domenica 11 dicembre 2011

Perchè le spese militari sono un tabù?

Qualche risposta rileggendo un testo di Ekkehart Krippendorff sull'istituzione militare
 
Perchè, pur in un momento di crisi e di ossessiva invocazione del rigore nel bilancio dello Stato, non si tagliano le spese militari? Perchè, nonstante i drammatici tagli alla spesa pubblica imposti dal governo, solo flebili voci – per lo più extraparlamentari e marginali – chiedono una stretta a queste folli spese di morte che pre/vedono dei costi abnormi? Perchè, per la stragande maggioranza di forze politiche, sindacali, mediatiche non è assurda la crescita di questo unico capitolo di spesa pubblica, ma è assurda la richiesta che venga tagliato? Talmente assurda che non si pongono neanche il problema?

Ho trovato le risposte più convincenti a queste insistenti domande rileggendo alcune pagine del politologo tedesco Ekkehart Krippendorff ne "L'arte di non essere governati" (del 1999, ma pubblicato in italiano nel 2003), in particolare il capitolo "Critica dell'istituzione militare".
Riportiamone qualche brano:

"L'unica istituzione comune a tutti gli Stati è quella degli esperti in uniforme, accasermati, equipaggiati con le armi di volta in volta più moderne e conseguentemente addestrati all'applicazione della violenza fisica: i militari. Esistono Stati con o senza partiti, parlamenti, costituzioni scritte, tribunali indipendenti, con o senza presidenti, banche centrali, chiese di Stato, moneta propria, lingue nazionali e così via, ma tutti hanno le forze armate.
Globalmente considerati, tutti gli Stati spendono per le forze armate più che per l'educazione e la salute dei loro cittadini. Le forze armate sono il maggiore datore di lavoro in assoluto; i danni ambientali direttamente e indirettamente provocati dalle forze armate sono superiori a quelli provocati da ciascuna singola industria.Nel ventesimo secolo il numero di rovesciamenti violenti di singoli governi dovuti all'intevento delle forze armate supera quello causato da ribellioni politiche o rivoluzioni. Sono le forze armate ad aver scritto, come afferma Eric Hobsbawm nel suo bilancio del secolo passato << il capitolo più nero nella storia occidentale delle torture e del controterrore >>.
Dall'altro lato, proprio questa istituzione con le sue guerre, di cui soltanto nell'ultimo secolo sono cadute vittime milioni e milioni di persone, per tacere del numero molto più grande delle persone cacciate dalla loro terra e di quelle ridotte alla fame dalla conseguenze della guerra, riceve da parte delle scienze sociali un'attenzione relativamente modesta, e nella stampa e nell'opinione pubblica l'istituzione militare viene trattata solo come uno dei tanti temi.
L'istituzione militare non viene però vista come uno dei tanti organi dello Stato, bensì come quello addirittura più ovvio tra di essi. La maggior parte delle persone, quasi indipendentemente dalla loro provenienza culturale, sono in grado di immaginarsi tanto poco uno Stato senza forze armate quanto uno Stato senza bandiera o sedi del governo. Proprio per questo, pare, le forze armate sono così di rado oggetto di dibattito scientifico o pubblico. Si noti bene: l'istituzione e non le rispettive forze armate in concreto, che finiscono continuamente sulla "linea del fuoco" delle controversie politiche in quanto fattore di potere, sia come voce del bilancio pubblico, o ancora sotto l'aspetto dell'ottemperamento o meno dei loro compiti istituzionali"

In realtà, in Italia, sono sottratte al dibattito pubblico le forze armate tout-court, sia come istituzione che come esercito "concreto". Non sono mai al centro di "controversie politiche", neanche in riferimento al bilancio dello Stato. Anzi, per la prima volta nella Storia repubblicana un ammiraglio in servizio viene nominato Ministro della Difesa – controllore e controllato in una persona sola - senza che nessuno batta un ciglio. Il confronto politico si è aperto perfino rispetto alla Chiesa cattolica e alle tasse non pagate per gli immobili, ma si evita accuratamente di occuparsi di spese per esercito e armamenti. Dunque il radicamento dell'ovvietà delle forze armate, nel nostro Paese, risiede ancora più nel profondo.
Proseguiamo la lettura:

"Ma già a questo punto si affollano le domande poste così di rado e a cui ancor più raramente viene data una chiara risposta: qual è la funzione dei militari? E' possibile coglierne e spiegarne l'essenza ricorrendo alla loro "funzione"? (...)
Per capire perchè l'istituzione militare sembri costituire una componente così ovvia dello Stato, quasi come un inno nazionale, un apparato fiscale o la polizia, perchè l'idea pura e semplice di uno Stato senza portatori di uniforme sia per la classe politica di qualsiasi colore tanto insopportabile e impensabile quanto, ad esempio, quella di un papa che dubiti della paternità divina di Gesù Cristo o dell'Immacolata concezione; perchè i rappresentanti politici senza le loro forze armate si sentano, per così dire, come se fossero nudi; insomma per cogliere la dimensione profonda di questo bisogno di sicurezza, è sufficiente, per cominciare, elencare i rituali militari mediante i quali gli Stati manifestano e testimoniano il loro reciproco rispetto: compagnie d'onore, sciabole guizzanti, bande militari, che fanno della più civile delle melodie una marcia ritmata e marziale, fucili con baionette lucide e appuntite, in basso punte di stivali allineate con il righello e in alto volti irrigiditi, addestrati a non mostrare nessuno stato d'animo, nessun sentimento umano, in modo che non possano distinguersi da macchine ubbidienti a qualsivoglia comando, occasionalmente lo sparo di salve di saluto e la parata al passo dell'oca."

Si badi che Krippendorff non parla di rituali antichi e dimenticati, ma delle rinnovate parate militari che, in Italia, per esempio, oltre a "festeggiare" il 4 novembre - giornata che dovrebbe essere piuttosto di lutto a memoria, non retorica, delle vittime di tutte le guerre – si sono espanse anche al 2 giugno, Festa della Repubblica, che viene celebrata al passo dell'oca e con lo sfoggio di tutti gli osceni strumenti di morte, come se solo le foze armate rappresentassero degnamente la Patria.
Ancora:

"Questi rituali sono i resti reali e simbolici di quella prassi, caratteristica dell'epoca dell'assolutismo, mediante cui i dominatori facevano sfilare davanti ai loro ospiti i propri giocattoli da guerra allo scopo di mettere chiaramente in vista la potenza e le proprie capacità, che si trattasse di dissuasione o di intimidazione. In quella società di lupi dei giochi dinastici a somma nulla ognuno doveva aver paura di ogni altro ed essere in grado di minacciarlo per poter sopravvivere, oppure per restare (politicamente) in vita. Le parate e le dimostrazioni militari erano – e sono ancora! - espressione del timore di perdere i propri privilegi, la propria posizione, il trono. Esse lanciavano, e lanciano, però, anche un messaggio diretto verso la base: << Io sono il tuo Stato, il tuo signore, tu mi dovresti temere e amare e non avere alcun altro signore oltre a me, e se sei disubbidiente, vedi allora quale potente macchina, che sta ai miei comandi, è in grado di
sopraffarti >>. Infine i dominatori con le loro parate fanno coraggio a se stessi, per loro il passo di marcia di disciplinati soldati, il silenzio alla luce delle fiaccole, le marcette e gli uomini in uniforme rappresentano orgasmi sia acustici che visivi del potere"

Questi rituali militari, "orgasmi del potere", risalgono all'epoca dell'assolutismo degli Stati moderni. Eppure, spiega Krippendorff, non è li che si trova l'origine della simbiosi tra Stato ed esercito, essa si forma ancora prima nel tempo, nel momento di passaggio tra il feudalesimo e l'epoca moderna. Gli stessi Stati moderni vennero creati da dinastie che avevano bisogno di fornire una "sistemazione durevole e sicura ai loro eserciti, ai quali soltanto dovevano il loro potere". In quella fase fondativa non è "la guerra la continuazione della politica con altri mezzi", secondo la definizione fornitane da Clausewitz, ma, al contrario avviene la fondazione della politica moderna come "continuazione della guerra con altri mezzi" Non a caso Niccolò Macchiavelli, padre della scienza politica moderna, fu anche uno stratega militare che guidò i fiorentini all'assedio di Pisa.
Seguiamo il ragionamento di Krippendorff:

"La politica come continuazione della guerra con altri mezzi, il suo ruolo in quanto sguattera dell'autoconsapevoleza militare dei nuovi Stati, le cui strutture erano state sviluppate e finalizzate a soddisfare le necessità degli eserciti permanenti: dalla fortificazione delle città attaverso la costruzione di strade fino al sistema fiscale, dall'orgaznizzazione cameralistico-mercantilistica della produzione nelle manifatture per i fanbbisogni dell'esercito fino al censimento amministrativo della popolazione a scopo di reclutamento, dalle dottrine della virtù politica e dai codici militari fino all'edificazione strategica di castelli e palazzi posti nel centro delle libere città, dalla simbologia consistente nel fatto che il re indossava la stessa uniforme dei suoi ufficiali e soldati – essi infatti personificavano lo Stato, erano lo Stato – fino alle bandiere e agli emblemi del dominio (per lo più aquile e leoni), nei confronti dei quali ora il cittadino si doveva mostrare reverente e attraverso i quali poteva definirsi un senso statale e nazionale. Da tutti questi elementi, trasformatisi più volte, adattatisi alle mutate condizioni sociali, attraverso un processo di socializzazione, in parte a mezzo di indottrinamento sistematico (scuola, servizio militare obbligatorio), in parte mediante mutuo esercizio, le forze armate in quanto istituzione e la dimensione militare quale forma di pensiero divennero parte integrante della cultura e della statalità europea. (...)
[l'istituzione e la dimensione militare] Sono parte integrante della nostra cultura, dalla musica all'architettura fino alla letteratura, costituendo quindi anche lo sfondo, per lo più del tutto inconsapevole, del nostro modo di immaginare l'ordine e la sicurezza. Ogni critica elementare di questa istituzione va quindi a cozzare contro strati profondi, consapevolmente coltivati dalla tradizione e cresciuti attraverso secoli di statualità moderna, che si sottraggono ad argomentazioni razionali, funzionali, o che sono difficilmentre raggiungibili dalla critica stessa".

Per cui, continua Krippendorff, "uniformazione, accasermamento e legittimazione a scopo strategico di dominio dell'istituzione militare costituiscono la spina dorsale e le raison d'etre della statalità moderna". (...) L'istituzione militare si è trasformata nel cancro di tutte le società, assorbe risorse materiali e intellettuali a discapito del bilancio statale per la salute, l'istruzione e la cultura, si nutre e si riproduce a spese della società civile che deve poi assumersi anche i costi dei danni provocati ogniqualvolta l'istituzione militare entra in azione uscendo dal suo stato di quescienza"

La società civile paga dunque due volte, la prima quando – in tempi ordinari - alimenta le voraci casse di eserciti e armamenti, sottraendo risorse a tutti gli altri settori pubblici; la seconda nella ricostruzione del tessuto civile dopo che – nei tempi speciali – l'esercito è entrato in azione. Ciò riguarda sia l'azione che si rivolge verso l'esterno, con le guerre, quanto quella che si rivolge verso l'interno dello Stato con, appunto, i "colpi di stato" ("in due terzi degli Stati attuali sono i militari a comandare direttamente o indirettamente, e la politica economica e sociale si basa sul riconoscimento del primato dei privilegi militari"). Oggi, in Italia, il tempo ordinaro e il tempo speciale sono intrecciati e sovrapposti, con vent'anni di partecipazione consecutiva a guerre in giro per il mondo, che legittimano ancora di più la necessità di risorse economiche e di costosi armamenti, e la percezione di pace e "sicurezza" diffusa retoricamente all'interno del Paese.

Che fare per liberarsi di questo cancro?
Poiché il problema ha radici profonde, culturalmente stratificate, la risposta, secondo Krippendorff, deve svolgersi allo stesso livelo di profondità e dunque proprio sul piano culturale, nelle sue differenti declinazioni: storica, di genere, scientifica e, infine, politica.
Storica: "il primo passo in direzione di un capovolgimento dei valori da parte della critica dell'istituzione militare consiste nello scrivere e leggere la storia, e sopratutto quella dell'epoca moderna, sotto l'aspetto del ruolo in essa giocato dalla violenza organizzata dallo Stato e dai suoi risultati sia socio-politici che cultural-ideologici. E' la storia di una malattia sociale, la storia di una patologia".
Di genere: "Sono uomini quelli che si sono organizzati in strutture militari, che difendono i loro privilegi nella forma di valori e orizzonti di senso militari e cercano di legittimare il loro potere attraverso la guerra. La critica dell'istituzione militare trapassa in critica del patriarcato".
Scientifica: "E' una via abbastanza diretta quella che collega la scienza naturale dei primordi dell'età moderna disposta alla violenza e l'istituzione militare quale asse portante dello Stato moderno. Alla base di ambedue queste manifestazioni della modernità sta la violenza come metodo; la scienza moderna e l'istituzione militare sono due delle sue forme di manifestazione, e entrambe hanno provocato effetti catastrofici. Esemplare al riguardo è la collaborazione tra di esse nello sviluppo della prima bomba atomica".
Politica: "In quanto le forze armate, a partire dal diciassettesimo secolo, hanno pervaso la società politica, plasmandola e orientandola nel proprio senso, esse hanno segnato il discorso sulla politica ormai "statalizzata", sulle dottrine della virtù politica e sugli ideali di possibili atteggiamenti sociali.(...) La famosa definizione di Clausewitz, secondo cui la guerra sarebbe la continuazione della politica con altri mezzi, non fa che tirare le conseguenze implicite nella tradizione macchiavellica, le conseguenze dell'aver definito la politica come la prosecuzione della guerra con altri mezzi diversi rispetto a quelli militari, cioè di aver pensato sempre politica e dimensione militare come un tutt'uno".

Su tutti questi piani deve oggi svolgersi il "compito secolare" indirizzato in primo luogo all'opinione pubblica, da promuovere in maniera scientifica: "caratterizzare le forze armate per quello che esse sono oggettivamente e di fatto: l'istituzione più pericolosa e più avversa alla vita, e a un tempo la più dispendiosa, che sia mai stata inventata".

