domenica 24 luglio 2011

Un appello: il parlamento non rifinanzi le guerre e le stragi in Afghanistan e Libia

aderiamo a questo importante appello promosso dal "Centro ricerche per la pace di Viterbo".
Per adesioni, scrivere a Peppe Sini: nbawac@tin.it


"Chiediamo a tutte le persone di volonta' buona e di retto sentire di far sentire la propria voce al Parlamento italiano affinche' non rifinanzi le guerre e le stragi in Afghanistan e in Libia.

La partecipazione italiana a quelle guerre e' illegale, poiche' viola l'art. 11 della Costituzione della Repubblica Italiana.

La partecipazione italiana a quelle guerre e' gia' costata troppe morti, tra cui quaranta giovani soldati italiani.

La partecipazione italiana a quelle guerre costituisce anche uno sperpero scellerato ed assurdo di enormi risorse finanziarie dello stato italiano.

Quegli ingenti fondi non siano piu' utilizzati per provocare la morte di esseri umani, e siano utilizzati invece per garantire in Italia a tutti il diritto alla casa, alla scuola, alla salute, all'assistenza.

Chiediamo che il Parlamento ripudi la guerra, nemica dell'umanita'.

Chiediamo che il Parlamento riconosca, rispetti e promuova la vita, la dignita' e i diritti di ogni essere umano.

Chiediamo al Parlamento che cessi la partecipazione italiana alle guerre in corso.

Chiediamo al Parlamento che si torni al rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana.

Chiediamo al Parlamento che l'Italia svolga una politica internazionale di pace con mezzi di pace, per il disarmo e la smilitarizzazione dei conflitti, per il riconoscimento e l'inveramento di tutti i diritti umani per tutti gli esseri umani.

Solo la pace salva le vite".

mercoledì 20 luglio 2011

Dal decennale del massacro di Genova un compito per il prossimo Decennio

Il 20 luglio del 2001, a sera, la tragedia era già compiuta. Il dramma sarebbe continuato per altri giorni ancora. Il ritorno pieno della democrazia non è ancora completo.
Tuttavia il "movimento dei movimenti", che a Genova è stato massacrato in senso letterale e non figurato, dieci anni dopo – oggi - ha cominciato a vincere.
Alcune delle parole che nelle strade e piazze di Genova sono state spezzate nelle bocche dei manifestanti, impastate nei fiotti di sangue, azzittite dalle sirene - e dalle pale degli elicotteri, dalle vetrine spaccate, dai manganelli picchiati sugli scudi e sulle teste, dai colpi di pistola – sono oggi le parole del "nuovo lessico degli italiani".
La ricerca sul "dizionario degli italiani", pubblicata qualche giorno fa dalla Demos di Ilvo Diamanti ( http://www.repubblica.it/politica/2011/07/18/news/nuovo_dizionario_italiani-19258877/?ref=HREC1-2 ), posiziona nel quadrante delle parole positive e importanti per il futuro proprio quelle che da Seattle a Genova a Porto Alegre hanno mobilitato una generazione di attivisti: Solidarietà, Energia pulita, Bene Comune, Partecipazione e, addirittura, Decrescita.
Quando cambiano le parole vuol dire che comincia a cambiare la cultura profonda. Lo dice lo stesso Diamanti: "il lessico degli italiani compilato nell'estate 2011 rivela che questo clima cultutale è cambiato. Insieme al linguaggio. E che il Bene comune, oggi, non occorre più farlo di nascosto. Come la Solidarietà. Pratiche diffuse da tempo nel nostro paese, come dimostra la fitta rete di associazioni volontarie e la crescente propensione al consumo critico e consapevole. Oggi, invece sono divenute parole di successo". E' una lenta progressiva egemonia culturale che si sta affermando, facendosi strada dentro un ventennio di egemonia razzista, mafiosa e berlusconiana.
Ed è un'egemonia che ha già raggiunto una massa critica capace di incidere politicamente, costruendo e vincendo dal basso - contro tutti e contro tutto - i referendum popolari con i quali sono stati affermati proprio quei principi e, contemporaneamente, messi in campo capacità e strumenti di partecipazione, vecchi e nuovi.
Come ricorda il documento del Movimento Nonviolento (Dalla Val di Susa al Decennale del G8 di Genova, che incollo sotto) il "movimento dei movimenti" in questo decennio è riuscito sottrarsi al destino segnato da chi voleva intrappolarlo nella rincorsa ai vertici del potere, nell'assalto alle zone rosse, nella lotta degli studenti borghesi contro i poliziotti proletari, nel "diritto all'autodifesa", nel vicolo cieco del terrorismo, nelle questioni cruciali per il futuro derubricate a faccende di ordine pubblico. Ha saputo sottrarsi ad un triste deja vù ed ha intrapreso una strada del tutto nuova e, per certi versi, inedita, spiazzando letteralmemte gli apparati e i poteri costituiti. E' diventato un movimento "lillipuziano", cioè molecolare capace di radicarsi fortemente sui territori locali nelle mille iniziative di botteghe, comitati, associazioni, movimenti...; "reticolare", cioè capace di stringere alleanze su impegni comuni, di pensare globalmente agendo localmente, ma in relazione con gli altri; "nonviolento", cioè capace di impostare campagne volte a comunicare ed educare, a spiegare e formare, a coinvolgere ed allargare il consenso, utilizzando al meglio lo straordinario potere del web 2.0.
Naturalmente molte questioni sono ancora aperte, questo "vantaggio" può sempre essere perso e non è difficile smarrire il sentiero sul quale ci siamo incamminati. Bisogna perciò non farsi distarre dalle sirene "anticasta" che vogliono trascinarci nella "notte in cui tutte le vacche sono nere", per riaffermare i poteri occulti di sempre.
Occorre intelligenza e capacità di individuare i nodi cruciali da affrontare e sciogliere per una duratura trasformazione profonda, sui quali fare ancora massa critica. A cominciare da un nodo ancora ben integro e saldo, quello della guerra e degli armamenti.
Nonostante le spese militari siano sempre di più il vero pozzo senza fondo del bilancio dello Stato che sottrae ingenti risorse a tutti i settori pubblici; nonostante la guerra venga costantemente preparata, pianificata e agita come unico "mezzo di risoluzione delle controverie internazionali"; nonostante questo determini un ribaltamento dello spirito e della lettera della Costituizione che "ripudia la guerra" ed invece è essa ad essere ripudiata; nonostante tuttò ciò, le parole "pace", "disarmo", nonviolenza" sono ancora assenti dal "dizionario degli italiani".
Mettercele dentro e fare massa critica per affermarle culturalmente, socialmente e politicamente è il nostro compito per il prossimo decennio.



