venerdì 16 aprile 2010

Conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire: "più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo" (Alex Langer)

di Pasquale Pugliese

(articolo pubblicato su "Azione nonviolenta", aprile 2010)

Le relazioni interculturali, che sono prima di ogni altra cosa relazioni tra persone che fanno riferimento a valori, norme e pratiche costruite in contesti e cornici culturali differenti, portano con sé un gradiente ineliminabile di conflittualità, dovuto alla co-esistenza su uno stesso territorio di stili di vita in parte – reciprocamente - differenti. E poiché queste relazioni – che accompagnano da sempre la storia dell’umanità - caratterizzano anche l’attuale varco della società italiana, rendendola sempre più complessa, è necessario oggi più che mai elaborare saperi diffusi capaci di sostenere le relazioni conflittuali, mettendone a valore l’arricchimento reciproco, al di là degli elementi di scontro. Se ciò non avviene, il dato conflittuale diventa predominante, fagocita tutto il resto e genera diffusione di paure, di insicurezza e quindi di razzismo. E il razzismo, una volta innescato si fa pian piano sistema e si sviluppa sui vari livelli della discriminazione: quello “culturale” e mass mediatico, quello normativo e legislativo e infine quello direttamente agito sui corpi dei migranti, in un circuito in cui le varie dimensioni si alimentano e rinforzano reciprocamente. E questo è proprio ciò che sta avvenendo in questa fase in Italia.
Perciò, parafrasando san Paolo (e citando Joan Galtung, che individua i tre elementi necessari per operare la trasformazione dei conflitti), a proposito dei saperi oggi indispensabili, potremmo dire: "queste sono le cose che rimangono: la nonviolenza, la creatività e l’empatia, ma (nei conflitti interculturali) tra tutte la più importante è l’empatia".

L’empatia per una convivenza dialogica
La filosofa Laura Boella, nel suo interessante lavoro sul "Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia" (Raffaello Cortina Editore, 2006) così definisce questo sapere: "l’empatia è l’atto attraverso cui ci rendiamo conto che un altro, un’altra, è soggetto di esperienza come lo siamo noi: vive sentimenti ed emozioni, compie atti volitivi e cognitivi. Capire quel che sente, vuole e pensa l’altro è elemento essenziale della convivenza umana nei suoi aspetti sociali, politici e morali. E’ la prova che la condizione umana è una condizione di pluralità: non l’Uomo, ma uomini e donne abitano la Terra". Questo atto è possibile solo attraverso l’incontro con l’altro, scoprendosi inevitabilmente dentro la relazione. E la Boella alcune pagine più avanti aggiunge: "l’emozione dell’ incontro è questo: lo sconvolgimento, lo stupore, la sorpresa derivanti dal nascere di una ricerca destata dall’apparizione dell’altro". Naturalmente, quanto più l’altro è altro, differente e portatore di differenze, tanto maggiore sarà lo sconvolgimento e tanto più sarà necessario operare una "ricerca", ossia apprendere a praticare l’empatia. Che, detto con una metafora corrente, significa mettersi nei suoi panni, "mettersi nei panni dell’altro".
Ma anche nell’empatia vi sono diverse gradazioni: c’è un livello massimo che coincide con la santità come praticata dal poverello di Assisi, Francesco, che sveste i suoi panni di ricco borghese e di cavaliere armato, per vestire - realmente - i panni degli altri del tempo, "i minores", i più poveri (e con questi nuovi panni può andare anche a trovare un altro altro, il sultano d’Egitto); o un livello di pari grandezza che è quello di Gandhi che sveste progressivamente i panni di avvocato dell’Impero britannico per cucire - realmente - e vestire i panni degli altri, della moltitudine dei poveri indiani. Ma all’interno delle relazioni interculturali non a tutti è chiesto di eguagliare questi livelli massimi di empatia: è sufficiente provare ad uscire dalle proprie cornici culturali, a decentrarsi dal proprio egocentrismo (o “egotismo”, come direbbe Aldo Capitini), cercando di guardare il mondo anche con gli occhi degli altri. A capire, e rispettare, il loro punto di vista sulle cose, anche se molto distante dal nostro. Ciò corrisponde alla 3^ regola dell’”arte di ascoltare”, delle sette proposte da Marianella Sclavi: "se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva" ("Arte di ascoltare e mondi possibili", Bruno Mondatori editore, 2003). Anche se non parla la tua lingua ed ha una prospettiva completamente differente. Nasce da qui la possibilità dell’unica convivenza possibile nel tempo della globalizzazione, della complessità e dei conflitti, quella che Ramin Jahanbegloo (autore di "Leggere Gandhi a Teheran". Marsilio 2008) chiama la "convivenza dialogica".

