dal nostro inaspettato dispiegamento, e poi al momento dell’intimazione del fermo trovarsi alquanto imbarazzata con attorno una schiera di cittadini, fatti attoniti e riluttanti da quel suo procedere contro pacifici e rispettosi dimostranti quali noi eravamo. Poi comunque consentivamo a lasciarci andare ancora una volta alla trafila del fermo che vi ho descritto per le prime manifestazioni, soddisfatti stavolta di avervi potuto dare un minimo inizio. Ma c’era bisogno per noi di non stare più a quel gioco, così tanto scorretto. Troppo comodo e facile era per la polizia di stroncare la manifestazione sul nascere, e per noi poco utile sprecar energie, oltre che tempo e denari, a quel ridotto livello. Decidemmo pertanto di passare ad un terzo stadio di azione, che comportava la renitenza a sottostare volontariamente al fermo ingiustificato – tanto più che nel frattempo eravamo stati assolti nel primo dei processi intentatici dalla polizia.
Cosa dunque faceste? Che cosa vi accadde?
Organizzammo per una stessa giornata, e nel medesimo posto, due manifestazioni separate tra loro di alcune ore. All’inizio del mattino, ancora deserto di passanti, quattro dimostranti solitari si presentarono in piazza senza esporre alcun cartello, subito abbordati da alcuni funzionari della questura da noi preavvertita. All’accenno dei dimostranti ad iniziare la manifestazione, ecco scattare l’immancabile denuncia. La cosa venne a risultare d’una arbitrarietà talmente plateale che – per dirla in breve – quella questura ebbe a ricordarsene. Infatti nel conseguente processo, che fu ovviamente di assoluzione, il giudice non si limitò a smentirne l’operato, ponendone altresì in evidenza il ridicolo. Poche ore dopo, preavvisata la questura che saremmo comunque tornati senza tregua a manifestare nella stessa piazza di prima, un altro gruppo di dimostranti entrò in azione, nell’ora di punta del mezzogiorno, disponendosi tranquillamente a sedere sul piedistallo del monumento al centro della piazza, ed esibendo alcuni cartelli che riproducevano gli articoli della Costituzione sulla libertà di manifestazione. Furono subito attorniati da un drappello di agenti in divisa, a loro volta attorniati da un nugolo di curiosi. Gli agenti, dopo vani tentativi di farli allontanare, vi desistette: la situazione era talmente tranquilla ed attraente, che la folla non se ne dava per inteso. Addirittura una ragazza venne a sedersi accanto ai dimostranti, e contro le intimazioni degli agenti a scostarsi da lì, vi persistette dicendo che non ne vedeva il motivo da pacifica cittadina qual’era e che quei dimostranti le erano simpatici. Così il tempo passava, col comandante delle forze dell’ordine che non sapeva che fare, di fronte all’inatteso rifiuto dei dimostranti al suo ordine di sgombero, a cui essi rispondevano che vi avrebbero senz’altro aderito, non appena fossero stati loro precisati i comprovati motivi richiesti dalla Costituzione. Ricordo ancora l’episodio di una persona che si trovava in prima fila nella folla accalcata intorno, e che all’indirizzo del dimostrante che si era così espresso gridò bravo!, e sporgendo il figlioletto che reggeva sulle spalle al di sopra di quelle degli agenti lo incitò a dire: “Stringi la mano al signore”, tra uno sgorgare di applausi. Venne infine l’ordine superiore del questore di procedere al fermo con lo sgombero forzato. I dimostranti vi si erano ben preparati, sul piano fisico ed anche giuridico: abbandonarsi passivamente all’azione di sgombero non comporta per legge il reato di resistenza a pubblico ufficiale. L’inusitata operazione per i poliziotti viene a farsi alquanto complicata e psicologicamente intrigante. Ad uno ad uno i dimostranti, lasciatisi andar sdraiati inerti a terra, vengono strascinati per decine di metri al furgone di polizia ai lati della piazza, essi tranquilli e gli agenti sbuffanti, ai quali l’atteggiamento pacifico dei dimostranti e il clima altrettanto disteso e interessato che – come fosse uno spettacolo teatrale – s’era instaurato tra le centinaia di cittadini tutt’intorno, non dava appiglio alla loro più familiare e sbrigativa pratica di sgombero a base di manganellate. Da quella dimostrazione che inaugurava il terzo grado di azione con la resistenza passiva al fermo, non avemmo poi più nessun impedimento a manifestare liberamente, perlomeno da parte della questura di Milano dove essa avvenne.
A un certo punto il Gan si scioglie… perché?
Soltanto nominalmente, non nella sostanza. Già durante il periodo delle sue azioni di piazza, il GAN aveva esteso la propria attività ad altri tipi e settori di iniziativa, che non comportavano le troppo usuali complicazioni poliziesche. In tal modo si dava agio ad una più ampia partecipazione ad esse di persone e associazioni simpatizzanti, allargando così l’interesse al lavoro più generale del Movimento Nonviolento, nel cui nome quelle iniziative venivano indette: campi di lavoro-studio-addestramento alla nonviolenza, convegni, seminari sulla nonviolenza, marce, eccetera. Inframmezzate a queste, il GAN proseguiva peraltro nelle sue specifiche manifestazioni di piazza, che per la loro originalità e il positivo costrutto andavano suscitando un vivo interesse in diversi movimenti della contestazione. E al termine della serie di azioni dirette di cui abbiamo prima parlato, il GAN dismise definitivamente il suo nome ma ne mantenne lo spirito e il metodo, trasferendoli poco dopo ad un’altra modalità di azione diretta, quella delle marce antimilitariste, che suscitarono la partecipazione di centinaia di persone e di gruppi i più diversi, sospinti dall’entusiasmo di portarsi ora a più confacenti azioni dirette sullo stile di quelle del GAN, allontanandosi così dal disastroso tipo di manifestazione tendenzialmente turbolenta e rissosa corrente in quegli anni.