Dalla Val di Susa al Decennale del G8 di Genova

Dieci punti per una riflessione
sulla nonviolenza nei conflitti sociali
proposti dal Movimento Nonviolento

Di contro al pessimismo che soltanto con lo Stato
si dominano uomini inguaribilmente e interamente
egoisti e violenti
facciamo valere il metodo di impostare una adeguata articolazione
della prima fase, quella del potere senza governo,
premessa e garanzia che l'eventuale seconda fase
sia un potere nuovo "conseguente" alla prima fase,
di allargamento delle aperture,
di addestramento alle tecniche della nonviolenza,
di miglioramento della zona in cui si vive,
di lavoro educativo,
di impostazione di continue solidarietà con altri
nella rivoluzione permanente per la democrazia diretta,
connessa intimamente con la nonviolenza

Aldo Capitini
da "Il potere di tutti"

1. Nei dieci anni che ci separano dal G8 di Genova c'è stata un'importante avanzata della nonviolenza in Italia, sotto molti punti di vista: dalla rinuncia alla reazione violenta di fronte al massacro delle persone e della democrazia avvenuto in quei tragici giorni, alla lenta riorganizzare di un movimento dal basso e sui territori capace di esercitare il "potere di tutti"; dalla messa in campo di modalità creative di comunicazione nonviolenta per i referendum, alla importante lotta esemplare e di popolo della Val di Susa. Certo c'è molto altro da fare, ma questo non è poco. Proviamo a vedere.

2. In altre fasi della storia del nostro paese, quanto avvenuto per le strade di Genova nei giorni del G8, fino all'omicidio di Carlo Giuliani, quanto perpretato nella notte "cilena" della scuola Diaz, quanto inflitto agli inermi nelle camere di tortura di Bolzaneto, avrebbe forse avviato una generazione alla lotta armata. Dopo quel battesimo di fuoco e per vendicare il compagno caduto, sarebbe stato possibile. E' già successo. Ma stavolta non è avvenuto: c'è stata una rinuncia generalizzata alla risposta violenta. Anche chi accarezzava l'estetica dello scontro diretto con le zone rosse è stato superato dalla realtà delle cose.

3. La risposta più importante a quello che allora abbiamo definito il potere "liberista-mafioso-fascista" è stata data dalle grandi e pacifiche manifestazioni contro la guerra a Firenze il 9 novembre 2002 e, ancora più imponente, a Roma il 15 febbraio 2003. Quella a proposito della quale, per i milioni di cittadini scesi in piazza in tutto il mondo in quel giorno, Il Time scrisse "L'altra potenza mondiale". Centinaia di migliaia di persone, molte delle quali erano state selvaggiamente pestate a Genova, invadono letteralmente e pacificamente queste città. E sui balconi e le finestre di tutta Italia è un tripudio di bandiere arcobaleno, che poi si trasferiscono per settimane e mesi sulle biciclette di decine di paesi e città...Non si fermeranno con questo le guerre. Ma dopo il G8 è una grande prova di maturità dei movimenti italiani.

4. La Rete Lilliput si fà fortemente portavoce delle istanze nonviolente all'interno del "movimento dei movimenti" ed organizza un Seminario nazionale di tre giorni a Ciampino dal 27 al 29 settembre sul tema "La nonviolenza: attivarsi per un mondo diverso" nel quale consegna ai nodi locali la proposta di creare i Gruppi di Azione Nonviolenta per agire una modalità "lillipuziana, reticolare e nonviolenta" di stare nel conflitto sociale, sviluppando percorsi di formazione all'azione diretta. I GAN non attecchiranno in quanto tali e la stessa Rete Lilliput pian piano perderà il suo slancio iniziale, ma la nonviolenza è la questione sulla quale, in quella fase, ci si confronterà e ci si formerà dappertutto. Oggi, le molte azioni creative messe il campo dai comitati per i referendum per l'acqua pubblica e contro il nuclearehanno richiamato esattamente quella grammatica "lillipuziana, reticolare e nonviolenta". E molti attivisti di oggi sono gli stessi di allora.

5. Il tema della nonviolenza, intanto, interroga anche nuove forze politiche al punto che il più grande partito della sinistra "antagonista", il Partito della Rifondazione Comunista, che era stato protagonista interno al "movimento" in tutte le lotte contro il neoliberismo organizza nel febbraio del 2004 uno straordinario - per l'argomento trattato e per la partecipazione – convegno tematico a Venezia sul tema "Agire la nonviolenza". Saranno tre giorni di serrato confronto che provano a spostare l'asse culturale di quel partito sulla traiettoria della nonviolenza. Non sarà indolore. Anche questo elemento sarà tra le cause della successiva spaccatura tra l'ala più identiraria marxista e quella più libertaria nonviolenta.

6. Nel frattempo - mentre si diffondono a macchia d'olio di Gruppi di Acquisto Solidale che agiscono anch'essi la nonviolenza nella forma del "programma costruttivo", cioè del cambiamento qui ed ora del proprio stile di vita e di consumo - si avviano o si consolidano importantissime lotte nonviolente, apparentemente locali ma con una portata generale: contro la base Dal Molin a Vicenza, contro il Ponte sullo Stretto di Messina, contro le scorie nucleari a Scansano Jonico, contro la mafia e la 'ndrangheta in Sicilia, Calabria e non solo. E contro la TAV in Val di Susa. E poi le lotte degli studenti medi e universitari, dei ricercatori e dei migranti, delle donne, dei precari e licenziati. E' stata, ed è tuttora, una ricerca continua, collettiva e creativa di forme di lotta alternative e nonviolente.

7. Certo, nel frattempo in Italia è stata fatta una legge elettorale liberticida, il monopolio della potente arma di disinformazione di massa della TV è diventato asfissiante, il blocco di potere mafioso, liberista e razzista che governa ancora più prepotente; le spese per gli armamenti sempre crescenti e quelle sociali calanti; militari italiani sono impegnati in fronti di guerra nel ripudio della Costituzione. Il parlamento vede un'opposizione ridimensionata, debole e asfittica, incapace di interpretare le lotte sociali e d'accordo col governo su molti temi importanti, come la guerra e la Tav in Val di Susa. Eppure...

8. Eppure, in questo anno del decennale del G8 di Genova e del cinquantesimo della prima Marcia della Pace, il sistema di potere è stato messo seriamente nell'angolo proprio dal popolo che ha esercitato il proprio "potere di tutti" spiazzando gli stessi apparati dei partiti. Prima con le elezioni amministrative e dopo, sopratutto, con i referendum popolari. Attraverso una mobilitazione dal basso – ancora una volta "lillipuziana, reticolare e nonviolenta" – i comitati per l'acqua pubblica hanno prima raccolto, senza il sostegno dei partiti, un milione e mezzo di firme e poi, contro un regime che ha dispiegato tutti i dispositivi di neutralizzazione leciti e illeciti di cui è capace, hanno avuto (abbiamo avuto!) uno straordinario successo che ha ridato vita ad uno strumento di democrazia diretta, ormai considerato defunto, come il referendum popolare. Hanno dispiegato una tale formidabile capacità di comunicazione creativa, efficace nel coinvolgimento responsabile dei cittadini, da ricordare il movimento popolare per il referendum che ha sancito la fine della dittatura in Cile nel 1988. Una lotta nonviolenta da manuale (il caso è raccontato nel video "Una forza più potente" prodotto dall'Albert Einstein Institution di Gene Sharp, e diffuso in Italia dal Movimento Nonviolento).