Dunque, mi pare che sia tempo di non disperdere le energie e di mettersi al lavoro per promuovere un significativo e necessario disarmo culturale se vorremo ottenere, in un tempo ragionevole, ma misurabile sul piano della storia, un significativo e necessario disarmo militare, che pre/veda anche il taglio delle spese militari.

domenica 27 novembre 2011

Agire e studiare, con sacrificio e costanza

Le prime azioni dirette nonviolente in Italia.
 
Intervista a Pietro Pinna, cofondatore con Aldo Capitini del Movimento Monviolento,
fatta qualche anno fa e ancora oggi di grande attualità.
Pubblicata su "Azione nonviolenta", luglio 2004
 
Buon giorno Pietro, ci racconti come nacque l’idea di costituire un Gan?
L’idea, direi l’esigenza del GAN, nacque dall’insoddisfacente attività cui il Movimento Nonviolento veniva dedicandosi all’interno della Consulta Italiana per la Pace, la federazione delle diverse associazioni pacifiste che Capitini aveva istituita dopo l’effettuazione della Marcia della Pace Perugia-Assisi del ’61 per dare continuità alla loro occasionale collaborazione in quella iniziativa. Per due anni consecutivi noi del Movimento ci eravamo trovati esclusivamente occupati nel lavoro per la Consulta – di cui Capitini era presidente – a tutto scapito dello sviluppo del Movimento in sé ancora del tutto in erba, essendo stato costituito in concomitanza della nascita della Consulta.
Come funzionava la consulta?
La sua attività consisteva nella riproposizione di marce della pace a dimensione regionale, convegni di studio, produzione di documenti e di un periodico mensile. Le marce si riducevano a poco più che a semplici occasioni transitorie per i partecipanti di dare voce collettiva ai loro sentimenti e auspici per la pace; i documenti non concludevano che nella esortazione ai governanti affinché vi provvedessero di dovere. Tutta un’attività che finiva per risultare di una irrilevante ed effimera portata nella sua genericità pacifista, di nessuna incidenza sul piano politico istituzionale; e capite, tanto più insignificante per noi poiché avulsa dalla specifica istanza antimilitarista, di pacifismo assoluto del Movimento Nonviolento, che nel suo statuto diceva essere costituito da pacifisti integrali che rifiutano in ogni caso la guerra, il terrorismo e la tortura. La vita della Consulta, d’altro canto, era soggetta al soverchiante condizionamento ideologico e organizzativo del Comitato Italiano della Pace – ex Partigiani della Pace di dominanza del Partito Comunista -, a fronte delle altre ben più deboli componenti federate. Insomma, risultò alfine indispensabile per il Movimento Nonviolento di dare avvio in proprio ad una sua specifica attività, se voleva acquisire un’esperienza ed una forza in grado di sufficientemente pesare nella più incisiva qualificazione delle iniziative della Consulta. Nacque il Movimento e nacque la rivista “Azione nonviolenta”…
Ciò avvenne verso la fine del ’63. Al termine di un Seminario di 10 giorni che tenemmo sulle Tecniche della Nonviolenza, rimanemmo ancora riuniti alcune ore tra una dozzina di amici per discutere del possibile avvio di un’attività organizzata del Movimento. Due elementari esigenze ponemmo alla base dell’eventuale programma: il chiarimento e la diffusione dell’idea nonviolenta –allora misconosciuta per non dire avversata - , e un corrispondente impegno ad una sua pur minima esplicazione pratica. Le due cose dovevano procedere congiuntamente: non la sola teoria, che se non tradotta in atto risulta essere mera astrazione; non azione soltanto, poiché se cieca di idee chiare e definite, finisce per risultare inconcludente. Rispetto al primo punto, decidemmo in questo modo. Fino a quella data l’unico mezzo di collegamento del Movimento era costituito da un ciclostilato di 4 pagine spedito mensilmente ad un centinaio di supposti simpatizzanti – il Movimento non disponeva ancora di aderenti iscritti. Venne deciso di passare da quel ciclostilato ad un giornaletto a stampa; dopo aver avuto assicurata dagli stessi presenti alla riunione la disponibilità finanziaria per l’uscita di almeno tre numeri mensili, Capitini ed io ci assumemmo l’incarico di curarne la pubblicazione, che uscì col titolo “Azione nonviolenta”.
Quindi il nome della rivista in qualche modo deriva dal fatto che avevate deciso di occuparvi prioritariamente dell’azione…
Non prioritariamente, ma come ho già detto, di pari passo con l’elaborazione e la diffusione delle idee: “Azione nonviolenta” per il dibattito delle idee e l’informazione sulle iniziative, ma subito affiancata dall’azione, dalla loro messa in atto. Una volta Capitini ebbe a scrivere, in relazione all’apparire in Italia del primo episodio di obiezione di coscienza politica: “Ci voleva il sorgere del caso concreto di rifiuto per dare a quell’atto tanta risonanza da far conoscere in Italia meglio di tanti discorsi e libri che cos’è l’obiezione di coscienza”. Quanto alla nascita del GAN, in quella medesima riunione non facemmo altro che chiedere di alzare la mano a chi intendesse partecipare ad un gruppo di azione – senza peraltro saper nulla ancora di che cosa comportasse quell’idea. Quattro giovani comunque vi assentirono, io ne assunsi la coordinazione, e all’istante concordammo di fare una prima riunione alla fine della settimana successiva, dove battezzammo il gruppo col nome appunto di Gruppo di Azione Diretta Nonviolenta, da cui la sigla GAN.
A quale tema pensaste di applicarvi?
Fu quello dell’obiezione di coscienza. Ci venne in via naturale di pensarlo, perché ci apparteneva personalmente. Io ero stato obiettore, altri nel gruppo si apprestavano a divenirlo. Il punto di forza della nostra dedizione all’azione, era che non si trattava di un ideale astratto o di una realtà lontana da noi, ma che riguardava la nostra stessa vita. Quel tema ci offriva inoltre la possibilità di dibattere la questione, strettamente pertinente all’impegno del Movimento, dell’opposizione alla preparazione della guerra, la cui minaccia in quegli anni era particolarmente avvertita dall’intera opinione pubblica sotto l’incubo di un possibile conflitto atomico.
Quale era il vostro obiettivo immediato?
Il nostro proposito era quello di sensibilizzare la comune opinione pubblica al problema appunto dell’obiezione di coscienza, con un contatto diretto attraverso manifestazioni di piazza. Il dibattito sul tema si era acceso nell’ambiente politico e intellettuale fin dal sorgere del primo caso di obiezione politica, nel 1949, ma poi era venuto stagnando. Singoli parlamentari avevano, sì, presentato dei progetti di legge in proposito, mai però discussi in Parlamento. Gli obiettori continuavano così a venir processati, con condanne al carcere tra l’altro assurdamente reiterate al medesimo obiettore. Noi intendevamo contribuire ad animare un movimento di pressione dal basso che inducesse alfine il nostro paese, perlomeno, al conseguimento democratico del riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza come da tempo vigeva in altri Stati.
Come vi formaste all’azione? Preparaste il lavoro?
Noi cinque eravamo all’inizio semplici conoscenti occasionali. Tenemmo perciò delle riunioni preparatorie per meglio conoscerci e affiatarci tra noi, per convenire su alcuni basilari principi e modalità d’azione della nonviolenza, oltreché impadronirci al meglio della storia e delle ragioni dell’obiezione di coscienza. Con l’ausilio di un amico avvocato esaminammo altresì le disposizioni di legge che regolavano le manifestazioni di piazza. Infine, dopo esserci bene accordati sulla disciplina nonviolenta da tenere al riguardo, elaborammo e predisponemmo con cura il materiale occorrente. Merita che vi sottolinei un dato, circa queste preliminari riunioni. Ci ritrovavamo puntualmente, ogni successivo fine settimana, provenendo ciascuno da diverse città. Già questo fatto, che comportava sacrificio di denaro e di tempo sottratti alla vacanza settimanale, veniva a testimoniare e a corroborare in partenza la serietà dell’impegno. Sacrificio e costanza, due elementi essenziali della nonviolenza. E vorrei anche sollecitarvi qui ad un altro impegno da prendere sul serio. Capita spesso di constatare come l’amico che pur ci dice del suo entusiasmo per la lettura di un buon libro di comune conoscenza, lo abbia però letto una volta sola. Ma cosa gli è rimasto, dello spirito e del contenuto di quel libro, alla sua prima lettura? È stato detto che un libro che non si legge una seconda volta, non valeva la pena di leggerlo la prima volta. Ricordo che Capitini, al quale veniva rimproverato da taluni suoi lettori di risultare un po’ troppo difficile in certi passaggi dei suoi scritti, rispose che talora lo faceva di proposito affinché il lettore si soffermasse sulla pagina con più attenzione e riflessione. E ricordo pure che noi del GAN inserivamo talvolta nei nostri cartelli e volantini una espressione inusuale e curiosa che veniva ad attrarre e a concentrare l’occhio del lettore sull’intero testo. Ho detto tutto ciò affinché anche voi, avendo per mano i libri sulla nonviolenza, non vi fermiate a scorrerli una volta sola, ma torniate a rileggerli due, tre, cinque volte, ogni volta capendo meglio e traendone sempre più ispirazione. Noi del GAN, ad esempio, venivamo alle riunioni preparatorie dopo esserci letto e riletto, per dirne uno, l’opuscoletto di Capitini “Teoria della nonviolenza”.
Vedi che un po’ lo stiamo già facendo, col libro che abbiamo in mano. E’ difficile far passare il messaggio che le cose vanno preparate con cura.
Sì, per il fatto che in tutti noi c’è una immediata tendenza, com’è nelle cose della natura, ad affrontarle col minimo sforzo. Siamo in tal modo sguarniti, all’inizio, del di più necessario a superarne le possibili asperità. Questo di più è la necessaria preparazione, se vogliamo poi venire adeguatamente a capo delle cose. A fare un buon soldato – diceva Gandhi nelle sue istruzioni alla preparazione nonviolenta – occorre un congruo addestramento; così doveva essere per un buon nonviolento, preparato con cura sul piano dottrinale, psicologico e fisico.
Come avete acquisito le modalità delle vostre azioni? Le avete apprese da qualcuno o le avete acquisite col tempo?
Sono venute da sé, spontaneamente e gradualmente. Non conoscevamo allora nessun testo che istruisse sull’azione diretta. Tuttavia, pur privi della conoscenza di tecniche specifiche, il nostro stile di manifestazione venne a maturare direi naturalmente, in concordanza dell’animo col principio nonviolento che ci ispirava e ci accomunava.
Quindi l’azione nonviolenta non è solo un insieme di tecniche ma richiede un legame tra interiorità ed esteriorità…
È l’animo, il tuo intimo di persuaso della nonviolenza che essenzialmente e preliminarmente conta – la persuasione intima della madre nei suoi rapporti con il figlio, che le detta spontaneamente il comportamento tecnico adeguato. Le tecniche senza la persuasione intima risultano di scarso valore, imperfette nell’esecuzione e di effimera portata nel successivo rapporto complessivo. Una volta ebbi una fugace occasione di accennarne con Gene Sharp, considerato il massimo studioso dell’azione diretta. Suppongo che conosciate la sua prestigiosa opera intitolata “La politica dell’azione nonviolenta”. Ebbene, non so se abbiate rilevato che egli vi viene ad intendere per nonviolenza la semplice aviolenza, ossia l’esclusiva applicazione pragmatica – non di principio – di tecniche aliene dalla violenza. Al fine di metterne in luce l’indubbio valore, Sharp non ne considera però anche i limiti, escludendo dal prendere in considerazione l’importanza sia del principio etico sia del complessivo metodo d’azione della nonviolenza. Certamente, come egli ci scopre e illustra assai bene, sono avvenute numerose azioni storiche che hanno raggiunto il loro momentaneo obiettivo senza un dichiarato impegno alla nonviolenza. Si potrebbe però osservare, all’inverso, che altrettante e più azioni semplicemente aviolente sono degenerate e finite per abortire. Ma – vedete – decisivamente importante è considerare non tanto la riuscita della singola momentanea azione in sé, quanto il più vasto orizzonte a cui si tende. Se l’azione che attualmente intraprendo è intesa non soltanto alla soluzione del contingente momento conflittuale, ma è rivolta a stabilire un più elevato livello morale e di giustizia tra le parti in causa, la semplice aviolenza finisce per mostrare il suo fiato corto al raggiungimento di questo traguardo. Ciò ad esempio ci viene patentemente dimostrato dal pur lodevole metodo di azione della democrazia, che aviolenta all’origine ma non nutrita dalla complessiva nonviolenza, giunge a ribaltarsi nel suo esatto contrario, con l’uso della violenza fino all’estremo della guerra. Le disastrose conseguenze qui accennate stanno sotto gli occhi di tutti. Insomma – e chiudo il monologo – se sei veramente impegnato alla nonviolenza, non puoi farne a meno se vuoi farla vivere nel corpo morale del tuo agire, come nel tuo corpo fisico non puoi fare a meno che agiscano a dovere cuore e polmoni. È il sangue giornaliero del tuo essere, un suo fluire costante, non un frammentario intermittente episodio. Capitini, pur alieno com’era dal lasciarsi andare ad affermazioni categoriche, venne a scrivere una volta: “La nonviolenza non è un flirt, questo dev’essere ben chiaro”.
E invece, spesso questo non è ben chiaro, nemmeno nei movimenti che si dichiarano per la nonviolenza…
Sono movimenti che assumono soltanto la prima, seppur fondamentale, condizione della nonviolenza di principio, cioè a dire la sola astensione dalla violenza – quella posizione che abbiamo già definito col termine ad essa più propriamente consono di aviolenza. Manca in quei movimenti l’assunzione delle altre congiunte condizioni che rendono la nonviolenza veramente e compiutamente efficace. Poiché la distinzione tra le due posizioni è di cruciale importanza, sarà bene richiamare – pur soltanto limitandoci a nominarle – queste ulteriori condizioni altrettanto essenziali: il rispetto della verità; la disponibilità costante al compromesso onorevole; la disponibilità ad assumere un proprio maggior sacrificio rispetto a quello possibilmente derivante all’anniversario dalla situazione conflittuale; la gradualità nell’impiego progressivo dei mezzi di azione, da quelli più blandi legittimi e democratici a quelli più radicali fino alla disobbedienza civile; infine – ma contemporaneo alle altre condizioni – il programma costruttivo, volto ad avviare da subito i primi possibili tratti della nuova società liberata da instaurare, che Capitini definiva la realtà dell’unità amorevole tra tutti. Quei movimenti dovrebbero finalmente arrivare a capire quanto la loro semplice aviolenza, applicata ad esempio al rifiuto della guerra, finisca per approdare – sia pur nobile ed impegnata quant’essa sia – ad una condizione del tutto sterile, di penosa assoluta scontata inconcludenza. Arrivare a capire che non questa o quella guerra va avversata, soltanto al momento ultimo del suo esplodere, ma che è l’idea della guerra in sé che va rifiutata, alla sua origine, nella mentalità e nelle corrispettive istituzioni che la mantengono in essere quale necessario mezzo estremo della vita conflittuale politica. Termino dunque questa mia perorazione dicendo che quei movimenti, se veri nonviolenti nel loro impegno pacifista, non dovrebbero tornare tranquillamente ad eclissarsi una volta terminata l’ennesima guerra, per poi soltanto rimettersi in marcia agli squilli della nuova guerra – come ci è stato di vedere e di soffrire nella serie bellica di quest’ultima dozzina d’anni; ma invece, scontato l’ennesimo scacco della loro vana tardiva protesta, rimanere in campo e subito, dal giorno dopo, trovarsi impegnati per l’abolizione qui ed ora della macchina portante della guerra, l’esercito – al cui mantenimento, ahinoi!, continuano a consentire ed a collaborare anche i partecipanti di quegli stessi movimenti.
Veniamo a noi. Se tu potessi ricominciare a fare azioni dirette nonviolente, oggi su quale campo pensi sia prioritario impegnarsi?