Guardare gli altri senza empatia
Altrimenti, senza il filtro relazionale dell’empatia, l’incontro con gli altri, piuttosto che convivenze dialogiche, genera l’avvio di quei meccanismi di difesa ed esclusione studiati dagli psicologi sociali (vedi per esempio di Giuseppe Mantovani "Intercultura". Il Mulino 2004 e "L’elefante invisibile". Giunti 2005) che portano dalle categorizzazioni mentali agli stereotipi, dagli stereotipi ai pregiudizi e dai pregiudizi alla discriminazione, cioè al razzismo. Senza scomodare le vicende più tragiche e terribili della storia del ‘900, che hanno avuto come motore proprio le ideologie fondate sul razzismo, questa narrazione dell’incontro non empatico con gli altri è possibile trovarlo nel cuore stesso delle società democratiche:
"generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche de legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra di loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini sempre anziani invocano pietà con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro…"
Questo testo di circa un secolo fa (citato da Marco Aime in "La macchia della razza". Ponte alle Grazie 2009), non parla degli albanesi o dei rumeni o dei rom, bensì degli italiani visti dall’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso degli USA nel 1912. Ma lo sguardo privo di empatia, tendente a costruire un modello umano altro, alieno, inchiodato alla sua “naturale” ed irriducibile differenza, senza alcun tentativo di com-prensione delle ragioni che fondano agiti e comportamenti presenti in tutti processi migratori, è lo stesso con il quale vengono sbrigativamente riassunti oggi in Italia i tratti degli “extracomunitari” e dei “clandestini”, parole passpartout e offensive volte, più che a definire i migranti, a segnalarne l’essenziale “alienità” e minacciosità.
Ciò non è dovuto solo al tradizionale “provincialismo” della società italiana, che adesso si scopre multiculturale ma impreparata sui saperi della complessità, bensì risponde ad una precisa strategia mediatica che fa della costruzione ed alimentazione della paura un business politico: più la gente ha paura più è alimentato il suo bisogno di sicurezza, che viene venduto dalla destra egemone sul mercato del consenso elettorale. E’ la strategia della paura, che per vivere ed alimentarsi ha bisogno della definizione di una riconoscibile minaccia interna.