9. I colpi di coda di un sistema in agonia sono terribili. Se n'è avuta una prova in Val di Susa domenica scorsa. Quella dei valligiani è una straordinaria lotta nonviolenta in cui una comunità aperta lotta, in maniera esemplare, per il futuro di tutti. Lotta con sacrificio personale, tenacia, passione e intelligenza, da molti anni, contro un'opera inutile, sbagliata, distruttiva dell'ecosistema, simbolo di un modello di sviluppo antiquato e dissipatore. Cara solo alle mafie che ne gestiranno le commesse e a chi ne è complice, consapevolmente o meno. Come a Genova, dieci anni fa, il potere – lo stesso potere - di fronte ad un movimento vero, radicato e di popolo ha dispiegato tutta la violenza di cui è capace. Prima per riprendersi, illegalmente, il territorio occupato dai resistenti, poi per far cadere nella "trappola" della violenza alcuni tra quelli che erano andati a sostenere la lotta dei valsusini. Come a Genova, dieci anni fa, è stato un errore cadere in quella trappola che in un colpo solo ha consentito di dispiegare le armi della disinformazione di massa e annullare vent'anni di seria e consapevole lotta nonviolenta della Val di Susa, con le immagini ripetute fino all'ossessione di scontri e violenze. La follia della Tav in Val di Susa porta oggi il potere a dover presidiare militarmente e massicciamente un cantiere di lavoro – con dei costi superiori alla stessa opera - che è una ferita aperta in un territorio ed in una comunità. Altre lotte andrano organizzate, in Val di Susa e dappertutto, contro questo scempio, con tenacia e creatività, ma non si potrà più ignorare che oltre alla violenza della repressione, bisognerà guardarsi dal sistema violento dei media, che esercita sulle coscienze di tutti una violenza ancora maggiore di quella subita dai partecipanti. E dunque bisognerà guardarsi bene da chi, per rabbia, ingenuità o velleità, potrebbe cadere ancora nella trappola della provocazione. E soprattutto dobbiamo guardarci da chi si infiltra nei movimenti di massa per condurre una personale "guerra allo Stato". Costoro sono dannosi verso di noi tanto quanto verso le forze di polizia. Non fanno parte del movimento, ma sono funzionali alla stabilizzazione del potere. Dobbiamo dirlo chiaramente, non farlo sarebbe un danno grave non solo per la Val Susa, ma per tutti i movimenti di lotta.

10. Come accaduto dopo il G8 di Genova, i movimenti sono chiamati oggi a dare una nuova prova di maturità e contemporaneamente a compiere un altro passo nel processo di nuova Liberazione popolare da questo regime in putrefazione. C'è già un appuntamento per tutti i movimenti di lotta nonviolenti ed è la Marcia per la pace e la riconciliazione tra i popoli, che quest'anno si svolge il 25 settembre, nel 50° anniversario della prima voluta da Aldo Capitini. Allora, per la prima volta dalla Liberazione il popolo della pace mise in marcia, con responsabilità e consapevolezza, entrando come un nuovo soggetto nella nostra storia. Da allora non ne sarebbe più uscito e gli stessi movimenti di lotta di questo decennio, anche nelle biografie di molti attivisti, derivano da quella storia. Oggi al popolo della pace, ancora in marcia da Perugia ad Assisi, tocca ancora il compito di fare sintesi di tutte le lotte nonviolente e di porsi come la vera alternativa, aperta e dal basso, alla violenza culturale, strutturale e repressiva di questo potere.


Movimento Nonviolento

www.nonviolenti.org

domenica 17 luglio 2011

Dieci anni dopo il G 8 di Genova / 3

Le vicende del G8 avviarono all'interno del "movimento dei movimenti" un importante confronto sui "mezzi" di azione politica. In particolare le Rete Lilliput avviò un percorso di approfondimento sulla "teoria e pratica" della nonviolenza, con la nascita di un gruppo di lavoro centrale e di vari percorsi di formazione locali. A Ciampino, nel settembre del 2002, la Rete Lilliput svolse su questo tema un seminario nazionale.
Questa è la relazione introduttiva.


La nonviolenza: attivarsi per un mondo diverso


Il sistema nel quale viviamo e’ profondamente in crisi dal punto di vista energetico, ecologico e sociale. E’ in atto un drammatico conflitto tra il modello economico dominante e la biosfera. Il potere imperiale che governa il pianeta sta operando una trasformazione violenta di questo conflitto, sovrapponendo alla violenza strutturale, sulla quale e’ fondato, la violenza diretta della repressione verso il dissenso interno e della guerra permanente verso l’esterno. In questa fase di conflitto l’uso della violenza diretta ha anche, e forse soprattutto, la funzione mimetica di nascondere le ragioni della crisi e puntare tutte le attenzioni sul/sui "nemico/ci", causa di tutti i mali.

Cio’ pone ai movimenti di resistenza e costruzione delle alternative una doppia sfida, una doppia alternativa:
- di contenuto: ridurre l’impatto del sistema energetico-economico-sociale sulla biosfera, ossia ridurre l’impronta ecologica e sociale, per uscire della crisi planetaria;
- di metodo: ribaltare la trasformazione violenta del conflitto operando la sua trasformazione in senso nonviolento, per svelare ed affrontare le vere ragioni del conflitto. In questo quadro, sono almeno due le ragioni principali per operare la scelta consapevole della nonviolenza:
1) per superare la scissione tra etica e azione politica
(machiavellicamente: "il fine giustifica i mezzi") e reinserire l’etica nella politica (gandhianamente: "il mezzo sta al fine come il seme sta all’ albero");
2) perche’ puo’ essere efficace, per le seguenti ragioni:
a) la nonviolenza interviene sui processi per modificare le strutture profonde della societa’ e non solo sugli eventi indotti. E’ pro-attiva piuttosto che re-attiva. Ha una propria agenda che cerca di realizzare, anche attraverso il lavoro al "programma costruttivo", e non risponde solo ad input esterni;
b) ha un approccio complesso al conflitto nel quale non considera solo i due soggetti esplicitamente avversari - oppresso ed oppressore - ma tiene conto delle fondamentali terze parti, delle quali cercare la simpatia, il consenso ed infine l’alleanza.
E’ quest’ultimo un punto cruciale sul quale soffermarsi.