L’ho appena detto, quello ovvio, che per me e per l’intera umanità considero il più essenziale e urgente: il campo dell’opposizione assoluta alla guerra, ossia l’azione per il disarmo unilaterale, integrale e immediato dell’esercito. Vale a spenderci tutta una vita. Se poi volete che ne indichi un altro, altrettanto angustiante nella sua cieca tragicità quanto una vera guerra, è quello della strage quotidiana di vite umane degli incidenti automobilistici. A volte, per la morte casuale di un nostro concittadino, vediamo montare nel paese un rigurgito di emotività e di compartecipazione. Ma che invece la morte di quelle decine di persone, puntualmente, ogni giorno, sia considerata senza fiatare un dato di vita normale e quindi trascurabile, al più annotata a fine anno come mero dato statistico nel registro del dio supremo dello sviluppo – di merci e non piuttosto di valori umani – non dovrebbe sgomentare e avvilire chiunque?
Tornando al Gan, come vi muoveste concretamente?
In quegli anni, la mentalità ufficiale continuava ad essere di totale avversione all’obiezione di coscienza. Contro i nostri tentativi di parlarne in piazza, quella mentalità trovava un sostegno repressivo nei regolamenti polizieschi di pubblica sicurezza, “intruglio di fascismo e di reminiscenze borboniche”, come li definì l’allora vice-primo ministro Nenni nel nuovo governo di centro-sinistra.
Parliamo dunque del rapporto con le forze dell’ordine. Erano quelli gli anni di fatti gravi come i morti di Reggio Emilia…
Sì, infatti. Nel clima d’odio che avvelenava la vita politica di quegli anni, le manifestazioni di piazza finivano quasi sempre per degenerare in scontri cruenti con le forze di polizia. Bastava un minimo incidente, proveniente o dall’animosità e dalle intemperanze dei dimostranti o talora dalle stesse forze dell’ordine, perché la piazza si trasformasse in un campo di battaglia, con un infuriare di manganellate, caroselli, lacrimogeni e perfino, come voi accennate, fucilate omicide. Per noi del GAN, ovviamente, non si dette mai la circostanza di arrivare a quegli estremi selvaggi, dato che – a parte il freno del nostro atteggiamento nonviolento – in quattro gatti com’eravamo non facevamo massa da disperdere senza sugo con la violenza. Tuttavia, anche se non drammatici, i nostri rapporti con la polizia si presentarono fin dall’inizio di notevole difficoltà, sul piano direi mentale e nervoso. Da inesperti in materia quali eravamo, nel confronto con le questure zelantemente prone a vietarci meccanicamente le manifestazioni, il nostro iniziale puntello dirimente su cui poggiare fu il richiamo al rispetto preminente della Costituzione. Ne portavamo sempre appresso il testo e ne recitavamo a memoria gli appositi articoli: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola e ogni altro mezzo di diffusione. Per le riunioni in luogo pubblico, le autorità possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.” Poca cosa invero, a trattenere le questure dal loro zelo non propriamente democratico, al servizio piuttosto del potere autoritario che a quello dei cittadini. Sta di fatto che sin dalla prima manifestazione – come dicevo – avemmo a dover confrontarci con i loro puntuali divieti. Non potevamo ovviamente contentarcene, chiudere lì la partita e restarcene a casa: che GAN altrimenti saremmo mai stati? Così, dopo aver rispettosamente replicato alla questura di non averci messi in grado di tener debito conto del suo divieto poiché non adeguatamente motivato, l’avvisammo al contempo che di conseguenza avremmo effettuata la manifestazione come precedentemente notificatale. “Effettuazione” per modo di dire. Infatti, non appena arrivati noi in piazza, non ci eran dati che pochi minuti di saluto e di dialogo con gli agenti; tradotti in questura e lì trattenuti per diverse ore, venivamo quindi denunciati per manifestazione vietata (che non c’era stata!). La prima volta ci adeguammo di buon volere: c’era il preliminare bisogno di acquisire un’esatta conoscenza di quel modo illegale di procedere poliziesco e di fare una debita reciproca conoscenza, intanto saggiando la nostra tenuta e capacità di azione. Ma da quei primi interventi lasciatici tranquillamente reprimere sul nascere, fu necessario passare ad una qualche resistenza a quel troppo comodo modo di fare dei tutori dell’ordine.
…È la ricostruzione a posteriori di come andarono le cose o la progressione fu programmata?
No, la progressione nella maggiore radicalità della nostra azione conseguì in via necessaria da come andarono le cose – come voi dite -, così assurdamente arbitrarie da imporci il dovere di contrastarle foss’anche soltanto a tutela di un fondamentale diritto democratico, prima ancora della possibilità negataci di esprimere liberamente le nostre idee. Attuammo così un secondo stadio di azione, che venne a consentirci di rimanere e farci vedere in piazza per un sufficiente lasso di tempo prima dello scontato intervento della polizia e ne documentasse l’arbitrio sullo svolgimento della nostra legittima e più che tranquilla manifestazione. La cosa si svolgeva così. Alcuni di noi, sparsi qui e là nella piazza, cominciavano a distribuire volantini, altri ad assestare in giro dei cartelli. Questo ci dava modo di iniziare ad attrarre l’attenzione di un discreto numero di passanti e trattenerli a scambiare qualche battuta. La polizia altresì si trovava costretta ad indugiare nel suo intervento, dovendo prima riprendersi dal nostro inaspettato dispiegamento, e poi al momento dell’intimazione del fermo trovarsi alquanto imbarazzata con attorno una schiera di cittadini, fatti attoniti e riluttanti da quel suo procedere contro pacifici e rispettosi dimostranti quali noi eravamo. Poi comunque consentivamo a lasciarci andare ancora una volta alla trafila del fermo che vi ho descritto per le prime manifestazioni, soddisfatti stavolta di avervi potuto dare un minimo inizio. Ma c’era bisogno per noi di non stare più a quel gioco, così tanto scorretto. Troppo comodo e facile era per la polizia di stroncare la manifestazione sul nascere, e per noi poco utile sprecar energie, oltre che tempo e denari, a quel ridotto livello. Decidemmo pertanto di passare ad un terzo stadio di azione, che comportava la renitenza a sottostare volontariamente al fermo ingiustificato – tanto più che nel frattempo eravamo stati assolti nel primo dei processi intentatici dalla polizia.
Cosa dunque faceste? Che cosa vi accadde?
Organizzammo per una stessa giornata, e nel medesimo posto, due manifestazioni separate tra loro di alcune ore. All’inizio del mattino, ancora deserto di passanti, quattro dimostranti solitari si presentarono in piazza senza esporre alcun cartello, subito abbordati da alcuni funzionari della questura da noi preavvertita. All’accenno dei dimostranti ad iniziare la manifestazione, ecco scattare l’immancabile denuncia. La cosa venne a risultare d’una arbitrarietà talmente plateale che – per dirla in breve – quella questura ebbe a ricordarsene. Infatti nel conseguente processo, che fu ovviamente di assoluzione, il giudice non si limitò a smentirne l’operato, ponendone altresì in evidenza il ridicolo. Poche ore dopo, preavvisata la questura che saremmo comunque tornati senza tregua a manifestare nella stessa piazza di prima, un altro gruppo di dimostranti entrò in azione, nell’ora di punta del mezzogiorno, disponendosi tranquillamente a sedere sul piedistallo del monumento al centro della piazza, ed esibendo alcuni cartelli che riproducevano gli articoli della Costituzione sulla libertà di manifestazione. Furono subito attorniati da un drappello di agenti in divisa, a loro volta attorniati da un nugolo di curiosi. Gli agenti, dopo vani tentativi di farli allontanare, vi desistette: la situazione era talmente tranquilla ed attraente, che la folla non se ne dava per inteso. Addirittura una ragazza venne a sedersi accanto ai dimostranti, e contro le intimazioni degli agenti a scostarsi da lì, vi persistette dicendo che non ne vedeva il motivo da pacifica cittadina qual’era e che quei dimostranti le erano simpatici. Così il tempo passava, col comandante delle forze dell’ordine che non sapeva che fare, di fronte all’inatteso rifiuto dei dimostranti al suo ordine di sgombero, a cui essi rispondevano che vi avrebbero senz’altro aderito, non appena fossero stati loro precisati i comprovati motivi richiesti dalla Costituzione. Ricordo ancora l’episodio di una persona che si trovava in prima fila nella folla accalcata intorno, e che all’indirizzo del dimostrante che si era così espresso gridò bravo!, e sporgendo il figlioletto che reggeva sulle spalle al di sopra di quelle degli agenti lo incitò a dire: “Stringi la mano al signore”, tra uno sgorgare di applausi. Venne infine l’ordine superiore del questore di procedere al fermo con lo sgombero forzato. I dimostranti vi si erano ben preparati, sul piano fisico ed anche giuridico: abbandonarsi passivamente all’azione di sgombero non comporta per legge il reato di resistenza a pubblico ufficiale. L’inusitata operazione per i poliziotti viene a farsi alquanto complicata e psicologicamente intrigante. Ad uno ad uno i dimostranti, lasciatisi andar sdraiati inerti a terra, vengono strascinati per decine di metri al furgone di polizia ai lati della piazza, essi tranquilli e gli agenti sbuffanti, ai quali l’atteggiamento pacifico dei dimostranti e il clima altrettanto disteso e interessato che – come fosse uno spettacolo teatrale – s’era instaurato tra le centinaia di cittadini tutt’intorno, non dava appiglio alla loro più familiare e sbrigativa pratica di sgombero a base di manganellate. Da quella dimostrazione che inaugurava il terzo grado di azione con la resistenza passiva al fermo, non avemmo poi più nessun impedimento a manifestare liberamente, perlomeno da parte della questura di Milano dove essa avvenne.
A un certo punto il Gan si scioglie… perché?
Soltanto nominalmente, non nella sostanza. Già durante il periodo delle sue azioni di piazza, il GAN aveva esteso la propria attività ad altri tipi e settori di iniziativa, che non comportavano le troppo usuali complicazioni poliziesche. In tal modo si dava agio ad una più ampia partecipazione ad esse di persone e associazioni simpatizzanti, allargando così l’interesse al lavoro più generale del Movimento Nonviolento, nel cui nome quelle iniziative venivano indette: campi di lavoro-studio-addestramento alla nonviolenza, convegni, seminari sulla nonviolenza, marce, eccetera. Inframmezzate a queste, il GAN proseguiva peraltro nelle sue specifiche manifestazioni di piazza, che per la loro originalità e il positivo costrutto andavano suscitando un vivo interesse in diversi movimenti della contestazione. E al termine della serie di azioni dirette di cui abbiamo prima parlato, il GAN dismise definitivamente il suo nome ma ne mantenne lo spirito e il metodo, trasferendoli poco dopo ad un’altra modalità di azione diretta, quella delle marce antimilitariste, che suscitarono la partecipazione di centinaia di persone e di gruppi i più diversi, sospinti dall’entusiasmo di portarsi ora a più confacenti azioni dirette sullo stile di quelle del GAN, allontanandosi così dal disastroso tipo di manifestazione tendenzialmente turbolenta e rissosa corrente in quegli anni.
Già, le marce antimilitariste…un’altra stagione straordinaria… puoi farcene almeno un cenno? Poiché in questa chiacchierata vi interessa eminentemente parlare dell’azione diretta, non starò a dilungarmi sui tant’altri aspetti di quelle marce, di grande valore educativo: sia nei riguardi delle migliaia di cittadini che le marce (ciascuna della durata dai 10 ai 15 giorni) nei loro vari momenti della giornata ti davano la possibilità di avvicinare, cittadini tra i più diversi che, attratti da quell’originale tipo di manifestazione pacifica e dialogante, vi trovavano ogni agevolezza, anche se dissenzienti dalle idee dei marciatori, di colloquiare con loro in modo semplice e franco, contenti di vedersi inseriti in quell’ambiente civile e democratico in cui poter esprimere come mai pubblicamente le proprie idee, fuori dalle lambiccate astruserie dei loro vertici politici e confessionali; educative le marce per le stesse forze dell’ordine, che dalla disciplina nonviolenta dei marciatori e dal grande interesse e simpatia della popolazione che li attorniava, erano condotte a rimanere sul piano per esse più dignitoso di effettive garanti dell’ordine pubblico democratico che non su quello più abitualmente repressivo; ed educative pur anche le marce per gli stessi accaniti oppositori di destra, ripiegati a riflettere sullo smacco di inerzia e di silenzio cui veniva ad approdare il loro programmato intento di far naufragare le marce attraverso l’arma consueta della vociferante provocazione e dello scontro violento. Vuoi dirci qualcosa di più proprio a quest’ultimo riguardo?
Ma sì, per finire, vi cito uno soltanto tra i moltissimi episodi, avvenuto durante una marcia in quel Friuli-Venezia dove da tempo si distinguevano gruppi di giovani della destra fascista notoriamente dediti alla provocazione ed alla aggressione nei confronti degli avversari di sinistra. Al termine della camminata giornaliera di una ventina di chilometri i marciatori si erano seduti compostamente in terra al centro della piazza principale di Codroipo, in attesa di iniziare il loro consueto comizio-dibattito con la popolazione. A un lato della piazza, affollata di paesani, vi era già ad accoglierli un folto manipolo di baldi fascisti, e ingenti forze dell’ordine attruppate al lato diametralmente opposto. In questo spazio della piazza così sgombro, i fascisti ebbero campo e agio di esibirsi a lungo contro i marciatori con urla, insulti, minacce, lancio di uova e ortaggi. Insulti e minacce venivano tranquillamente ricambiati dai marciatori con ampi sorrisi, e i pomodori accolti e perfino sollecitati con applausi, così ristoratori com’erano della sete patita nella lunga camminata della giornata. Di più, i marciatori invitavano civilmente i fascisti schiamazzanti a prendere la parola all’altoparlante della marcia, dove potevano più distintamente esprimere al meglio e quanto volevano le ragioni del loro dissenso. Ma, poverelli, educati com’erano a poco più che alla gazzarra e alla rissa, non seppero fare null’altro che continuare a prodursi in quella loro penosa esibizione, sempre speranzosi di farne sprigionare in qualche marciatore anche soltanto un guizzo esasperato che accennasse ad un gesto di sfida, con finalmente l’atteso pretesto di scatenarsi al loro beneamato scontro violento. La gazzarra fascista incalzava da oltre mezz’ora, con le forze dell’ordine sempre immobili all’estremità della piazza – i loro comandanti occupati a scambiare gioviali battute con gli stessi fascisti tra i quali si erano amichevolmente ritrovati fin dall’inizio. Ma all’opposto di quanto sperato, l’intera indecorosa provocazione venne alfine a miseramente sgonfiarsi. In un momento di particolare tensione, il coordinatore della marcia riuscì a farsi sentire in tutta la piazza parlando scanditamente dal proprio altoparlante. Disse prima di voler tralasciare il fatto delle forze dell’ordine lì immobili a non bloccare com’era loro dovere la chiassata fascista, che comunque per quanto fastidiosa poco caleva alla tenuta pacifica dei marciatori; poi – rivolto particolarmente alla folla di cittadini che attentamente continuavano a sostare agli angoli della piazza – li invitò a ben osservare peraltro come l’assurda disposizione dei poliziotti schierati alle spalle dei marciatori lasciava completamente libero il campo ai fascisti di far precipitare la situazione da un momento all’altro verso un possibile tafferuglio da cui anche un parapiglia generale. Talmente plateale venne a risultare la tolleranza e quasi la compiacenza poliziesca alla provocazione in corso, che il comandante degli agenti dovette alfine risolversi a farli schierare di fronte al gruppo dei fascisti – che si trovarono ridotti a zittirsi e a rodersi in un ghetto di sovrana inettitudine. Prese quindi avvio senza più alcun disturbo il comizio-dibattito, con un concorso eccezionale di pubblico. È tempo veramente di concludere, non vi pare? A voi di aggiungere un qualche altro possibile capitolo all’esperienza del GAN, che, persuasi come siete della sua attuale validità, vi interessa riproporla anche alla approfondita considerazione dei presenti movimenti della contestazione globale, impegnati nella possibile attuazione di una società un po’ più umana e civile, più di pace, di nonviolenza.
(Intervista a cura di Pasquale Pugliese e Luca Giusti) http://nonviolenti.org/cms/index.php?page=an-luglio-2004#b