La costruzione della minaccia interna: due ricerche
La strategia della paura prevede la costruzione quotidiana dell’insicurezza attraverso quella che il “Terzo rapporto sulla sicurezza in Italia” ( realizzato da Demos per la Fondazione Unipolis, in collaborazione con Osservatorio di Pavia), presentato nello scorso gennaio dal suo coordinatore Ilvo Diamanti, definisce la “bolla dell’insicurezza mediatica”, di cui se ne possono apprezzare i contorni mettendo a confronto i telegiornali italiani ed europei:
"dal confronto sulla criminalità tra i principali telegiornali pubblici e privati europei di Italia,
Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna nel periodo 2008-2009 si ricavano alcune significative peculiarità :
− la quantità di notizie relative alla criminalità in Italia è superiore a quella degli altri paesi
europei, soprattutto nelle reti pubbliche. Il Tg1 ha il doppio di notizie del Tg spagnolo e
venti volte in più rispetto al telegiornale tedesco;
− la pagina della criminalità in Italia è costante, l’agenda dei telegiornali francesi, inglesi,
tedeschi e spagnoli non rileva la presenza quotidiana di notizie criminali. L’agenda di quelli
italiani, invece, prevede almeno due notizie di criminalità tutti i giorni;
− la copertura mediatica della criminalità “comune” è una peculiarità dei telegiornali
italiani; nei telegiornali degli altri paesi europei, notizie di furti, rapine, incidenti
automobilistici non trovano rappresentazione, viceversa in quelli italiani i reati comuni
occupano circa il 60% di tutta la pagina dedicata alla criminalità".
(si può scaricare una versione sintetica della ricerca dal sito www.demos.it)
Per cui, seppur i reati contro la persona in Italia sono in costante calo da molti anni, la percezione diffusa è che vi sia invece un pericolo costante in agguato per tutti e per ciascuno all’interno delle nostre città. Il passo successivo nella strategia della paura è identificare nei migranti i soggetti portatori della minaccia. I quali, nelle rappresentazioni mediatiche non hanno volto e voce, non esistono, se non quando possono essere identificati come devianti e/o coinvolti in fatti di cronaca nera. Questo si evince chiaramente da un’altra indagine, la “Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani”, di qualche settimana anteriore alla precedente (dicembre 2009), a cura della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma, diretta da Mario Porcellini, che nell’introduzione tra le altre cose scrive:
"il ritratto delle persone straniere immortalato dai media si può così riassumere: è spesso un criminale, è maschio (quasi all’80%) e la sua personalità è schiacciata sul solo dettaglio della nazionalità o della provenienza “etnica” (presente spesso nel titolo delle notizie). (…) L’immigrazione viene raramente trattata come tema da approfondire e, anche quando ciò avviene, è accomunata alla dimensione della criminalità e della sicurezza. Anzi, la congiunzione e sovrapposizione del fenomeno migratorio e della sicurezza appare il paradigma interpretativo privilegiato dai media nei loro racconti delle attuali dinamiche in atto nel contesto italiano (…) Le parole, dunque, contribuiscono a tematizzare la presenza degli immigrati in Italia con un riferimento forte alla minaccia costituita dagli stranieri alla sicurezza degli italiani".
(si può scaricare una versione sintetica della ricerca dal sito www.unhcr.it)
La saldatura di insicurezza e migrazione nella percezione diffusa dell’opinione pubblica è dunque il lievito del razzismo.

Più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo
Che fare di fronte a questa strategia della paura che, attraverso la costruzione di una identificabile minaccia interna, fonda in Italia un sistema razzista sempre più ramificato ed articolato? Insieme alle necessarie lotte antirazziste a fianco delle vittime della discriminazione, Alex Langer ci indica la strada di un vero e proprio “programma costruttivo”, che fonda i saperi della con-vivenza, ossia della relazione empatica e dialogica tra differenti: "conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire". In mancanza di strumenti mediatici positivi altrettanto potenti di quelli che diffondono insicurezza e paura, è solo attraverso la conoscenza diretta della realtà e delle persone in carne ed ossa che in essa vivono che è possibile ridimensionare, e forse infine bucare, la “bolla mediatica” che ne dà una rappresentazione distorta e minacciosa. Solo conoscendosi, incontrandosi, comunicando e facendo delle cose insieme, si scoprirà che l’altro è prima di tutto un essere umano e che nessuno (se non i fondamentalisti di qualunque latitudine, padana e no) ha un’identità unica, ferma e irriducibile, ma tutti – personalmente e collettivamente - siamo in evoluzione verso una nuova civiltà, che come tutte le precedenti sarà meticcia. "La convivenza", scrive Langer a commento del terzo punto del “Decalogo per la convivenza inter-etnica”, "offre e richiede molte possibilità di conoscenza reciproca. Affinché possa svolgersi con pari dignità e senza emarginazione, occorre sviluppare il massimo possibile livello di conoscenza reciproca. “Più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo”, potrebbe essere la controproposta allo slogan separatista"…e razzista.

lunedì 12 aprile 2010

Si scrive sicurezza si legge razzismo. Ecco la politica della paura

di Pasquale Pugliese

(articolo pubblicato su "Azione nonviolenta" n. 7/2009)