Gia’ nel ’Cinquecento Etienne de La Boetie nel suo Discorso sulla servitu’ volontaria, ha evidenziato come le vere radici del potere stanno nella "complicita’" di chi lo subisce. Secondo Sharp le ragioni dell’obbedienza sono l’abitudine, la paura delle sanzioni, l’obbligo morale, l’interesse personale, l’identificazione psicologica con il governante, le "zone d’indifferenza", la mancanza di fiducia in se stessi. Cio’ e’ ancor piu’ vero nel sistema capitalista nel quale il sostegno principale al sistema non e’ dato tanto dall’esercito o dalla polizia quanto da quel venti per cento di cittadini del mondo ricco che da un lato dissipa le risorse economiche, ecologiche ed energetiche di tutti e dall’altro comincia, per lo piu’ inconsapevolmente, a pagarne le conseguenze. "Il capitalismo è sostenuto piu’ dall’adesione passiva che dalla forza" - spiega Brian Martin nel suo Nonviolenza contro capitalismo - "Nelle societa’ capitalistiche le persone vivono la loro vita quotidiana invischiate in una rete di credenze e di piccole azioni che costantemente ripresentano loro cio’ che e’ possibile e desiderabile. Quando la gente consuma un pasto pronto, vede e ascolta la pubblicita’, indossa abiti firmati, aspira a ulteriori possessi materiali e si adatta a competere in un mercato del lavoro rigido, ecco che si trova coinvolta in comportamenti e sistemi di credenze che riflettono e riproducono uno stile di vita dominato dal capitalismo. Se molti disobbedissero alle leggi, l’intervento della polizia o dell’esercito potrebbe essere controproducente o inutile, ma il fatto e’ che quasi tutti si adeguano al sistema, anche coloro che gli sono contrari. Si tratta dunque di elaborare una politica che distrugga le credenze del capitalismo e che dia impulso ed espansione a una nuova sfida". Si tratta, pertanto, di agire parallelamente nei confronti del potere e delle "terze parti" che, consapevolmente o meno, lo sostengono. E dunque anche su noi stessi.

Ma, nella situazione data, affinche’ la scelta della nonviolenza da parte di Rete Lilliput sia effettivamente efficace bisogna soddisfare tre condizioni di efficacia:
1) uscire dal generico della a-violenza e della non violenza ed entrare nello specifico della nonviolenza, ossia del metodo satyagraha come proposto dai movimenti gandhiani. Cio’ significa che non si tratta di non rompere le vetrine durante un corteo pacifico, ma di appropriarsi di un metodo complessivo di azione che ha propri principi, strategie (nel senso di agire su piu’ strati), tattiche e tecniche;
2) passare dal dire nonviolenza al fare nonviolenza. Ossia cominciare a praticare cio’ che scriviamo sui nostri documenti, considerando che nella suddivisione dei saperi - sapere, saper essere, saper fare - in ambito lillipuziano siamo probabilmente abbastanza concentrati sui primi due (di piu’ sul secondo che sul primo), ma assolutamente in ritardo sul terzo, cioe’ sul saper fare nonviolenza;
3) avviare seri e diffusi percorsi di formazione teorico-pratica alla nonviolenza.

L’insieme di queste tre condizioni ci consentirebbe di acquisire la nonviolenza come metodo, ossia di passare da una dimensione puramente ideale della nonviolenza ad una metodologica. Perche’ la nonviolenza e’ metodo ed e’ metodo sperimentale, nel quale la teoria si confronta sempre con la pratica e in questo confronto il metodo stesso evolve, arricchendosi di sempre nuove dimensioni e producendo imprevedibili risultati.

I Gruppi di azione nonviolenta (in sigla: Gan) possono diventare lo strumento lillipuziano per l’uso consapevole e complessivo del metodo nonviolento. Denominare Gan i nascenti gruppi lillipuziani, che s’affacciano oggi sulla strada della nonviolenza, significa non partire da zero - vizio spesso diffuso nei nostri gruppi e movimenti - ma riallacciarsi ad una storia che e’ all’origine della diffusione in Italia della nonviolenza attiva. Infatti, nella nonviolenza italiana Gan non e’ una sigla nuova: nei primi anni ’60 un gruppo di sei giovani di diverse citta’, coordinati da Pietro Pinna, diedero vita al primo Gruppo di Azione Diretta Nonviolenta che sparse i semi per l’ introduzione anche in Italia delle tecniche di azione nonviolenta, già da tempo sperimentate all’estero. Il gruppo conflui’ poi nel nascente Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini.

L’obiettivo e’ quello di avere nei prossimi anni un Gan per ogni nodo Lilliput, allo scopo di poter mettere in campo una vera strategia lillipuziana, reticolare e nonviolenta.
- Lillipuziana: perche’ si attiva dal basso, dai territori locali nei quali si comunica a viso aperto con i propri concittadini, utilizzando al meglio la dimensione comunicativa delle azioni dirette nonviolente, e dove si puo’ lavorare concretamente ed efficacemente alla realizzazione dei programmi costruttivi;
- reticolare: perché la costituzione dei Gan presso i nodi consente di sviluppare una rete di attivisti diffusa su buona parte del territorio nazionale capace, se opportuno o necessario, di attivarsi anche sincronicamente;
- nonviolenta: perche’ usa il metodo nonviolento come propria specifica modalita’ di attivazione, gestione e trasformazione dei conflitti, ed in particolare le azioni dirette nonviolente.

Il Gruppo di lavoro tematico su "nonviolenza e conflitti" indica ai nodi i seguenti quattro possibili ambiti d’intervento dei Gan, quattro possibili piste di lavoro o sentieri da esplorare, che non ne esauriscono le possibilita’ ma propongono dei punti di avvio.
- i Gan sarebbero lo strumento di azione attraverso il quale le campagne lillipuziane possono agire con il metodo nonviolento, attivando, tra l’ altro, la gandhiana "legge della progressione" che prevede il passaggio graduale dalle forme piu’ blande di azione a quelle via via piu’ incisive e radicali fino alla realizzazione dell’obiettivo essenziale stabilito, per passare poi ad un nuovo obiettivo;
- i Gan agirebbero, nei propri territori, sulle conseguenze nel tessuto locale dei fenomeni globali, attivando un conflitto sul tema più sentito nelle proprie comunita’ con il metodo nonviolento che prevede parallelamente l’azione diretta ed il "programma costruttivo";
- una rete di Gan diffusa sul territorio nazionale sarebbe di fatto un presidio democratico di fronte alle involuzioni autoritarie alla quale stiamo assistendo in Italia, e non solo, una volta acquisite le capacita’ di attivarsi come "difesa popolare nonviolenta" da un aggressore interno alle istituzioni democratiche;
- i Gan potrebbero divenire gruppi d’appoggio e di supporto per i Corpi Civili di Pace in missione in situazioni di guerra. Naturalmente tutto cio’ potra’ avvenire solo nella misura in cui i nodi ed i singoli lillipuziani decideranno di dare testa e gambe a questo progetto, all’interno delle realtà locali.