martedì 15 novembre 2011

Il Ministero della Difesa a un generale?

La guerra ridotta a mera "tecnica"

Si parla insistentemente di un generale al Ministero della Difesa del nascente governo "tecnico". Sarebbe una scelta fortemente sbagliata, per diversi motivi:

a. in nesun paese democratico i generali sono al governo, perchè l'esercito ha bisogno di una direzione democratica: la guerra non può essere ridotta a mera "tecnica";

b. questo è vero sempre, ma lo è ancora di più in un momento in cui tornano a soffiare pericolosi venti di guerra nucleare e all'ordine del giorno dell'agenda globale bisogna porre con forza il tema del disarmo;

c. un governo che nasce con lo scopo del rigore del bilancio, da realizzare attraverso i tagli strutturali alla spesa pubblica, ha la necessità di compiere tagli drastici anche alle spese militari (che valgono 4 volte le spese per l'Università) e di rinunciare a folli programmi di armamenti (131 cacciabombardieri nucleari): un generale può tagliare se stesso?;

d. la difesa della Patria è concetto molto più ampio di quello di "difesa militare", perchè la Patria non si "difende" solo attraverso la "tecnica" della guerra, "mezzo" ripudiato dalla Costituzione, ma anche (e, secondo me, sopratutto) attraverso la "tecnica" della "difesa civile non armata e nonviolenta", la quale "concorre, in alternativa al servizio mlitare, alla difesa della patria con mezzi e attività non militari", come recita la legge della Repibblica istitutiva del Servizio Civile Nazionale (n.64/2001). Se non si tiene conto di questo bisogna ribattezzare, coerentemente, il Ministero della Difesa in Ministero della Guerra;

e. dunque, se proprio è necessario un ministro "tecnico" esperto di metodi di difesa, per tutte queste ragioni, è il momento di scegliere un esperto di difesa civile, non armata e nonviolenta. Ossia di quel "mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" non ripudiato dalla Costituzione. Se non ora quando?

sabato 5 novembre 2011


I venti di guerra nucleare che hanno ricominciato non a soffiare,
ma ad essere soffiati,
ci rammentano che l'unica speranza per la pace è il disarmo.
Nucleare e non solo.
Ma nessuno ha in agenda il disarmo:
nè i governi nè le opposizioni, nè i movimenti nè i partiti,
nè gli indignati nè i rassegnati.
Se nessuno ha in agenda il disarmo,
mentre la corsa agli armamenti galoppa,
la guerra è già pronta,
consapevolmente, negli arsenali e,
inconsapevolmente, nelle teste di tutti.
L'unica via d'uscita è l'avvio, adesso,
del disarmo nelle teste
che imponga il disarmo degli arsenali in tutte le agende:
politiche, informative, culturali, religiose, associative, movimentiste.
Altrimenti, dopo,
saranno perfettamente inutili le manifestazioni pacifiste
per fermare la catastrofe avviata.
E' necessario agire subito,
ciascuno per come può e per come sa, ovunque:
nei partiti e nelle istituzioni, nei giornali e sul web, a scuola e all'università,
in parrocchia e in moschea, nelle associazioni e nei movimenti.
Già un'altra volta una crisi finanziaria globale si concluse con una guerra.
E fu mondiale, e fu nucleare.
E ancora, di nuovo, si prepara.
Oggi, ora, nessuno è escluso dalla respons/abilità,
ossia dal dover rispondere alla domanda:
tu che cosa hai fatto per evitare che ciò avvenisse?

venerdì 28 ottobre 2011

4 novembre, per la pace e il disarmo



per onorare davvero le vittime di tutte le guerre,
per avviare un nuovo paradigma di civiltà e umanità



ferocia e tecnologia

Le oscene immagini dell'epilogo della guerra in Libia - che sono rimbalzate fino alla nausea nel circo mediatico, banalizzandone lo scempio, mentre sono oscurate regolarmente le "ordinarie" immagini di tutte le guerre, che potrebbero far riflettere sull'oscenità della guerra - fanno scrivere ad Adriano Sofri, su "la Repubblica" del 22 ottobre ("Kalashnikov e telefonini lo scempio del branco"), che "l'uomo è antiquato, o è pronto a ridiventarlo" anzi, continua più avanti, "gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell'Iliade, come nella Bibbia. Sono antichi quanto e più di allora, ma hanno i telefonini". La guerra e la sua persistente legittimazione politica e culturale tengono l'umanità ancorata al peggio di sè. Abbiamo fatto un salto tecnologico, ma nessun salto di civiltà; al contrario l'applicazione della tecnologia alla guerra ha fatto compiere all'umanità un balzo all'indietro. La guerra risponde alla logica del fine da raggingere che giustifica l'impiego di qualunque mezzo. Da quando il mezzo è stato potenziato enormemente dagli sviluppi tecnologici, è esplosa la capacità distruttiva e ridimensionato lo spazio di umanità.

l'imprinting al Novecento
La svolta tecnologica della guerra è avvenuta in quella che ha aperto il Novecento, dandogli l'imprinting: la "Grande guerra", chiamata così non solo per la sua dimensione intercontinentale ma sopratutto per la capacità distruttiva su larga scala messa in campo dagli eserciti. Quella guerra provocò la repentina riconversione delle moderne invenzioni tecniche in strumenti bellici, finalizzati al terrore di massa. Le nuove fabbriche fordiste, chimiche, meccaniche, areonautiche e navali, furono rapidamente convertite al servizio delle armi chimiche, dei carri armati, degli aerei da combattimento, dei sottomarini da guerra, moltiplicando la produzione in tutti i settori. La società e l'economia vennero coinvolte nello sforzo bellico e la guerra diventò, per la prima volta, di massa e totale. Un salto di qualità distruttiva definitivo, con 16 milioni di morti complessivi in quattro anni, che da allora in poi sarebbe stato sempre più amplificato, in un'escalation senza fine di armamenti, morte e distruzione. Fino ai campi di sterminio, fino ad Hiroshima e Nagasaki, e poi all'equilibrio del terrore, al napalm, all'uranio impoverito, alle armi battereologiche, ai cacciabombardieri nucleari, ai droni telecomandati...In un vortice di violenza, presente sia quando le armi iper-tecnologiche vengono usate ai quattro angoli del pianeta, sia quando si accumulano e praparano le guerre, sottraendo ingenti risorse alle spese sociali e colonizzando la cultura diffusa che non pre/vede e, quindi, rende possibili le alternative.

uomini nel fango
E l'umanità? Mentre si fanno strada le armi di distruzione di massa, nella "Grande guerra" l'umanità è rintanata nelle trincee contrapposte, tra topi, cadaveri, neve e fango, dove sopravvivono e muoiono i giovani e giovanissimi coscritti (dello "stesso medesimo umore, ma la divisa di un altro colore", cantava De Andrè), agli ordini di ufficiali spesso esaltati. "Uomini contro", come li definì il celebre film di Francesco Rosi, che, qualche volta, si riconobbero nella loro rispettiva umanità e decisero di affermarla, disobbedendo agli ordini, rifiutando di sparare. Lo racconta, tra gli altri, Emilio Lussu in "Un anno sull'altipiano" (libro da cui fu tratto il film di Rosi):
"Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, cosi viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!... Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffe', proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. (...)Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volonta', mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo!"

militarizzazione di una generazione
Ma queste esitazioni dove emergeva l'umanità vennero severamente punite. Le renitenze e le diserzioni per non andare a morire nelle trincee d'Europa, gli ammutinamenti e le insubordinazioni di massa dei soldati sfiniti, le automutilazioni per trovare un temporaneo riparo nelle retrovie, le tregue spontanee dal basso - come la "piccola pace nella Grande guerra" che fu realizzata naturalmente dai soldati lungo tutto il fronte occidentale, per alcuni giorni, intorno al Natale del 1914, con l'intonazione di canti natalizi di pace nelle diverse lingue e scambi di poveri doni, incontrandosi nella terra di nessuno tra le due trincee (cfr Michael Jurgs "La piccola pace nella Grande guerra. Fronte occidentale senza armi 1914: un Natale senza armi") – furono disubbidienze e obiezioni popolari alla logica della guerra. Per questo, orrore nell'orrore, nella "Grande guerra" si applicò per la prima volta su amplissima scala anche la decimazione, all'interno dei rispettivi fronti, di coloro che esitavano a dimenticare la propria umanità per diventare cieche e sorde macchine di morte. Intanto, la propaganda, condotta per la prima volta in maniera massificata sul "fronte interno" di ciascuno Stato, giustificava tutto ciò per i superiori interessi nazionalistici.
In Europa una generazione subì un processo di militarizzazione forzata e ideologica. La conseguenza principale saranno i fascismi e il nazismo che condurranno il mondo ad una nuova, ed ancora più spaventosa, catastrofe mondiale.

cambiare paradigma culturale
Oggi, nonostante il passaggio di millennio, siamo ancora pienamente dentro quel Novecento, inaugurato e connotato definitivamente dalla Grande guerra; dentro al paradigma del fine che giustifica mezzi, sempre più scientificamente distruttivi. Nonostante la fine di due guerrre mondiali, la conclusione della "Guerra fredda", il crollo dei regimi totalitari, nonostante tutto ciò, le spese militari - per l'acquisto, il mantenimento e l'uso di ipertecnologie di morte – sono avviluppate in una escalation continua, su scala planetaria e nazionale, che non ha eguali in nessuna epoca storica. Il riarmo è in continua ascesa, tanto sul piano specificamente bellico quanto sui piani politico e culturale. Non a caso il nostro Paese è impegnato, consecutivamente da vent'anni, in guerre su molti fronti internazionali, chiamate "missioni di pace" nella "neolingua" orwelliana comunemente usata per aggirare la Costituzione, nella quale i padri costituenti avevano usato coscientemente la forza del verbo "ripudiare" proprio e solo in riferimento all'oscenità della guerra, in quanto "mezzo" per la risoluzione dei conflitti.
Siamo talmente dentro al tragico Novecento che - piuttosto che puntare sul disarmo militare e sulla messa a punto e sperimentazione di "mezzi" alternativi alla guerra per la "risoluzione delle controversie internazionali", proiettandoci così in un'altro paradigma culturale e politico, quello del fine che si realizza già nel mezzo che si usa, come indicato dalla Costituzione - si continua a "festeggiare" il 4 novembre, la fine della "Grande guerra" come "Festa della Forze Armate", ossia si festeggia proprio il "mezzo" che ci lega irrimediabilmente alla guerra.

un 4 novembre per il disarmo

Il ricordo e il lutto per tutte le vittime delle guerre meritano un giorno di memoria e di raccoglimento, non di festa. Un modo affinchè il loro sacrificio sia di vero monito alle nuove generazioni è dedicare quel giorno alla riflessione sulla tragedia di tutte le guerre, all'impegno per il disarmo e alla promozione delle alternative possibili. Fra qualche anno saranno cento gli anni che ci separano dall'avvio della "Grande guerra": se nel frattempo saremo riusciti a trasformare il 4 novembre in una giornata dedicata alla pace ed al disarmo, piuttosto che all'esercito, sarebbe un piccolo, ma importante, segnale che – nonostante tutto - il secolo delle guerre sta finalmente passando. E che stiamo cominciando a costruire, almeno in Italia, un cambio di paradigma culturale per un salto di civiltà e di umanità.