Già, le marce antimilitariste…un’altra stagione straordinaria… puoi farcene almeno un cenno? Poiché in questa chiacchierata vi interessa eminentemente parlare dell’azione diretta, non starò a dilungarmi sui tant’altri aspetti di quelle marce, di grande valore educativo: sia nei riguardi delle migliaia di cittadini che le marce (ciascuna della durata dai 10 ai 15 giorni) nei loro vari momenti della giornata ti davano la possibilità di avvicinare, cittadini tra i più diversi che, attratti da quell’originale tipo di manifestazione pacifica e dialogante, vi trovavano ogni agevolezza, anche se dissenzienti dalle idee dei marciatori, di colloquiare con loro in modo semplice e franco, contenti di vedersi inseriti in quell’ambiente civile e democratico in cui poter esprimere come mai pubblicamente le proprie idee, fuori dalle lambiccate astruserie dei loro vertici politici e confessionali; educative le marce per le stesse forze dell’ordine, che dalla disciplina nonviolenta dei marciatori e dal grande interesse e simpatia della popolazione che li attorniava, erano condotte a rimanere sul piano per esse più dignitoso di effettive garanti dell’ordine pubblico democratico che non su quello più abitualmente repressivo; ed educative pur anche le marce per gli stessi accaniti oppositori di destra, ripiegati a riflettere sullo smacco di inerzia e di silenzio cui veniva ad approdare il loro programmato intento di far naufragare le marce attraverso l’arma consueta della vociferante provocazione e dello scontro violento. Vuoi dirci qualcosa di più proprio a quest’ultimo riguardo?
Ma sì, per finire, vi cito uno soltanto tra i moltissimi episodi, avvenuto durante una marcia in quel Friuli-Venezia dove da tempo si distinguevano gruppi di giovani della destra fascista notoriamente dediti alla provocazione ed alla aggressione nei confronti degli avversari di sinistra. Al termine della camminata giornaliera di una ventina di chilometri i marciatori si erano seduti compostamente in terra al centro della piazza principale di Codroipo, in attesa di iniziare il loro consueto comizio-dibattito con la popolazione. A un lato della piazza, affollata di paesani, vi era già ad accoglierli un folto manipolo di baldi fascisti, e ingenti forze dell’ordine attruppate al lato diametralmente opposto. In questo spazio della piazza così sgombro, i fascisti ebbero campo e agio di esibirsi a lungo contro i marciatori con urla, insulti, minacce, lancio di uova e ortaggi. Insulti e minacce venivano tranquillamente ricambiati dai marciatori con ampi sorrisi, e i pomodori accolti e perfino sollecitati con applausi, così ristoratori com’erano della sete patita nella lunga camminata della giornata. Di più, i marciatori invitavano civilmente i fascisti schiamazzanti a prendere la parola all’altoparlante della marcia, dove potevano più distintamente esprimere al meglio e quanto volevano le ragioni del loro dissenso. Ma, poverelli, educati com’erano a poco più che alla gazzarra e alla rissa, non seppero fare null’altro che continuare a prodursi in quella loro penosa esibizione, sempre speranzosi di farne sprigionare in qualche marciatore anche soltanto un guizzo esasperato che accennasse ad un gesto di sfida, con finalmente l’atteso pretesto di scatenarsi al loro beneamato scontro violento. La gazzarra fascista incalzava da oltre mezz’ora, con le forze dell’ordine sempre immobili all’estremità della piazza – i loro comandanti occupati a scambiare gioviali battute con gli stessi fascisti tra i quali si erano amichevolmente ritrovati fin dall’inizio. Ma all’opposto di quanto sperato, l’intera indecorosa provocazione venne alfine a miseramente sgonfiarsi. In un momento di particolare tensione, il coordinatore della marcia riuscì a farsi sentire in tutta la piazza parlando scanditamente dal proprio altoparlante. Disse prima di voler tralasciare il fatto delle forze dell’ordine lì immobili a non bloccare com’era loro dovere la chiassata fascista, che comunque per quanto fastidiosa poco caleva alla tenuta pacifica dei marciatori; poi – rivolto particolarmente alla folla di cittadini che attentamente continuavano a sostare agli angoli della piazza – li invitò a ben osservare peraltro come l’assurda disposizione dei poliziotti schierati alle spalle dei marciatori lasciava completamente libero il campo ai fascisti di far precipitare la situazione da un momento all’altro verso un possibile tafferuglio da cui anche un parapiglia generale. Talmente plateale venne a risultare la tolleranza e quasi la compiacenza poliziesca alla provocazione in corso, che il comandante degli agenti dovette alfine risolversi a farli schierare di fronte al gruppo dei fascisti – che si trovarono ridotti a zittirsi e a rodersi in un ghetto di sovrana inettitudine. Prese quindi avvio senza più alcun disturbo il comizio-dibattito, con un concorso eccezionale di pubblico. È tempo veramente di concludere, non vi pare? A voi di aggiungere un qualche altro possibile capitolo all’esperienza del GAN, che, persuasi come siete della sua attuale validità, vi interessa riproporla anche alla approfondita considerazione dei presenti movimenti della contestazione globale, impegnati nella possibile attuazione di una società un po’ più umana e civile, più di pace, di nonviolenza.
(Intervista a cura di Pasquale Pugliese e Luca Giusti) http://nonviolenti.org/cms/index.php?page=an-luglio-2004#b