Ricordando che la Rete Lilliput, e dunque tutti noi, ha una doppia responsabilita’:
- una responsabilita’ nei confronti degli altri movimenti, che hanno delle attese rispetto alla nonviolenza che la Rete ha avuto il coraggio di scegliere e proclamare, e adesso deve fare e dimostrare;
- una responsabilita’ verso la deriva violenta del conflitto strutturale in corso, che se non proviamo a trasformare noi in senso nonviolento, e prima che sia troppo tardi, nessun altro, almeno in Italia, potra’ farlo.

mercoledì 13 luglio 2011

Dieci anni dopo il G8 di Genova / 2

In preparazione del Decennale del G8 di Genova,
ecco un altro pezzo scritto dopo l'11 settembre di quello stesso tragico anno,
che prova a tenere insieme i due avvenimenti
e ad aprire una prospettiva di azione, con gli interlocutori del tempo,
all'interno del "movimento dei movimenti".
E' stato pubblicato su "Azione nonviolenta" del dicembre 2001 e su vari siti web



Per una Strategia Lillipuziana Reticolare e Nonviolenta:
i Gruppi di Azione Nonviolenta


Un mondo in crisi.
L’11 settembre 2001 a New York non sono solamente morte 5000 persone, ma si è manifestata, in maniera tragica e simbolica, la crisi del sistema-mondo che l’Occidente ha costruito.Un sistema nel quale la minoranza ricca – della quale facciamo parte noi tutti - sperpera l’86 % delle risorse del pianeta costringendo alla morte, nel silenzio e nel buio delle televisioni, 35.000 bambini al giorno per fame; nel quale 200 persone possiedono una ricchezza pari a circa il prodotto globale lordo della metà più povera dell’umanità e nel quale ci illudiamo follemente di garantire la sicurezza non attraverso la giustizia per tutti ma la difesa militare dei privilegi per pochi. La risposta dei governi alla crisi è la guerra, che è tutta interna ed anzi aggrava la crisi stessa. La guerra ha come obbiettivo non certo di sconfiggere il terrorismo - è piuttosto il modo più efficace per alimentarlo - ma di garantire all’Occidente, ed agli USA in primo luogo, per qualche anno ancora, gli ultimi rifornimenti di petrolio dell’Asia centrale, prima che la “crisi sistemica globale”, innescata dall’esaurimento dei pozzi, entri nella fase acuta e faccia crollare, con una violenza infinite volte superiore a quella delle Due Torri, il mondo che abbiamo costruito sul profitto e sulla crescita (1). Ed i governanti del mondo, assolutamente irresponsabili, si preoccupano di terminare il proprio mandato elettorale garantendo, ai già garantiti, qualche altro anno di illusione di benessere, incuranti del muro dell’insostenibilità sociale ed ambientale contro il quale stanno portando velocemente - d’accordo con i decisori economici delle istituzioni internazionali e della multinazionali - a impattare l’umanità e il pianeta.

Le responsabilità dei popoli di Seattle, Porto Alegre e Genova
Di fronte alla incapacità imbelle di leggere i segni di crisi - mista alla volontà di perseverare sulle strade della violenza strutturale del sistema e della violenza diretta della guerra a sua difesa - da parte delle élite elette e non elette, la responsabilità di agire rimane tutta ai popoli della terra i quali, in questi anni, pazientemente, hanno costruito quel “movimento dei movimenti” che ha visto la sua emersione a Seattle e poi via via tutta una serie di mobilitazioni internazionali - passando per l’appuntamento costruttivo di Porto Alegre - fino alla contestazione del G8 di Genova nel luglio scorso (2).
Il conflitto sociale ed ecologico, che ha costantemente accompagnato il capitalismo in tutta la sua costruzione ed espansione, è dunque nuovamente assunto ed agito nelle strade e nelle piazze da parte di coloro che operano la resistenza alla sua violenza e ne costruiscono e, in molti casi, praticano le alternative. Oggi la posta in gioco è altissima e sempre più chiara e ravvicinata, ne va del futuro della terra e dei sui abitanti. Pertanto il movimento di lotta in atto non può permettersi di fallire nel suo obbiettivo di trasformare in senso nonviolento le strutture profonde, economiche e culturali, della società. Ma con i fatti di Genova - nella loro drammaticità e con le dolorose ferite fisiche e morali ancora aperte - il movimento è entrato nella fase acuta del conflitto. Nella fase in cui maggiormente corre, da un lato, il rischio di involuzione verso derive violente, oltretutto inefficaci e controproducenti e, dall’altro, specularmente, il rischio della criminaliz-zazione e della repressione feroce e illiberale. Entrambi i rischi possono condurre alla fine del conflitto, all’azzeramento del movimento e delle sue speranze di cambiamento, al peggioramento complessivo delle condizioni dell’ambiente e degli umani al Nord come al Sud, al via libera definitivo alle guerre per il petrolio prima, per l’acqua poi e di tutti contro tutti, infine, senza più nessun argine di resistenza e alternativa politica.

Servitù volontaria e sistema capitalista
Se già nel ‘500, come ci ricorda Gene Sharp (3), Etienne de La Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria, ha evidenziato come le vere radici del potere stanno nella “complicità” di chi lo subisce, questo è ancor più vero oggi, in Occidente, nel sistema di capitalismo avanzato. Il sostegno principale al sistema non è dato tanto dall’esercito o dalla polizia quanto da quel venti per cento di cittadini del mondo ricco che da un lato dissipa le risorse economiche, ecologiche ed energetiche di tutti e dall’altro comincia a pagarne le conseguenze (mucche pazze, ogm, cambiamento climatico, insicurezza sociale, terrorismo ecc.).
“Il capitalismo è sostenuto più dall’adesione passiva che dalla forza. - spiega Brian Martin - Nelle società capitalistiche le persone vivono la loro vita quotidiana invischiate in una rete di credenze e di piccole azioni che costantemente ripresentano loro ciò che è possibile e desiderabile. Quando la gente consuma un pasto pronto, vede e ascolta la pubblicità, indossa abiti firmati, aspira a ulteriori possessi materiali e si adatta a competere in un mercato del lavoro rigido, ecco che si trova coinvolta in comportamenti e sistemi di credenze che riflettono e riproducono uno stile di vita dominato dal capitalismo. Se molti disobbedissero alle leggi, l’intervento della polizia o dell’esercito potrebbe essere controproducente o inutile, ma il fatto è che quasi tutti si adeguano al sistema, anche coloro che gli sono contrari. Si tratta dunque di elaborare una politica che distrugga le credenze del capitalismo e che dia impulso ed espansione a una nuova sfida”(4).
Ed esattamente questa è la sfida che ha di fronte il “movimento dei movimenti”: Continuare a rincorrere i vertici dei potenti, trasformati ormai in abili trappole, agendo un conflitto di piazza aspro, ed anche violento, che rimane in superficie perché tende a polarizzarsi nello scontro con le forze dell’ordine - consentendo alla gente di rimanere spettatrice di qualcosa che, sostanzialmente, sente lontano, estraneo e non capisce - oppure avviare una trasformazione del conflitto in senso nonviolento, meno spettacolare, forse, ma che mira più in profondità perché alla ricerca della comunicazione efficace con tutti, avendo come interlocutori principali i cittadini, terze parti fondamentali nel confronto tra il movimento ed il potere - perché di esso sono appunto il puntello - attraverso la messa in campo di strumenti di azione inediti che proprio i cittadini persuadano e coinvolgano sui loro territori.