Pasquale Pugliese
segreteria nazionale del
Movimento Nonviolento

lunedì 17 ottobre 2011

Breve lettera ad un amico del blocco nero. Mio avversario



Amico del blocco nero, hai mai sentito parlare di Paulo Freire?
E' un pedagogista brasiliano che ha sempre lottato per la liberazione sociale e politica del suo popolo, che nella "Pedagogia degli oppressi" scrive – cito a memoria – che la più profonda oppressione da cui un oppresso si deve liberare, attraverso il processo di coscientizzazione, è quella di pensare i pensieri del suo oppressore.
Siamo ancora qui.
Quando usi la violenza dentro le manifestazioni puoi anche mettere a ferro e fuoco una città, fare terreno bruciato intorno a te, "conquistare" una piazza per qualche ora, ma hai irrimediabilmente perso. E' il sistema contro il quale immagini di lottare che ha vinto su tutti i "fronti", reali e simbolici, a cominciare da quello più importante di aver potuto trasformare le questioni politiche in questione di ordine pubblico, cioè nel suo ordine.
A quel sistema che considera la guerra come la continuazione della politica con altri mezzi, hai offerto la possibilità di farla anche in casa. A quel governo che taglia tutti i servizi pubblici tranne quelli militari, che anzi aumenta inesorabilmente, hai proposto il conflitto proprio sul piano militare, il suo preferito. A quel circo medatico, servo del potere economico e politico, hai consentito di annullare tutte le ragioni politiche della lotta e di rappresentare sia te, che altre centinaia di migliaia di persone in piazza insieme a te, come criminali fuori dal tempo e dalla realtà.
Al contrario, a molta gente comune - le persone in carne ed ossa che vivono sulla propria pelle la precarietà quotidiana - che aveva simpatia per questo nuovo movimento di lotta che parte propio dai suoi bisogni, che è andata a votare in massa nei referendum antinucleare e per i beni comuni, hai fatto paura e hai fornito l'alibi per rinchiudersi nuovamente in casa e non scendere, forse, più in piazza. E magari rinforzare il potere di chi oggi, grazie a te, fa la voce grossa e le leggi speciali contro i movimenti.
Oggi più che mai la violenza, anche quando sembra rivoluzionaria, è semplicemente reazionaria. Perchè fa il gioco della reazione e, usandone i suoi mezzi, le fornisce alimento, espansione e giustificazione. Immagino che tu pensi di cambiare il potere ed invece il potere ha cambiato te, facendoti diventare – nel profondo – come lui. Facendoti accettare e legittimare la tua violenza, comunque da apprendista, hai finito per legittimare ancora di più la sua, di professionista e monopolista.
Cui prodest? A chi giova?
Non a te, non a noi, non a chi lotta per il cambiamento, non ai disperati della terra e ai precari e agli indignati d'Italia. Ma stabilizza e rinforza straordinariamente il dominio di chi tiene oppressi tutti noi e indebolisce drammaticamente chi gli si oppone.
Per questo, amico, sei mio avversario!
E non parteciperò ad alcuna manifestazione in cui sarà annunciata la tua presenza. Nè ti vorrò nelle mie. Almeno finchè non cambierai radicalmente i tuoi mezzi di lotta, da violenti in nonviolenti, provando a trasformarti, finalmente - attraverso il tuo personale processo di coscientizzazione - da reazionario in rivoluzionario.

sabato 1 ottobre 2011

Dalla Marcia della pace al 2 ottobre, Giornata internazionale della nonviolenza



L'impegno per il disarmo continua


la Marcia del sale e la Marcia della pace
Il 2 ottobre, Giornata internazionale della nonviolenza, si ricorda il compleanno di Mohandas K. Gandhi, il fondatore della nonviolenza moderna, ossia della nonviolenza come metodo rivoluzionario di azione politica. Uno degli strumenti nonviolenti più importanti sperimentati da Gandhi furono le marce, svolte sia in Sudafrica che in India, fino alla più importante e decisiva "Marcia del sale", che segnò il punto di svolta nella lotta per l'auto-governo del popolo indiano.
Le marce furono poi riprese in Occidente, negli USA dal movimento per i diritti civili guidato da Martin Luther King, in Inghilterra dal movimento antinucleare guidato da Bertand Russel, in Italia dal movimento per la pace guidato da Aldo Capitini. Sulle orme di Capitini, lo scorso 25 settembre abbiamo marciato ancora da Perugia ad Assisi, cinquanta anni dopo quella prima volta che fu definita dal lungimirante Pier Paolo Pasolini "il fenomeno politico più importante dell'anno, una specie di riproposta modernissima del CLN".
Capitini, a commento della Marcia del 1961, scrisse "una marcia non è fine a se stessa, continua negli animi, produce onde che vanno lontano, fa sorgere problemi, orientamenti, attività". Cinquanta anni dopo, Mao Valpiana presidente del Movimento Movimento, a conclusione della "Marcia della pace e la fratellanza dei popoli" dalla Rocca di Assisi, evocando le parole di Capitini, ha ricordato: "la vera marcia, lo sappiamo, comincerà questa sera, quando ognuno di noi tornerà nella propria casa con l'impegno di realizzare il programma politico nonviolento: pace e fratellanza. Per cominciare dobbiamo partire da noi stessi, ognuno deve fare il proprio disarmo. Un disarmo unilaterale, un disarmo culturale. Fare cadere i muri dentro le nostre teste. Spezzare il proprio fucile. Non aspettiamo che siano gli altri a disarmare, incominciamo noi!"

ancora in marcia per il disarmo
In oltre duecentomila abbiamo marciato da Perugia ad Assisi, provenienti da tanti luoghi geografici, culturali e politici in rappresentanza di quell'Italia pulita e onesta, che c'è a dispetto della sua triste rappresentazione governativa. E' la stessa Italia che si è manifestata in tutta la sua forza nei referendum per i beni comuni della scorsa primavera. Questa Italia ha coperto a piedi i 25 chilometri di distanza tra i Giardini del Frontone di Perugia e la Rocca di Assisi manifestando una consapevolezza nuova: la difesa dei beni comuni e la difesa della pace sono una cosa sola! Non solo perchè la pace è il fondamentale bene comune, ma anche perchè si colpiscono con la finanziaria i principali presìdi dei legami comunitari e si salvaguardano solo i presìdi della guerra: gli armamenti e la loro intoccabile casta di sacerdoti.
Di fronte ad una crisi economica e finanziaria che sta dando al governo il pretesto per generare un massacro sociale senza precedenti, travolgendo i diritti costituzionali al lavoro, alla protezione sociale, alla salute, all'istruzione e alla cultura, principali beni comuni, il popolo in marcia per la pace ha affermato coralmente che la crisi si risolve attraverso il disarmo, il taglio drastico delle spese militari, il ripudio della guerra e della sua preparazione, cioè ribadendo i principi fondamentali della Costituzione. Dare un taglio netto alle spese militari per non tagliare i diritti sociali. Ripudiare la guerra per non ripudiare la Costituzione.
Ma i principi non basta affermarli, vanno declinati in una consapevole ed efficace azione culturale e politica. La forza delle marce gandhiane è stata la capacità di trasformare i partecipanti in attivisti della nonviolenza che puntavano a realizzare gli obiettivi specifici per i quali avevano marciato insieme. Anche questo ci ricorda il 2 ottobre: non si può essere marciatori per un giorno, ma bisogna portare nelle nostre associazioni, nei nostri partiti, nelle nostre parrocchie, nei nostri enti locali, nelle nostre università, nelle nostre scuole l'energia raccolta alla Marcia e trasformarla in azione politica e collettiva per il disarmo. Una rivoluzione costituzionale e nonviolenta che apre e principia tutte le altre. Se non ora quando?

lunedì 26 settembre 2011

Infinita e creativa nel suo sviluppo: la proposta nonviolenta di Capitini


(pubblicato sul numero agosto settembre 2011 di Azione nonviolenta)


Di cosa parliamo quando diciamo nonviolenza?
Piuttosto che darne una definizione teorica, ci può aiutare nella risposta lo stesso Aldo Capitini che, nel suo libro Le tecniche della nonviolenza1, dice “la nonviolenza è affidata ad un metodo che è aperto ed è sperimentale”.1. Un breve approfondimento intorno alle caratteristiche di questo “affidamento” ci introduce alla nonviolenza e alla stessa figura del fondatore del Movimento Nonviolento.

Un metodo aperto e sperimentale
La nonviolenza è affidata ad un metodo di azione che si sviluppa su vari livelli – da quello educativo a quello sociale, da quello personale a quello politico – non come semplice insieme di tecniche, ma come reciproca aggiunta tra prassi e teoria, tra azione e pensiero. Al contrario delle costruzioni ideologiche, la nonviolenza non è prima teorizzata e poi praticata, ma è prima vissuta come strumento di azione e di cambiamento di singoli e popoli; poi studiata, approfondita e di nuovo sperimentata nell'azione, dove torna rinforzata da quegli studi e approfondimenti teorici…L'insieme di questa elaborazione collettiva ne costituisce il metodo.
Che è quindi metodo aperto perché nessuno è custode di una dottrina, di un corpus di norme definitivo, di un “ismo”, ma ciascuno può apportare nuove aggiunte sia sul piano del pensiero che dell’azione, com'è avvenuto sia durante il '900 che nell'avvio di questo nuovo secolo, attraverso la pratica della nonviolenza sviluppata all'interno di ambiti culturali e religiosi differenti. Un metodo che può essere usato da tutti perché non si fonda sulla forza fisica o sugli armamenti, ma sulla forza d'animo.2.
Ed è un metodo sperimentale, una approssimazione continua per prove ed errori, per le ragioni che lasciamo dire allo stesso Capitini: “Non c'è bisogno di dire che la nonviolenza è positiva e non negativa (non-violenza = amore, cioè apertura affettuosa alla esistenza, libertà, sviluppo di ogni essere), è attiva, lottatrice e richiede coraggio, è creativa e trova sempre nuovi modi di attuarsi, è inesauribile e non può essere attuata perfettamente, ma in continuo avvicinamento; e perciò ci diciamo “amici della nonviolenza” più che senz'altro nonviolenti”.3 Ossia, appunto, sperimentatori di nonviolenza.

L'aggiunta di Aldo, tra azione e pensiero
Aldo Capitini è colui che, tra gli sperimentatori, ha dato alla nonviolenza italiana il maggior contributo di chiarificazione filosofica e di sviluppo organizzativo - creandone in qualche modo anche il lessico - all’interno di una produzione vastissima che intreccia elementi filosofici, politici, religiosi e pedagogici. Nella quale proviamo qui a mettere a fuoco, brevemente, solo alcune tracce tematiche, legate a tappe significative della sua vita, che sono di orientamento nel nostro agire. Oggi più che mai.
Perché, inoltre, è opportuno legare i nuclei tematici capitiniani ad alcuni momenti della vita concreta di Capitini lo spiega il filosofo Piergiorgio Giacchè che, nel presentare la figura dell'ideatore della Marcia della Pace, premette queste parole:
“Azione e pensiero. Quando si racconta la vita di qualcuno è più corretto invertire la sequenza mazziniana. E non perché le azioni avvengano prima, avventate e irriflesse, ma perché avvengono per davvero, e perché – almeno nella vita ordinaria di poche persone straordinarie – sono esse stesse il pensiero che si concepisce come un atto. Poche sono le persone che hanno una vita così coerente da far seguire le parole ai fatti, o meglio da combinare le une e gli altri nei propri atti. Nel loro caso la vita equivale davvero alle opere, che non si distinguono dal loro primo significato di un effettivo e continuo operare.”4
Questo è appunto il caso di Aldo Capitini.