martedì 15 novembre 2011

Il Ministero della Difesa a un generale?

La guerra ridotta a mera "tecnica"

Si parla insistentemente di un generale al Ministero della Difesa del nascente governo "tecnico". Sarebbe una scelta fortemente sbagliata, per diversi motivi:

a. in nesun paese democratico i generali sono al governo, perchè l'esercito ha bisogno di una direzione democratica: la guerra non può essere ridotta a mera "tecnica";

b. questo è vero sempre, ma lo è ancora di più in un momento in cui tornano a soffiare pericolosi venti di guerra nucleare e all'ordine del giorno dell'agenda globale bisogna porre con forza il tema del disarmo;

c. un governo che nasce con lo scopo del rigore del bilancio, da realizzare attraverso i tagli strutturali alla spesa pubblica, ha la necessità di compiere tagli drastici anche alle spese militari (che valgono 4 volte le spese per l'Università) e di rinunciare a folli programmi di armamenti (131 cacciabombardieri nucleari): un generale può tagliare se stesso?;

d. la difesa della Patria è concetto molto più ampio di quello di "difesa militare", perchè la Patria non si "difende" solo attraverso la "tecnica" della guerra, "mezzo" ripudiato dalla Costituzione, ma anche (e, secondo me, sopratutto) attraverso la "tecnica" della "difesa civile non armata e nonviolenta", la quale "concorre, in alternativa al servizio mlitare, alla difesa della patria con mezzi e attività non militari", come recita la legge della Repibblica istitutiva del Servizio Civile Nazionale (n.64/2001). Se non si tiene conto di questo bisogna ribattezzare, coerentemente, il Ministero della Difesa in Ministero della Guerra;

e. dunque, se proprio è necessario un ministro "tecnico" esperto di metodi di difesa, per tutte queste ragioni, è il momento di scegliere un esperto di difesa civile, non armata e nonviolenta. Ossia di quel "mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" non ripudiato dalla Costituzione. Se non ora quando?

sabato 5 novembre 2011


I venti di guerra nucleare che hanno ricominciato non a soffiare,
ma ad essere soffiati,
ci rammentano che l'unica speranza per la pace è il disarmo.
Nucleare e non solo.
Ma nessuno ha in agenda il disarmo:
nè i governi nè le opposizioni, nè i movimenti nè i partiti,
nè gli indignati nè i rassegnati.
Se nessuno ha in agenda il disarmo,
mentre la corsa agli armamenti galoppa,
la guerra è già pronta,
consapevolmente, negli arsenali e,
inconsapevolmente, nelle teste di tutti.
L'unica via d'uscita è l'avvio, adesso,
del disarmo nelle teste
che imponga il disarmo degli arsenali in tutte le agende:
politiche, informative, culturali, religiose, associative, movimentiste.
Altrimenti, dopo,
saranno perfettamente inutili le manifestazioni pacifiste
per fermare la catastrofe avviata.
E' necessario agire subito,
ciascuno per come può e per come sa, ovunque:
nei partiti e nelle istituzioni, nei giornali e sul web, a scuola e all'università,
in parrocchia e in moschea, nelle associazioni e nei movimenti.
Già un'altra volta una crisi finanziaria globale si concluse con una guerra.
E fu mondiale, e fu nucleare.
E ancora, di nuovo, si prepara.
Oggi, ora, nessuno è escluso dalla respons/abilità,
ossia dal dover rispondere alla domanda:
tu che cosa hai fatto per evitare che ciò avvenisse?