Una strategia lillipuziana, reticolare e nonviolenta
La Rete di Lilliput è il soggetto politico interno al “movimento dei movimenti” che in Italia ha le carte in regola per provare a trasformare il conflitto in senso nonviolento. La storia delle associazioni aderenti, il radicamento sul territorio di molte realtà che ne costituiscono l’ossatura, l’organizzazione per nodi territoriali, la scelta chiara e definitiva della nonviolenza fanno si che essa possa svolgere, per tutto il movimento, un ruolo delicato ed insostituibile: percorrere la strada stretta che passa tra l’assenza del conflitto agito e la sua degenerazione violenta. Ossia operare la trasformazione e mantenere la gestione nonviolenta del conflitto ecologico e sociale attraverso la strategia che più le è congeniale: lillipuziana, reticolare e nonviolenta.
Si tratta, dopo Genova, di modificare il paradigma del conflitto: passare dalle grandi manifestazioni concentrate ed onnicomprensive alle azioni nonviolente sui territori e su obbiettivi specifici. A tal fine bisogna, per un verso, lasciare modalità di mobilitazione ormai usuali ma sempre più inefficaci o addirittura controproducenti: abbandonare la rincorsa dei vertici dei potenti per uscire dalla subalternità ai luoghi e ai tempi di manifestazione imposti dalle loro agende; uscire dalle logiche della uguaglianza nella diversità, e della contemporaneità, delle forme di lotta adottate a Genova perché le forme che non sono coerentemente nonviolente nei mezzi, nei fini, nella comunicazione, nell’immagine, fanno il gioco del potere; uscire dalla mistica del numero propria delle manifestazioni di massa che, in questa fase, sono il ricettacolo di coloro che intendono sfidare il potere sul piano, reale o simbolico, della violenza a tutto vantaggio di chi vuole criminalizzare il movimento (altro naturalmente è lo spirito ed il senso della marcia Perugia-Assisi). E, per altro verso, utilizzare le sinergie della rete per avviare una trasformazione profonda dei territori locali - dove la gente tutti i giorni vive-produce-consuma - mettendo in campo una strategia complessiva che preveda, nodo per nodo, un programma costruttivo ed un progetto di azioni nonviolente.
Per quanto riguarda il programma costruttivo, se i nodi della Rete Lilliput, che legano insieme soggetti che già operano per la trasformazione del proprio territorio - dalle botteghe del mondo ai coordinamenti per la pace, dalle m.a.g. ai comitati ecologisti, dai movimenti nonviolenti ai gruppi di acquisto solidale ecc. ecc.- lavorassero alla connessione dell’enorme quantità e qualità di competenze, energie e sensibilità che riescono ad esprimere finalizzandole alla realizzazione di progetti forti di cambiamento locali, potrebbero, agendo in rete, incidere in profondità, operando trasformazioni significative nelle pieghe delle nostre e della nostra società(5). “Se un tratto sembra caratterizzare tutte le più nuove ed efficaci azioni di resistenza e di contrasto agli effetti perversi dell’assolutizzazione dell’economia e della globalizzazione finanziaria – scrive a questo proposito Marco Revelli – è che esse muovono, per così dire, <>. Che si costituiscono dentro le pieghe del territorio – l’elemento più sfidato ed insieme più attivo nel quadro della competitività globale. In una parola , che fondano la propria pratica dal basso, per poi identificare singoli momenti, luoghi simbolici, eventi (si pensi a Seattle) in cui rappresentare la propria vocazione globale”(6). Si tratta, insomma, di dare priorità al radicamento ed al progettare insieme il cambiamento culturale, economico, sociale e politico dei territori locali, piuttosto che svolgere pellegrinaggi dell’anti-globalizzazione verso le “zone rosse” dei santuari globali. Per quanto riguarda il progetto di azioni nonviolente, costituire presso ogni nodo un Gruppo di Azione Nonviolenta.

I Gruppi di Azione Nonviolenta
La strategia di trasformazione nonviolenta del conflitto passa anche attraverso le azioni dirette nonviolente, che fondano la loro efficacia ed incisività sulla capacità di comunicare a più persone le ragioni della propria iniziativa politica acquisendone la simpatia, il consenso ed infine l’alleanza. Esse agiscono tanto sull’avversario – le strutture da trasformare impersonate di volta in volta da coloro nei cui confronti si rivolge l’azione – del quale si cerca il cambiamento, quanto su coloro che si considerano neutrali – inconsapevoli del proprio essere i “servitori volontari” del sistema – dei quali si cerca la persuasione, la “conversione” ed infine la disobbedienza. Dopo la trappola di Genova, le azioni nonviolente possono consentire di tenere insieme la realizzazione degli obbiettivi essenziali con la possibilità democratica di agire liberamente tra la gente, la riduzione al minimo del rischio di degenerazioni violente delle mobilitazioni con la messa del potere nell’impossibilità – o nella difficoltà estrema - di dispiegare il suo apparato repressivo.
La struttura reticolare di Lilliput può garantire, inoltre, una diffusione capillare di azioni nonviolente sui territori che ha il vantaggio di incontrare più cittadini contemporaneamente, a viso aperto, senza la mediazione dei mezzi d’informazione (o dis-informazione) nazionali, e di rivolgersi ad obbiettivi particolarmente importanti per le sensibilità locali. La strada da seguire a questo scopo è la costituzione all’interno di ogni nodo Lilliput di un Gruppo di Azione Nonviolenta (GAN) (7).
Se in ogni città o provincia dove è presente un nodo, un gruppo di lillipuziani si impegnasse in un adeguato programma di formazione alla teoria ed alla prassi del metodo nonviolento e incominciasse a sperimentare delle azioni dirette nonviolente locali, collegandosi progressivamente ai GAN degli altri nodi, svolgendo sempre più azioni coordinate con questi, e magari simultanee, nel giro di qualche anno sarebbe presente in Italia una rete di lillipuziani nonviolenti capaci di attivarsi, con preparazione ed organizzazione, anche per campagne di ampio respiro. E sarebbe giunto il momento di lanciare una grande campagna nonviolenta nazionale - su un nostro tema e con i nostri tempi - condotta finalmente secondo le gandhiana “legge della progressione”, che prevede il passaggio graduale dalle forme più blande di azione a quelle via via più incisive e radicali fino alla realizzazione completa dell’obbiettivo essenziale stabilito(8). Per passare poi ad un nuovo obbiettivo… Poiché per condurre con efficacia un’azione nonviolenta si devono condividere i valori di riferimento, e non solo gli avversari, il programma di formazione dei lillipuziani dovrebbe essere indirizzato non alla semplice acquisizione di un insieme di tecniche - perché la nonviolenza non è un mero strumento che può essere usato per qualunque scopo o applicato come etichetta su qualsiasi tipo di azione - ma alla conoscenza ed all’appropriazione dei principi, della strategia e della tattica, oltre che della pratica, che fondano storicamente e scientificamente il metodo nonviolento. Si tratta di riuscire ad attivarsi efficacemente, insomma, attraverso i GAN e i progetti locali costruttivi, per la trasformazione tanto sul piano del cambiamento personale - nostro e degli altri - quanto su quello politico, tanto sul piano delle dinamiche globali quanto - e soprattutto - sul loro riverbero nel locale e nel quotidiano di tutti.