La persuasione, ossia il primato della coscienza
Capitini nasce nel 1899 a Perugia (la generazione di Gobetti e dei Rosselli, scriverà), figlio del campanaro del Municipio, e cresce in un’abitazione ricavata all’interno della torre campanaria del capoluogo umbro.5. Dovendo presto trovare un’occupazione studia per diventare ragioniere, ma ciò non lo soddisfa e due anni di studio “matto e disperatissimo” gli consentiranno di vincere una borsa di studio all’Università Normale di Pisa. Qui si distingue per l’intelligenza vivace al punto che, una volta laureato e preso il diploma di perfezionamento, il direttore Giovanni Gentile – ministro dell'istruzione di Mussolini - gli offre il posto di segretario. Cosa che a trent’anni risolve i suoi problemi economici e gli consente di diventare assistente volontario del critico letterario Attilio Momigliano.
Nel ‘32 a causa del suo sodalizio con Claudio Baglietto – giovane normalista che, ottenuta una borsa di studio per studiare a Friburgo con Heidegger, si dichiara obiettore di coscienza e non rientra più in Italia – Gentile gli chiede di fare un atto di adesione formale al regime prendendo la tessera del partito fascista.
Capitini, che proprio alla Normale aveva approfondito quella personale riflessione che lo porta ad una sempre più chiara e nitida persuasione antifascista, fa la sua obiezione di coscienza: rifiuta la tessera e nel gennaio del ‘33 viene licenziato.6 Per cui è costretto a tornare dai genitori nella torre campanaria di Perugia. La quale diverrà in breve tempo il punto d’incontro di una nuova generazione di antifascisti, molti dei quali prenderanno poi parte alla resistenza nelle brigate partigiane. Capitini mantiene una posizione antifascista non armata che lo porterà prima a doversi nascondere nella campagna umbra e poi, per due volte, nelle carceri fasciste (nel ’42 per quattro mesi, a Firenze; nel '43 dal maggio al 25 luglio, a Perugia).
Questa persuasione intima, che lo orienterà per tutta la vita, gli consente di riconoscere anche negli altri le azioni fondate sul primato della coscienza.
Finita la guerra, nel 1948 diventa il punto di riferimento del giovane ferrarese Pietro Pinna che, avendo deciso di dichiararsi obiettore di coscienza all'obbligo militare, gli scrive per avere conforto e sostegno nella scelta. Pinna avvia in questo modo il suo personale calvario nelle carceri militari della Patria, sottoposto anche a perizia psichiatrica. Capitini finché la scelta non è compiuta non risponde al giovane Pinna, poi gli sarà a fianco nelle fasi processuali e ne renderà pubblica l'azione solitaria. Il caso di Pinna servirà ad avviare quel dibattito pubblico che, con fasi alte e drammatiche (che vedranno tra gli altri coinvolto anche Lorenzo Milani), sfocerà nella prima legge che riconosce il servizio civile, nel 1972. Pietro Pinna, intanto, sarà co-fondatore del Movimento Nonviolento e della rivista Azione nonviolenta.
Qualche anno più tardi, nel 1952, quando Danilo Dolci, da poco arrivato a Partinico, nella Sicilia occidentale, si stende nel letto dove un bambino è morto di fame e comincia un digiuno ad oltranza contro la povertà, l’unico biglietto che gli arriva proviene da Perugia, ed è firmato Aldo Capitini. Da allora Capitini sostiene e rilancia sul piano nazionale l’opera pedagogica anti-mafia di Dolci, mentre i governi locali e centrali, insieme alla Chiesa, sostenevano che la mafia non esiste e processavano lo stesso Dolci per lo “sciopero alla rovescia”.
Il filo rosso che unisce queste e altre azioni di Aldo Capitini è evidente: assumere una posizione di coscienza - una persuasione - fondata sui valori e mantenerla. Anche da solo contro tutti, affrontandone responsabilmente le conseguenze. Non perché utopista, ma per mettere il proprio peso, piccolo o grande che sia, sul patto giusto della bilancia della storia.

La politica, ossia il primato dei mezzi
Nel paese di Niccolò Macchiavelli, all’interno del quale il fine giustifica sempre i mezzi, Capitini, per primo in Italia, già durante il fascismo coglie la novità rivoluzionaria dell’insegnamento di Gandhi: “il fine sta all’albero come il mezzo sta al seme, tra i due c’è lo stesso inviolabile legame”. I risultati delle nostre azioni non sono nella nostra disponibilità, solo i mezzi che usiamo dipendono direttamente da noi e di questi siamo responsabili.
A partire da questa persuasione, dopo essere stato nel 1937 uno dei fondatori del movimento clandestino del liberalsocialialismo - con il quale lavora alla costruzione di un nuova Italia fondata su “due rivoluzioni invece di una, massimo socialismo e massimo liberalismo” - non ne condivide il suo scioglimento all’interno del nascente Partito d’Azione e non aderisce, rimanendo così isolato ed escluso da Comitato di Liberazione Nazionale e dall'Assemblea Costituente. Ciò non le rende inattivo: mentre con il suo rifiuto svolge una critica severa alla forma-partito, fondata sulla dicotomia mezzo-fine, contemporaneamente apre una prospettiva diversa di azione politica nella quale il fine si realizzi già nel mezzo. Così scrive nel 1949:
“Il partito è il mezzo e il potere è il fine. Ma qui sorgono gravi difficoltà. Può il mezzo essere diverso dal fine? E se il fine è il potere ma esercitato per il bene di tutti, risponde la preparazione che si riceve nel partito, chiusa ed esclusiva, a questo termine, aperto e universale? (…) Noi dobbiamo vedere la cosa da un punto più severo: bisogna fare un lavoro fuori del potere, un decentramento del potere, abituare a vedere il potere diffuso in tante cose fuori dal governo, in tante iniziative, atti, posizioni sentimenti, fondare una prospettiva diversa”.7
A partire da questo personale programma fondativo, Capitini, dopo la guerra, si concentra instancabilmente sulla costruzione di “mezzi” fondati su “una prospettiva diversa” di partecipazione: realizza, subito dopo la liberazione dalla dittatura, i COS, Centri di Orientamento Sociale, il cui motto è il contrario del fascista “obbedire e combattere”, ossia “ascoltare e parlare”; apre i Centri di Orientamento Religioso, comprendendo l’urgenza di una profonda riforma religiosa in Italia; s’impegna nella creazione dell’Associazione per la Difesa e lo Sviluppo della Scuola Pubblica, quando nel Paese non esisteva ancora la scuola media unificata; nel 1952 fonda la Società Vegetariana Italiana, con sede a Perugia che – dopo la sua morte – diventerà l’attuale Associazione vegetariana. Scuote i contrapposti allineamenti politici italiani della guerra fredda ideando e organizzando, con pochi amici, la Marcia Perugia-Assisi del ’61. Fonda, sempre a Perugia, il primo Centro italiano per la nonviolenza, il quale - dopo la Marcia - diventerà il Movimento Nonviolento e nel 1964 la rivista Azione nonviolenta. Nel 1964 avvia anche la pubblicazione del periodico “Il potere è di tutti” che uscirà per 44 numeri fino al 1968, anticipandone il tema centrale: “impostare un'adeguata articolazione della prima fase, quella del potere senza governo, premessa e garanzia che l'eventuale seconda fase sia un potere nuovo “conseguente” alla prima fase...di lavoro educativo, di impostazione di continue solidarietà con altri nella rivoluzione permanente per la democrazia diretta, connessa intimamente con la nonviolenza”.8.

la nonviolenza, ossia il primato dell’azione educativa
Fondata sul primato della coscienza e sul primato dei mezzi, Aldo Capitini ha sperimentato e teorizzato l'azione politica come azione nonviolenta e l’azione nonviolenta come azione educativa, in tutte le fasi della sua vita. Vediamo alcuni passaggi.
Dopo il lavoro di “coscientizzazione” antifascista tra i giovani svolto nel decennio ’33-’43, quando le forze politiche democratiche erano ormai disperse, anche dopo la liberazione dell'Italia centrale, nel '44, Capitini si rende conto che, alla fuoriuscita del Paese dalla dittatura è necessario un diffuso lavoro di formazione alla democrazia. Avvia così i Centri di Orientamento Sociale, come “mezzi” di partecipazione e controllo dal basso e contemporaneamente di educazione degli adulti. Nel COS tutti possono prendere la parola con pari dignità: operai e intellettuali, contadini e amministratori. L’idea è quella di aprire i COS nei quartieri, nelle parrocchie, nelle carceri, nelle scuole, negli istituti psichiatrici. Il primo sorge a Perugia e man mano si diffondono fino a contarne circa quaranta, tra città (Bologna, Firenze, Ferrara) e paesi. Ricorda Capitini:
“al Cos si imparava ad esprimere il proprio pensiero in maniera evidente e semplice, ma s'imparava anche a lasciar parlare gli altri; e in questo modo si svolgeva un collaborante pensiero collettivo...sono stati trattati argomenti delicatissimi, e in riunioni affollatissime e dopo ventidue anni di fascismo. Ma il popolo sapeva che il Cos era diverso, e ne aveva rispetto. Il Cos era uno spazio nonviolento e ragionante”.9.
In ascolto di tutte le posizioni di coscienza e in ricerca di tutte le esperienze di liberazione e
apertura, sui piani religioso, politico ed educativo, Capitini non poteva non incontrare Lorenzo Milani, con il quale dopo lo scambio di diverse lettere ed un paio di incontri a Barbiana con i ragazzi del priore, nasce l’idea di realizzare un “Giornale-Scuola” che esce tra il ’60 e il ’61 per quattro numeri, nei quali si fa educazione popolare. Si affrontano temi rilevanti (i processi di liberazione dei popoli coloniali, l’Algeria, la scuola ecc.) con “link” ai riferimenti geografici, storici, linguistici ecc. Il quarto numero è dedicato alla difesa della Scuola pubblica statale e provoca l’irritazione di don Milani, perciò - complice la mancanza di finanziamenti – l’esperienza si conclude.
Nella situazione internazionale del dopoguerra che vede la “guerra fredda” e la proliferazione nucleare in Europa e la guerra “calda” e per procura nelle periferie dell’Occidente, Capitini si rende conto che l’impegno politico centrale in questo “varco della storia” è la promozione della pace e del disarmo. Ancora una volta a partire da un compito educativo/formativo, che sviluppa attraverso alcune tappe fondamentali:
I. la costituzione del Centro per la Nonviolenza di Perugia, dopo il Convegno internazionale svolto il 30 gennaio 1952 a cui partecipano alcune tra le più importanti personalità pacifiste e nonviolente del tempo;
II. la realizzazione della Marcia per la pace e la fratellanza tra i popoli, da Perugia ad Assisi, del 24 settembre del 1961, con la quale convoca in “assemblea itinerante”, per la prima volta, “il popolo della pace”, quale soggetto storico autonomo dai partiti;
III. immediatamente derivata dalla Marcia è la fondazione del Movimento Nonviolento, che comincia allora il proprio impegno organizzativo per diffondere la nonviolenza sui territori e si preoccuperà di promuovere, tra le altre cose, le Marce successive alla morte di Capitini (www.nonviolenti.org);
IV. Poi, nel 1964, Aldo Capitini fonda la rivista “Azione nonviolenta”, per porre “un centro in questo lavoro” che, come scrive sul primo numero, “sarà informativo, teorico, pratico-formativo...perché la nonviolenza è infinita e creativa nel suo sviluppo” .
Queste iniziative coerenti e concatenate hanno per Capitini una dimensione insieme politica ed educativa, perché centrate sull'apertura alla consapevolezza che è fondamento dell'azione la quale, in quanto nonviolenta, tende a sviluppare nuove persuasioni. Rispetto alla Marcia si domanda:
“come avrei potuto diffondere la notizia che la pace è in pericolo, come avrei potuto destare la consapevolezza della gente più periferica, se non ricorrendo all'aiuto di altri e impostando una manifestazione elementare come è una marcia?...Sapevo bene che gli aiutanti e i partecipanti non sarebbero stati in gran parte persuasi di idee nonviolente; lo sapevo benissimo ma...si presentava l'occasione di mostrare che la nonviolenza è attiva e in avanti, è critica dei mali esistenti, tende a suscitare larghe solidarietà e decise noncollaborazioni, è chiara e razionale nel disegnare le linee di ciò che si deve fare nell'attuale difficile momento.10”
Nell'attuale difficile momento, nel 1961 come nel 2011.

1. Libreria Feltrinelli, Milano, p. 12
2. “Un altro merito del metodo nonviolento è che può essere usato dai deboli, dagli inermi, dalle donne, dai giovanissimi: basta che abbiano un animo coraggioso”, Aldo Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze, p. 408
3. Ibidem p. 407
4. Introduzione a Aldo Capitini, “opposizione e liberazione”, l'ancora del mediterraneo, Napoli, p. 9
5. Guido Calogero scriverà: “Abitava in uno dei palazzi più belli del mondo, perché stava nella soffitta del palazzo comunale di Perugia e dalla finestra del suo studio lo sguardo spaziava sull'Umbria. Ma questo suo studiolo era largo un metro e mezzo per due; e quando lo arrestarono e lo rinchiusero in una cella delle Murate di Firenze, credo che abbia avuto la sensazione di trovarsi una stanza troppo grande" (citato da Capitini in “Antifascismo tra i giovani”, Célébes, Trapani, p. 63)
6. Capitini riporta il breve dialogo che si svolse tra i due: “mi fece chiamare per salutarmi, e mi disse:<>. Non risposi altro che: <>” (in “Antifascismo tra i giovani”, Célébes, Trapani, p. 34
7. Oggi si trova in Aldo Capitini, “Liberalsocialismo”, Edizioni e/o, Roma
8. Aldo Capitini, “Il potere di tutti”, La Nuova Italia, Firenze, p. 87/bis
9. Oggi si trova in “opposizione e liberazione”, cit. p. 104
10.Aldo Capitini, “In camino per la pace”, Einaudi, Torino, pp. 13-14