Infine, la profondità
In un contesto storico come quello attuale – carico di una tale violenza che può paralizzare la capacità critica e l’azione creativa – la scelta da parte della Rete Lilliput di caratterizzare la propria strategia in maniera lillipuziana, reticolare e nonviolenta - attraverso la strutturazione, nodo per nodo, dei programmi costruttivi locali e l’investimento sulla formazione dei Gruppi di Azione Nonviolenta - può non essere compresa e condivisa dal resto del “movimento”, se questo continua a reagire in maniera automatica e rituale agli input esterni. Pazienza, la posta in gioco è talmente importante che ciò che conta è cercare le strade che inducano veramente il cambiamento nel modo di pensare, di vivere e di agire in Occidente, modificandone contemporaneamente i comportamenti individuali e le strutture sociali. Serve dunque impegnarsi - piuttosto che nella ricerca di defatiganti unanimismi di facciata – in accurate modalità di azione che affrontino la complessità delle dinamiche in gioco e rifuggano dalla semplificazione, che incidano in profondità e non si dimenino sulla superficie. Perciò è necessario - e presto - lavorare alla trasformazione del conflitto in senso nonviolento, per riuscire a tenere conto allo stesso tempo dei diversi livelli nei quali si esprime la violenza, della pluralità degli attori coinvolti nel conflitto e della molteplicità delle sue dimensioni. Non è certo una scelta di moderazione, è piuttosto una scelta di azione in profondità che non si arresta alla superficie della rincorsa, a dispersione energetica, degli avvenimenti indotti dagli avversari.
“La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata” scriveva Aldo Capitini molti decenni orsono(9), e parlava dell’oggi.


NOTE
(1)Vedi, tra le altre cose, l’intervista ad Alberto di Fazio La guerra sul treno della crisi petrolifera su il manifesto 17 ottobre 2001 e Massimo Riva La guerra del greggio si fa ma non si dice la Repubblica 23 ottobre 2001;
(2)Cfr. Nanni Salio Persuasi della nonviolenza per sconfiggere ogni terrorismo, Azione nonviolenta n.10/2001;
(3) Politica dell’azione nonviolenta, vol 1, Potere e lotta EGA Torino 1985;
(4)Nonviolenza contro capitalismo, si trova in appendice a Giovanni Salio Elementi di economia nonviolenta quaderni di Azione nonviolenta n.16 Verona 2001;
(5)Cfr Il progetto Lilliput: rete, territorio, nonviolenza elaborato dal nodo Lilliput di Reggio Emilia presente sul sito
(6)Marco Revelli Oltre il Novecento La politica, le ideologie e le insidie del lavoro Einaudi Torino 2001 pag.286 (vedi recensione su Azione nonviolenta 10/2001);
(7)La sigla GAN rievoca il primo GAN (Gruppo di Azione Diretta Nonviolenta) che vide la luce in Italia nei primi anni ’60, con il consenso di Aldo Capitini e il coordinamento di Pietro Pinna, e che diede impulso alla diffusione nel nostro paese delle tecniche della nonviolenza, già allora ampiamente sperimentate all’estero. Vedi Nonviolenza in cammino. Storia del Movimento Nonviolento dal 1962 al 1992 Edizioni del Movimento Nonviolento Verona 1998;
(8) Vedi M.K. Gandhi Teoria e pratica della nonviolenza Einaudi Torino 1973
(9)Il problema religioso attuale Guanda Parma 1948, pag. 61 (vedi anche Aldo Capitini Toria della nonviolenza quaderni di Azione nonviolenta n. 6 Perugia 1980)

lunedì 4 luglio 2011

Dieci anni dopo il G 8 di Genova

In preparazione del decennale del G8 di Genova, ripropongo su questo blog le note scritte a caldo, dieci anni fa, appena qualche giorno dopo le tragiche giornate genovesi. Hanno un per me un valore storico/documentario, perchè hanno rapprentato l'avvio di una ricerca personale e collettiva, ma ancora incompleta, su nuovi modi di stare nei conflitti sociali.
Forse, anche in questi giorni - fatte tutte le ovvie e necessarie distinzioni - possono ancora significare qualcosa.



24 luglio 2001

Dopo la trappola di Genova: che fare?


Nonostante il dolore, l'amarezza e la rabbia per quanto avvenuto a
Genova nei giorni passati, cerchiamo di non perdere la lucidità e abbozzare
una prima analisi per provare a capire il perchè di quanto accaduto, a
leggere i nostri errori e a trovare la strada da percorrere adesso.

La trappola

Il Potere da sempre, quando è o si percepisce minacciato, reagisce con
la massima violenza di cui è capace: se necessario spara. Lo fa nella
maggior parte del mondo, lo ha già fatto anche in Italia e lo farà ancora
e, se questo non dovesse bastare, scatanerà la repressione feroce e
indiscriminata.
Il potere politico e militare nel nostro paese è in mano ad un governo
liberista-mafioso-fascista e, per chi ne aveva qualche dubbio, il
comportamento della polizia prima e del suo braccio mass-mediatico poi lo
comprova definitivamente.
Questo potere non aspettava altro che l'occasione per poter sfoderare
tutta la violenza di cui è capace nei confronti di un movimento solido,
vero, dal basso e dalla parte della verità e della giustizia, perciò
fortemente minaccioso. Non aspettava altro che qualcuno gliene fornisse
l'occasione o, almeno, gli fornisse l'opportunità di crearsi l'occasione.

Se l'occasione immediata è stata data dai criminali neri, sia che
fossero sia che non fossero in combutta con la polizia, l'opportunità più
profonda è stata data dal clima di tensione che si è venuto a creare ed è
montato intorno al vertice dei G8: le botte di Napoli, il ragazzo ferito a
Goteborg, l'attenzione mediatica ossessiva su tutto quanto si preparava per
Genova, la mobilitazione dell'esercito, l'annuncio dell'arrivo a Genova da
parte di coloro - antimperialisti, insurrezionalisti e quant'altro - che
non si riconoscevano nelle raccomandazioni del Genoa Social Forum, la
farneticante "dichiarazione di guerra" del portavoce delle tute bianche
(salvo dichiararsi pacifista all'ultimo minuto, ma qualcuno forse a
ventanni l'ha presa sul serio: attenzione, le parole sono pietre e si porta
la responsabilità delle loro conseguenze!), il susseguirsi di esplosioni
nella settimana del Vertice.
E poi l'illusione, da parte del GSF, di poter tenere insieme -
all'insegna del tutti a Genova - ma separate e distinte, in così poco
spazio, tutte le forme di testimonianza e azione, dalla preghiera
all'assalto alla zona rossa, dalle azioni dirette nonviolente ai vandalismi
annunciati: una forma di mobilitazione e contaminazione che ha favorito
l'emergere e l'imporsi, da tutte e due le parti della barricata, di coloro
che sguazzano nel torbido e danno sfogo - in queste occasioni dove si
possono confondere nella massa - alla violenza più brutale di cui sono
capaci. E nessuna azione sembra essere stata prevista per neutralizzali.
E' stata una battaglia campale e, come tutte le battaglie giocate sul
piano militare, ha avuto la meglio chi ha colpito più ferocemente, più
subdolamente, alle spalle e di nascosto.
E i nostri temi e le nostre proposte azzerate dalla violenza.
E' stata una trappola e noi ci siamo cascati. Se ne dovrà parlare
ancora, ma adesso bisogna venirne fuori.

La Rete di Liliput

Con i fatti di Genova il movimento emerso a Seattle entra nella fase
acuta del conflitto. In Italia, rispetto ad altre fasi storiche di lotta di
piazza, questa volta c'è la novità delle Rete di Lilliput: centinaia e
centinaia di associazioni - che quotidianamente lavorano sui temi sociali
ed ecologici - le quali, riunite nei nodi locali, hanno fatto la scelta
della nonviolenza.
La Rete di Lilliput all'interno del movimento di lotta ha, e deve
mantenere e rinforazare, un proprio ruolo fondamentale, delicato e
insostituibile: quello di percorrere la strada stretta che passa tra
l'assenza di conflitto da un lato e il conflitto violento dall'altro (che
conduce alla repressione e ad una nuova stabilizzazione) ossia di lavorare
alla trasformazione del conflitto in senso nonviolento, .
La Rete di Lilliput deve investire le proprie energie per impedire che
un conflitto che coinvolge l'umanità e la natura intera venga condotto nel
cul de sac dello scontro con la polizia (nel quale il potere vuole condurlo
ed ha dimostrato di saperlo fare benissimo); per trovare la via d'uscita
dalla polarizzazione tra due soggetti antagonisti (contestatori vs forze
dell'ordine) che consente al resto del mondo di rimanere spettatore; per
non concedere a nessuno la possibilità di restringere il conflitto ad
affare tra noi ed il potere, ma lavorare per estenderlo, generalizzarlo,
portarlo tra tutti ,coinvolgendo la gente affinchè cominci, grazie alle
nostre azioni, a sentirsi interiormente in conflitto con se stessa ed il
proprio stile di vita e di consumo.
Si tratta di trasformare, lentamente ma profondamente, il consenso che
sostiene il sistema in dissenso ed il dissenso in azione.

Che fare?

Se questo è il servizio prezioso che la Rete di Lilliput può svolgere è
necessario, a mio avviso - soprattutto e urgentemente dopo Genova -
compiere alcune scelte strategiche necessarie alla trasformazione
nonviolenta del conflitto.
Gli obbiettivi di mantenere la possibilità di agire nelle piazze, di
ridurre al massimo la possibilità di degenerazioni violente, di mettere il
potere nell'impossibilità - o nella difficoltà estrema - di utilizzare il
suo apparato repressivo e di comunicare a più persone contemporaneamente le
nostre ragioni, possono essere tenuti insieme oggi, a mio avviso, solo
declinando la modalità lillipuziana reticolare, adottata come forma
organizzativa della Rete, anche come strumento di mobilitazione.

A tal fine bisogna, per un verso, lasciare modalità di azione ormai
usuali ma sempre più inefficaci o addirittura controproducenti:
1) abbandonare la rincorsa dei vertici del potere: uscire dalla
subalternità degli spazi e dei tempi di manifestazione imposti dalle loro
agende, che ci portano a scendere in piazza dove e quando vogliono i potenti;
2) uscire dalla logica della uguaglianza nella diversità, e della
contemporaneità, delle forme di lotta, adottata dal GSF: le forme che non
sono coerentemente nonviolente nei mezzi, nei fini, nella comunicazione,
nell'immaggine, fanno il gioco del potere. Non bisogna manifestare dove
manifestano compagni di strada che non condividono le nostre forme.
3) uscire dalla logica delle manifestazioni di massa che, in questa
fase, sono il ricettacolo di coloro che intendono sfidare il potere sul
piano, reale o simbolico, della forza e sempre più si trasformano in campi
di battaglia, a tutto vantaggio di chi vuole criminalizzare il movimento.

Per altro verso, bisogna strutturare una modalità di azione nuova,
nonviolenta, lillipuziana, reticolare:
1) creare presso ogni nodo, o insieme di nodi limitrofi, un gruppo di
azione nonviolenta GAN (dove sono stati costituiti gruppi di affinità tanto
meglio, che non si sciolgano);
2) avviare un programma di formazione per ciascun GAN serio e e
approfondito, teorico e pratico, sul metodo nonviolento e sulle sue
tecniche;
3) quando sarà completata la formazione, strutturare un' agenda di
azioni nonviolente locali concordate e contemporanee su tutto il territorio
nazionale, in base alle nostre priorità, di tempi e di temi (per esempio
per raggiungere un obbiettivo più avanzato in una campagna di boicottaggio,
o per fare un'azione di comunicazione efficace su un tema particolarmente
importante, per fare una contestazione capillare e diffusa ecc.).
Questa strategia lillipuziana e nonviolenta può consentire - se
attuata con persuasione, preparazione e organizzazione - di portare
efficacemente le nostre tematiche sui nostri territori, di comunicare a
viso aperto con i nostri concittadini che spesso ci conoscono - conoscono
il nostro impegno e lavoro quotidiano - e sanno che non siamo vandali
calati da chissà dove, di impedire - visti i numeri ridotti e non
trattandosi di manifestazioni ma di azioni dirette condotte da chi le
organizza - le infiltrazioni di provocatori (e comunque ci si prepara,
eventalmente, per isolarli, escluderli, consegnarli alla polizia o
sospendere l'azione), di rendere inutilizzabile l'apparato repressivo del
potere sia nella forma violenta che in quella disinformativa, perchè senza
alcun alibi e perchè tutto si svolge sotto gli occhi della nostra gente e
della stampa dei nostri paesi e città.