domenica 11 settembre 2011

Lettera aperta a Marino Sinibaldi, Direttore di Radio3Rai



Gentile Direttore Marino Sinibaldi,

sono un appassionato ascoltatore di Radio3Rai. Anzi, le confesso che la programmazione culturale di questa ottima radio pubblica, insieme alle possibilità di informarsi fornite da internet e dai social network, mi ha aiutato a liberarmi definitivamemnte da quella "ladra di tempo e cattiva maestra" televisione (e, successivamente, di firmare la "dichiarazione di dipendenza" da Radio3 promossa da Alessandro Bergonzoni...).
Sia il mio apparecchio radio di casa che quello in automobile sono costantemente sintonizzati sulle frequenze mhz 98.50 e, compatibilmente con il lavoro e gli altri impegni, seguo le trasmissioni e le dirette della "nostra" Radio. Ne ho apprezzato altresì lo sforzo della Sua direzione per portare il più possibile Radio3 tra la gente con le dirette dai luoghi in cui accadono le cose importanti, oltre i Festival Letteratura di Mantova e Filosofia di Modena-Carpi-Sassuolo, (ero presente alle dirette dal cortile di Palazzo Re Enzo a Bologna il 2 agosto dell'anno scorso e dal Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia il 7 gennaio di quest'anno), e di dedicare l'intera programmazione di alcune giornate ad avvenimenti speciali, come oggi al Decennale dell'11 settembre 2001 e domani all'avvio del nuovo anno scolastico.
Per tutte queste ragioni mi aspettavo una preparazione della "nostra" Radio a seguire, a suo modo, un avvenimento che è, insieme, celebrazione di un importante cinquantenario del nostro Paese ed evento culturale e politico in sè: la Marcia per la pace e la riconciliazione dei popoli che si svolgerà il 25 settembre, da Perugia ad Assisi, nel 50° anniversario di quella voluta, promossa e organizzata da Aldo Capitini nel 1961.
Quella prima Marcia segnò l'ingresso nella storia repubblicana di un nuovo soggetto storico, autonomo dai partiti, il "popolo della pace", per il quale Aldo Capitini (affiancato da Arturo Carlo Jemolo, Guido Piovene, Renato Guttuso ed Ernesto Rossi) lesse dalla Rocca di Assisi la famosa "Mozione del popolo della pace". Quel popolo che, pur con alterne fortune, non sarebbe più uscito dalla scena e, di nuovo, si manifesterà il 25 settembre sulla strada che conduce dai Giardini del Frontone di Perugia alla Rocca di Assisi.
Alla marcia del 1961, che fu marcia di popolo, partecipò il fior fiore dell'intellighenzia italiana. Oltre ai già citati intellettuali, ricordiamo Giovanni Arpino, Walter Binni, Goffredo Fofi, Edmondo Marcucci, Beniamino Segre, Norberto Bobbio, Itallo Calvino, Franco Fortini, Gianni Rodari, Fausto Amodei...Pier Paolo Pasolini, che pure non partecipò, scrisse su "Vie Nuove" del 4 gennaio 1962: "quella Marcia della Pace è stata il fenomeno politico italiano più interessante dell'anno. Una specie di riproposta, modernissima, del CLN". Tutti ne diedero preziose testimonianze scritte, raccolte da Capitini nel volume "In cammino per la pace", edito da Giulio Einaudi nel 1962. E' lo spaccato di un'altra Italia, intellettuale e popolare che, per la prima volta prendeva direttamente la parola sul tema della pace, cosa "troppo importante perchè possa essere lasciata nelle mani dei governanti", come si legge sulla "Mozione del popolo della pace".
La dimensione storica dell'evento, in piena guerra fredda e a poche settimane dalla costruzione del "muro di Berlino", con le sue "onde" che giungono fino a noi attraverso le venti Marce organizzate da allora (le prime a cura del Movimento Nonviolento, anch'esso fondato da Capitini, le successive a cura della Tavola della Pace), e l'urgenza del tema della pace oggi, con il nostro Paese impegnato in "guerre calde" consecutivamente da vent'anni, con la Costituzione italiana che "ripudia la guerra" ma viene invece essa bellamente ripudiata, con la spesa pubblica militare che aumenta inesorabilmente mentre viene drasticamente tagliata la spesa pubblica generale, compresa quella per la cultura...l'insieme di queste dimensioni storica, culturale e politica racchiuse nella marcia Perugia-Assisi del prossimo 25 settembre avrebbero, a mio avviso, meritato un'attenzione da parte della "nostra" Radio di cui non trovo traccia nella programmazione annunciata.
Spero di essere stato distratto.

Cordiali saluti
Reggio Emilia, 11 settembre 2011

Pasquale Pugliese
segreteria nazionale del
Movimento Nonviolento

lunedì 29 agosto 2011

Lettera aperta a Susanna Camusso, Segretaria generale della CGIL


Il Movimento Nonviolento scrive alla CGIL
su sciopero, guerra e spese militari.


Gentile Susanna Camusso,

mentre prepariamo la “Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli”, il 25 settembre da Perugia ad Assisi nel cinquantesimo anniversario della prima del 1961, noi che ci diciamo "amici della nonviolenza", secondo la definizione che volle dare Aldo Capitini, fondatore del nostro Movimento Nonviolento, saremo nelle piazze d'Italia anche il 6 settembre insieme ai lavoratori italiani.

Saremo in piazza con voi per sottolineare con forza che, mentre con il pretesto della crisi internazionale si taglia tutto ciò che ancora rimanda ad un'idea di Stato come patto solidale tra i cittadini voluto dalla Costituzione, non si opera nessun taglio alle spese militari che sono invece già di per sè una rottura in atto e permanente della stessa Costituzione, in quanto preparano lo “strumento guerra” che essa ripudia, sottraendo preziose e ingenti risorse al bilancio dello Stato.

Mentre l’economia del nostro Paese scivola sempre più in basso, è invece stabilmente all'ottavo posto tra i paesi che spendono di più per spesa pubblica militare, come ci ricorda tutti gli anni l'autorevole osservatorio del Sipri di Stoccolma. E mantiene questa posizione non solo non operando tagli in questo settore, ma aumentando – anno dopo anno – l'investimento pubblico nelle spese per la guerra. La cifra astronomica di 25 miliardi di euro, ormai raggiunta dalla spesa bellica, è il valore di un'intera finanziaria di lacrime e sangue per i cittadini e i ceti popolari!

Il Parlamento ha recentemente confermato l'acquisto di 131 cacciabombardieri nucleari F35, per un costo complessivo di ulteriori 16 miliardi di euro, senza considerare le successive spese di manutenzione. Con il costo di uno solo di questi orrendi mostri, portatori di morte, si possono aprire 300 asili nido o pagare l'indennità di disoccupazione per 15.000 cassintegrati.

Se poi si vanno a vedere gli impegni per i programmi pluriennali dei sistemi d’arma, si scopre che dal 2011 al 2019, per nuovi bombardieri, elicotteri, portaerei, fregate, sommergibili e veicoli blindati, il Governo ha impegnato una spesa di 46 miliardi e mezzo, ossia l'equivalente di un’altra enorme finanziaria!

Noi del Movimento Nonviolento saremo a fianco della CGIL nello sciopero generale ed invitiamo Lei ad essere al nostro fianco alla Marcia Perugia-Assisi, ma chiediamo anche che il più grande sindacato italiano, faccia suo l'appello del Presidente Pertini: "si svuotino gli arsenali, strumenti di morte, e si colmino i granai, strumenti di vita". Chiediamo che nelle piazze dei lavoratori si dica, chiaro e forte, che il primo principio di equità, di civiltà e di costituzionalità è il taglio drastico delle spese militari e la loro riconversione in spese civili e sociali.

Come insegnava don Lorenzo Milani ai ragazzi di Barbiana, due sono le leve per cambiare le leggi ingiuste degli uomini, il voto e lo sciopero. E poiché in questo momento ci è impedito lo strumento democratico del voto, condividiamo la scelta del più grande sindacato italiano di usare il più importante strumento di lotta nonviolenta di cui il movimento sindacale è custode: lo sciopero generale.


MOVIMENTO NONVIOLENTO

Mao Valpiana, presidente

Raffaella Mendolia, segretaria

Pasquale Pugliese, segretario

Riuscirà il mio sindacato a dire che...?


La CGIL ha proclamato lo sciopero generale contro la manovra finanziaria per il 6 settembre.
Bene!

Riuscirà, questa volta, il mio sindacato a dire che un cacciabombardiere nucleare costa quanto 300 asili nido o quanto l'indennità di disoccupazione di 15.000 precari?
E l'Italia ne ha prenotati 131!

Riuscirà, questa volta, il mio sindacato a dire che l'Italia è declassata dalle agenzie internazionali di rating ma è stabilmente all'ottavo posto mondiale per la spesa pubblica militare?
25 miiardi di euro!

Riuscirà, ancora, a dire che mentre il governo umilia e depreda il lavoro su cui si fonda la Repubblica la sola voce di spesa in continua e costante ascesa è l'unica ripudiata dalla Costituzione.
Quella per la guerra!

Riuscirà, insomma, il mio sindacato a dire che la prima misura di equità e di civiltà è il taglio drastico delle spese militari e la loro riconversione in spese civili e sociali?

giovedì 18 agosto 2011

Verso la marcia Perugia-Assisi

Sette domande a Pasquale Pugliese


intervista pubblicata su:

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 651 del 18 agosto 2011
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it


- "La nonviolenza e' in cammino": Quale e' stato il significato piu' rilevante della marcia Perugia-Assisi in questi cinquanta anni?

- Pasquale Pugliese: La "Marcia della pace per la riconciliazione dei popoli" voluta da Aldo Capitini nel 1961 ha rappresentato, per il nostro Paese, l'ingresso sulla scena politica e culturale di un nuovo "soggetto della storia" (convocato da "un nucleo indipendente e pacifista integrale"), ossia di quel "popolo della pace" a nome del quale Capitini lesse, dalla Rocca di Assisi, la "mozione del popolo della pace". E' merito del Movimento Nonviolento - anch'esso voluto da Capitini come esisto politico della Marcia - aver proposto di marciare ancora, nel 1978 decennale della morte del fondatore, da Perugia ad Assisi. E così, grazie a quella "seconda", dare l'avvio al ciclo delle Marce come appuntamento centrale e periodico del "popolo della pace".
La capacità di attrazione politica e simbolica di questa azione corale, che si collega alla grandi marce nonviolente della storia a cominciare dalla gandhiana "Marcia del sale", e' man mano cresciuta nell'allargamento della partecipazione e nella costruzione della soggettività autonoma dai partiti del "popolo della pace" ma, a mio parere, ha progressivamente perso in nitidezza nell'indicarne gli obiettivi politici. Al punto che lo stesso Movimento Nonviolento (che dopo la "terza" del 1985 non aveva più svolto un ruolo attivo di promozione dell'evento) ha ritenuto di convocare una "specifica" Marcia il 24 settembre del 2000, da Perugia ad Assisi, per ribadire il principio "Mai piu' eserciti e guerre".
La Marcia del cinquantesimo anniversario, copromossa dalla Tavola della Pace e dal Movimento Nonviolento, dovrebbe recuperare la lucidita' e la lungimiranza della visione capitiniana, esitando una nuova "mozione del popolo della pace" che, come la prima, affermi dei "principi" e promuova delle "applicazioni concrete" che impegnino tutti i partecipanti.
*
- "La nonviolenza e' in cammino": E cosa caratterizzerà maggiormente la marcia che si terrà il 25 settembre di quest'anno?

- Pasquale Pugliese: Scriveva Aldo Capitini nel 1962, ripensando un anno dopo all'esperienza della Marcia della pace, che "una marcia non e' fine a se stessa; continua negli animi, produce onde che vanno lontano, fa sorgere problemi, orientamenti, attività".
Attualmente ci sono due documenti di convocazione della Marcia della pace: uno sottoscritto dalla Tavola della Pace e dal Movimento Nonviolento che richiama l'impegno dei giovani alla partecipazione, in questo momento di crisi dei valori e della politica, per essere "parte della soluzione"; un altro del Movimento fondato da Capitini che mette a fuoco come in questa fase della nostra storia sia in atto la violenta rottura del Patto di cittadinanza che lega gli italiani, che viene "ripudiato" attraverso la costante preparazione e l'uso continuo della guerra come "mezzo di risoluzione delle controversie internazionali", mentre la Costituzione sancisce, nell'undicesimo dei dodici articoli che la fondano, che e' proprio il mezzo della guerra a dover essere "ripudiato".
Questa violazione e ribaltamento della lettera e dello spirito della Costituzione, oltre ad aver trascinato l'Italia in guerra oggi in Libia ed Afghanistan, ma prima in Iraq, nei Balcani, in Somalia... - con la complicità di tutte le forze parlamentari -, costituisce anche la maggiore fonte di sperpero di risorse pubbliche inghiottite dalla più alta, e sempre crescente, voce di spesa del bilancio dello Stato, quella militare. Al punto che l'Italia, pur declassata dalle agenzie internazionali "cani da guardia" della speculazione finanziaria, e' stabilmente tra i primi dieci paesi al mondo per spesa bellica. Al punto che, finanziaria dopo finanziaria, fasce sempre maggiori di cittadini italiani scivolano nella povertà, ma i governi acquistano fiammanti cacciabombardieri capaci di trasportare le armi nucleari. E uno solo di questi mostri, portatori di morte, costa quanto trecento asili nido!
Legare la rottura bellica della Costituzione con l'assurdità delle spese militari; collegare lo sperpero di risorse pubbliche nei sistemi d'arma, nelle missioni di guerra, nella "casta" dei militari, con la condizione di vita di milioni di persone a cui vengono imposti sacrifici sempre piu' pesanti; connettere questi temi con la nuova capacità di mobilitazione dal basso dei cittadini manifestata nella "primavera italiana", sono "i problemi, gli orientamenti, le attività" che dovremmo far sorgere dalla Marcia della pace del prossimo 25 settembre.
I segnali sono incoraggianti perché sta crescendo la mobilitazione popolare in preparazione della Perugia-Assisi: sono stati costituiti molti comitati promotori locali e si stanno svolgendo tante iniziative territoriali in tutta la penisola. Se dovunque gli amici della nonviolenza presenti portano un contributo di chiarezza e d'impegno, questi temi possono davvero diventarne gli elementi caratterizzanti.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Quale e' lo "stato dell'arte" della nonviolenza oggi in Italia?

- Pasquale Pugliese: A me pare che vi sia un aumento della nonviolenza che viene dal basso a contrastare un aumento della violenza che viene dall'alto.
La violenza che viene dall'alto e' crescente: c'e' la guerra che crea stragi tra chi riceve le bombe e vittime (dal punto di vista etico, civile, legale ed economico) tra chi le manda; c'e' un governo razzista e liberticida dei diritti dei migranti; c'e' un modello di sviluppo devastante per l'ecosistema; una finanza internazionale che "obbliga" a ricette economiche ultraliberiste; ci sono interi pezzi del nostro territorio governati direttamente dalle mafie... e si potrebbe continuare a lungo.
E tuttavia, facendo un bilancio sullo "stato dell'arte" della nonviolenza, poco tempo fa, abbiamo condiviso un documento del Movimento Nonviolento che ricorda come "nei dieci anni che ci separano dal G8 di Genova c'e' stata un'importante avanzata della nonviolenza in Italia, sotto molti punti di vista: dalla rinuncia alla reazione violenta di fronte al massacro delle persone e della democrazia avvenuto in quei tragici giorni, alla lenta riorganizzazione di un movimento dal basso e sui territori capace di esercitare il 'potere di tutti; dalla messa in campo di modalità creative di comunicazione nonviolenta per i referendum, alla importante lotta esemplare e di popolo della Val di Susa". Nel documento, articolato in dieci punti, al quale rimando, questi e altri passaggi sono analizzati uno per uno.
Mi sembra opportuno riportare qui l'ultimo punto, il decimo, che collega queste lotte alla prossima Marcia della pace: "Come accaduto dopo il G8 di Genova, i movimenti sono chiamati oggi a dare una nuova prova di maturità e contemporaneamente a compiere un altro passo nel processo di nuova Liberazione popolare da questo regime in putrefazione. C'e' già un appuntamento per tutti i movimenti di lotta nonviolenti ed e' la Marcia per la pace e la riconciliazione tra i popoli, che quest'anno si svolge il 25 settembre, nel cinquantesimo anniversario della prima voluta da Aldo Capitini. Allora, per la prima volta dalla Liberazione il popolo della pace si mise in marcia, con responsabilità e consapevolezza, entrando come un nuovo soggetto nella nostra storia. Da allora non ne sarebbe più uscito e gli stessi movimenti di lotta di questo decennio, anche nelle biografie di molti attivisti, derivano da quella storia. Oggi al popolo della pace, ancora in marcia da Perugia ad Assisi, tocca ancora il compito di fare sintesi di tutte le lotte nonviolente e di porsi come la vera alternativa, aperta e dal basso, alla violenza culturale, strutturale e repressiva di questo potere"
("Dalla Val di Susa al Decennale del G8 di Genova. Dieci punti per una riflessione sulla nonviolenza nei conflitti sociali", a cura del Movimento Nonviolento).
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- "La nonviolenza e' in cammino": Quale ruolo può svolgere il Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini?

- Pasquale Pugliese: Prima di rispondere a questa domanda ho letto le diverse risposte già pervenute. Parte di esse oscillano tra la richiesta al Movimento Nonviolento, più o meno, di "sciogliersi" in reti più ampie e quella di assumere su di sé, per tutti, compiti di grande impegno e responsabilità. Forse e' utile proporre una istantanea dello stato attuale del Movimento fondato da Aldo Capitini. Si tratta di una organizzazione - oggi "associazione di promozione sociale" - che nasce cinquanta anni fa e attualmente conta circa duecento iscritti, con attivi referenti locali ("centri") in quasi tutte le regioni d'Italia. Edita la rivista "Azione nonviolenta", fondata anch'essa da Capitini, che oscilla tra i 1.200 e i 1.300 abbonati, una piccola collana di apprezzati "Quaderni" di approfondimento, poi un sito internet (www.nonviolenti.org) e alcuni profili sui "social network". Sono state create nel tempo alcune "Case" e "Centri studi" che fanno riferimento, direttamente o indirettamente, al Movimento Nonviolento. La sede nazionale e' presso la "Casa per la nonviolenza" di Verona. Il Movimento Nonviolento e' infine parte di alcune reti internazionali, la War Resister's International (www.wri-irg.org), e nazionali: l'Ipri - Rete Corpi Civili di Pace (www.reteccp.org), il Comitato italiano per una cultura di pace e nonviolenza (www.decennio.org) e la Rete italiana disarmo (www.disarmo.org). Presidente ne e' Mao Valpiana.
Si tratta dunque di una organizzazione solida e fragile nello stesso tempo. Solida, perché ha saputo attraversare mezzo secolo, dotandosi di modalità di lavoro, di strumenti di azione e di legami solidali che le hanno consentito di diventare, ed essere ancora, un fondamentale punto di riferimento e di promozione per la nonviolenza in Italia. Fragile, perché l'intera organizzazione si fonda esclusivamente sul lavoro volontario degli aderenti (e dei volontari civili) e sugli abbonamenti alla rivista, senza finanziamenti esterni, senza contributi (se non il 5 x 1000 di chi decide di destinarlo al Movimento Nonviolento) e senza pubblicità. E' un patrimonio prezioso di valori, di intelligenze, di generosità personali fondato su quell'insieme di "tensione ideale e familiarità", come nell'impostazione datane da Aldo Capitini e Pietro Pinna, che non può essere disperso, ma va custodito e impegnato con cura. Senz'altro il Movimento Nonviolento può fare di più, essere più incisivo, più presente, più attivo, e in molti più campi, di quanto non riesca ad essere attualmente (e tutti sappiamo quanto ce ne sarebbe bisogno!), ma la possibilità che ciò avvenga e' legata anche all'impegno attivo di tutti coloro che, oltre ad essergli idealmente vicino, scelgano di farne parte aggiungendovi il proprio personale, prezioso ed insostituibile, contributo. Perché "al centro dell'agire sono persone", ricordava spesso Aldo Capitini.
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- "La nonviolenza e' in cammino": Quali i fatti più significativi degli ultimi mesi in Italia e nel mondo dal punto di vista della nonviolenza?

- Pasquale Pugliese: Negli ultimi mesi, tra i tanti, quattro fatti mi sembrano particolarmente significativi - in sé e nelle prospettive che aprono - due internazionali e due interni.
Tra i fatti internazionali, sicuramente le rivoluzioni in Tunisia ed Egitto, le quali, con modalità esplicitamente nonviolente, hanno destituito i regimi autoritari sostenuti e coccolati dai paesi occidentali. Le modalità con le quali i giovani tunisini e i giovani egiziani si sono liberati dai rispettivi tiranni sono "da manuale"; non a caso sono anche circolati di mano in mano traduzioni in arabo dei testi di Gene Sharp, in particolare le "198 tecniche di azione nonviolenta" (da "Internazionale" 888/2011). Certo l'esito delle rivoluzioni e' ancora incerto e il ruolo dei rispettivi eserciti rimane ambiguo - questo a dimostrazione del fatto che la nonviolenza non può esaurirsi in una mera tecnica applicativa - e tuttavia questa pagina di storia araba rimane un grande passo in avanti, che ha molto da insegnare anche a noi della sponda nord del Mediterraneo (per gli approfondimenti, anche sul ruolo svolto da Sharp, si veda il numero di "Azione nonviolenta" 6/2011).
Dal Mediterraneo alla Norvegia, dove ha colpito la grande maturità nonviolenta nella risposta del popolo norvegese di fronte alla lucida follia razzista che ha fatto strage di giovanissimi socialisti, proprio per la loro visione multiculturale della società. Di fronte a questa tragedia e' avvenuto quasi un "satyagraha" nazionale, una collettiva "fermezza nella verità" che ha fatto dire al premier Stoltenberg "risponderemo con più democrazia e più apertura", e ad uno dei ragazzi sopravvissuti alla strage: "Vi prego, non fatemi leggere messaggi pieni di rancore, di sostegno alla pena di morte, o qualcosa di simile. Se qualcuno crede che qualcosa migliorerà uccidendo questa piccola persona triste, ha profondamente torto". Nonviolenza e' civiltà.
Anche in Italia, in questi mesi passati, sono avvenuti significativi fatti di nonviolenza. Con i referendum abrogativi del giugno scorso il sistema di potere e' stato messo seriamente in difficoltà dal popolo che, esercitando il proprio "potere di tutti", ha spiazzato gli stessi apparati dei partiti. Attraverso una mobilitazione dal basso "lillipuziana, reticolare e nonviolenta", in particolare i comitati per l'acqua pubblica hanno prima raccolto da soli un milione e mezzo di firme e poi, saldandosi ai comitati contro l'energia nucleare, hanno (abbiamo!) avuto uno straordinario successo che ha ridato slancio ad uno strumento di democrazia diretta, ormai considerato finito, come il referendum popolare. Mettendo in campo una formidabile capacità di comunicazione creativa ed efficace nel coinvolgimento dei cittadini, anche contro un regime che ha dispiegato dispositivi di neutralizzazione leciti e illeciti, che deve fare da punto di riferimento per le future campagne e iniziative politiche dal basso.
E poi, la straordinaria mobilitazione nonviolenta della Val di Susa nella quale una comunità aperta lotta, da vent'anni, con tenacia, passione e intelligenza contro un'opera inutile, sbagliata, e distruttiva dell'ecosistema. Contro di essa, questa estate - come a Genova, dieci anni fa - il potere ha dispiegato tutta la violenza di cui e' capace. Prima per occupare il territorio dei valligiani, poi per far cadere nella trappola della violenza alcuni tra quelli che erano andati a sostenere la lotta dei valsusini. Mettendo in azione ancora una volta anche il sistema violento dei media che, manipolando la realtà, esercita sulle coscienze di tutti una violenza ancora maggiore di quella reale subita dai manifestanti. Amplificando all'inverosimile l'inutile lancio di qualche sasso di un giorno e tacendo e oscurando i digiuni, i sacrifici, la dedizione e la creatività di un intero popolo resistente nel tempo, che oggi si trova a vivere in un territorio follemente militarizzato per la costruzione dell'Alta velocità. Questa, come e più di altre, e' una lotta locale con una dimensione globale, "perché", come scriveva Capitini, "da una periferia onesta, pulita, nonviolenta, avverrà la resurrezione del mondo".
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- "La nonviolenza e' in cammino": Su quali iniziative concentrare maggiormente l'impegno nei prossimi mesi?

- Pasquale Pugliese: Credo che i temi sui quali dovremmo principalmente concentrare il nostro impegno si possano raggruppare in tre aree: il disarmo, la democrazia, la convivenza.
Per le ragioni che dicevamo prima, agire per il disarmo e' tema urgente e ineludibile. Ce lo impone la nostra coscienza che non può continuare a tollerare che, a suo nome e per suo conto, vengano sganciate bombe in Libia, occupati militarmente territori in Afghanistan e preparate le guerre prossime venture. Ce lo impone la Costituzione italiana che obbliga a cercare "mezzi di risoluzione delle controversie" diversi dalla ripudiata guerra e quindi a sperimentare altre strade d'intervento, per esempio i Corpi Civili di Pace cui dare finalmente risorse e gambe. Ce lo impone la crisi sociale ed economica del nostro paese che non può continuare a vedere la maggior parte dei soldi pubblici destinata all'acquisto, alla manutenzione e all'uso di terribili sistemi di morte e a foraggiare i privilegi inauditi di quell'apparato castale che e' l'esercito, sottraendo enormi risorse finanziarie alle spese civili e sociali. E' necessario perciò individuare la chiave politica per avviare una importante mobilitazione in tal senso.
Ma perché si giunga davvero al disarmo reale e' necessario operare anche per il disarmo culturale, perché la maggior parte della gente e' talmente imbevuta dalla retorica della guerra e della violenza risolutrice che non vede neanche il problema. Proprio nelle ore in cui questo governo becero ha presentato la sua degna finanziaria di "macelleria sociale", anche nelle proposte alternative dell'opposizione parlamentare, o nelle proteste sindacali, non e' indicato neanche un euro di riduzione delle spese militari. L'esercito e le spese militari continuano ad essere un tabù, il "sancta sanctorum" omaggiato e foraggiato da tutti. Dunque c'e' molto lavoro politico da fare, ma anche culturale, formativo, educativo. E in profondità.
Altrettanto urgente e' il tema della democrazia il Italia, che non solo e' ostaggio, da ormai vent'anni, di una cricca senza scrupoli, ma e' drammaticamente violentata dal fortissimo potere delle mafie. Che esercitano un pesante dominio culturale, economico, politico e militare nelle regioni di insediamento primario, ma hanno ormai colonizzato l'intero Paese, orientando le decisioni politiche del governo centrale e di molti Enti locali. Non e' più solo affare di magistratura e forze dell'ordine, ma e' necessario rinforzare, o aiutare a costituirsi, a Sud come a Nord, le reti cittadine di difesa popolare nonviolenta per questa nuova lotta di liberazione nazionale.
E poi c'e' il tema della convivenza. I recenti, tragici fatti di Oslo ci ricordano che nessun paese può dirsi immune da quello che Martin Luther King chiamava "il virus dell'odio". In Italia subiamo, da almeno due decenni, una pesante e penetrante "pedagogia razzista", che ha portato a trasformare la nostra legislazione in senso punitivo e crudele verso i migranti, con il reato di clandestinità, con l'apertura dei nuovi lager dei "Centri di identificazione ed espulsione" e con il crimine contro l'umanità dei respingimenti. Questo e' un tema che mina alla radice la civiltà di un popolo e non a caso molte delle lotte nonviolente del '900 sono nate proprio contro sistemi e regimi razzisti. Del resto, sia la marcia della pace del 1961 che quella di quest'anno sono esplicitamente dedicate alla "fratellanza dei popoli": ebbene, oggi la fratellanza dei popoli la si costruisce tanto nelle relazioni internazionali quanto nelle relazioni interne ai singoli Stati, promuovendo cultura e politiche che sappiano coltivare "la complessa arte della convivenza" (Alex Langer).
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- "La nonviolenza e' in cammino": Se una persona del tutto ignara le chiedesse "Cosa e' la nonviolenza, e come accostarsi ad essa?", cosa risponderebbe?

- Pasquale Pugliese: Ci può aiutare nella risposta lo stesso Aldo Capitini che, nel suo libro “Le tecniche della nonviolenza”, scrive: “la nonviolenza e' affidata ad un metodo che e' aperto ed e' sperimentale”.
Si tratta dunque di un "metodo" di azione che si sviluppa su vari livelli - da quello educativo a quello sociale, da quello personale a quello politico - come reciproca aggiunta tra prassi e teoria, tra azione e pensiero. Al contrario delle costruzioni ideologiche, la nonviolenza non e' prima teorizzata e poi praticata, ma e' prima vissuta come strumento di azione e di cambiamento di singoli e popoli; poi studiata, approfondita e di nuovo sperimentata nell'azione, dove torna rinforzata da quegli studi e approfondimenti teorici. L'insieme di questa elaborazione collettiva ne costituisce, appunto, il metodo. Che e' quindi metodo "aperto" perché nessuno e' custode di una dottrina, di un corpus di norme definitivo, di un “ismo”, ma ciascuno può apportare nuove aggiunte sia sul piano del pensare che dell'agire. Un metodo che può essere usato da tutti perché non si fonda sulla forza fisica o sugli armamenti, ma sulla forza d'animo di ciascuno.
Ed e' anche un metodo "sperimentale", una approssimazione continua per prove ed errori, per le ragioni che lasciamo dire allo stesso Capitini: “La nonviolenza e' positiva e non negativa (non-violenza = amore, cioè apertura affettuosa alla esistenza, libertà, sviluppo di ogni essere), e' attiva, lottatrice e richiede coraggio, e' creativa e trova sempre nuovi modi di attuarsi, e' inesauribile e non può essere attuata perfettamente, ma in continuo avvicinamento; e perciò ci diciamo amici della nonviolenza più che senz'altro nonviolenti”. Ossia, appunto, sperimentatori di nonviolenza. Questo e' l'unico modo che conosco per accostarsi e per starci.