Sicurezza. Una parola alla deriva

La parola sicurezza, che tecnicamente significa protezione dai pericoli e dalla paura, ha spesso subito nel linguaggio politico un destino analogo a quello di altre parole (per esempio pace o libertà) che hanno avuto una costante deriva semantica che le ha infine ribaltate nel loro contrario. Creando un danno irreparabile non solo alla lingua, che sarebbe il meno, ma nella pratica delle relazioni umane.
Fino alla caduta del muro di Berlino, nelle relazioni internazionali, si diceva di sicurezza e si intendeva la corsa agli armamenti. Ossia si mascherava dietro alla retorica della sicurezza la follia di una continua escalation nucleare che avrebbe potuto – anziché proteggere le persone dai pericoli – distruggere più volte l’umanità. I blocchi politico-militari contrapposti sono infine crollati nell’89, ma il pericolo nucleare è rimasto ancora oggi incombente sulla testa di tutti. Senza sicurezza per nessuno.
Dopo il 2001, con un altro crollo, questa volta quello delle torri gemelle di New York l’ideologia della sicurezza si trasforma ancora nel suo contrario: nell’alimentazione della paura, derivante non più da un “pericolo rosso” ma da un supposto “pericolo islamico”. Come ciò sia avvenuto in maniera scientifica e deliberata è raccontato, tra gli altri, da Loretta Napoleoni e Ronald J. Bee nel loro libro I numeri del terrore. Perché non dobbiamo avere paura (Il Saggiatore, 2008) che così inizia: “tutti sanno che i terroristi fanno leva sulla paura per raggiungere i loro scopi, pochi però sono consapevoli che i capi di stato ricorrono alla medesima tattica. E non si tratta di un fenomeno nuovo: la politica della paura è una strategia subdola orchestrata per raccogliere consensi, spesso per imporre politiche altrimenti impopolari.” Nel nome della sicurezza, s’intende. E continua qualche pagina più avanti: “il timore di un nemico tanto potente e malvagio è penetrato velocemente nella nostra società e ci ha convinti che in quanto singoli siamo tutti suoi bersagli. Attorno a questa psicosi i politici e i media hanno costruito a tavolino la <>”.
Rinforzata anche da questa incalzante e globale “politica della paura”, in Italia la parola sicurezza ha subito un’ulteriore deriva negativa: è diventata sinonimo di insofferenza, intolleranza, odio ed infine repressione nei confronti degli immigrati. Questa nuova retorica della sicurezza sta segnando i passaggi della costruzione del nuovo razzismo in atto in questo momento in Italia, sia su un piano ideologico che legislativo. Le dichiarazioni dei massimi vertici del governo italiano – amplificate, ribadite e rinforzate dai media di regime - sono infatti altrettanto pericolose dei vari “decreti sicurezza” perché definiscono i contorni di una vera e propria “pedagogia razzista”, che incanala contro i più deboli ed indifesi la “paura liquida” (Bauman) che pervade la vita precaria di molti. E mentre le leggi potranno forse in futuro essere modificate da una diversa maggioranza politica, i danni di questa pedagogia negativa rimarranno a lungo. Del resto non è un fatto nuovo nella storia d’Europa: anche la crisi finanziaria del 1929 fu il pretesto per scaricare su un altro “altro” – gli ebrei – le responsabilità della catastrofe economica, costruire l’ideologia antisemita e, con essa, aprire le porte alla scalata al potere del nazismo.
“Non vogliano un’Italia multietnica” (presidente del consiglio, Berlusconi); con i clandestini “bisogna essere cattivi” (ministro dell’interno, Maroni); sui tram di Milano “posti riservati ai milanesi ed alle persone perbene” (deputato al parlamento, Salvini), perché “Milano sembra una città africana” (ancora Berlusconi): sono solo alcune delle formule utilizzate dai vertici del potere italiano, in queste ultime settimane, per delineare la costituzione materiale razzista del nostro paese – antitetica a quella in vigore - incontrando il favore di una parte consistente (e nel Nord-Est maggioritaria) delle “gente” a cui si rivolgono e da cui - proprio per questo - ricevono il consenso.


La vere “emergenze sicurezza”

Dunque, è proprio il razzismo una della vere “emergenza sicurezza” presenti oggi in Italia, che si aggiunge e, in qualche modo, si salda con le altre vere “emergenze sicurezza”, che mettono seriamente in pericolo la tenuta democratica del nostro paese. Ma di queste il governo non si occupa. O, se lo fa, è – come per il razzismo - per aggravarle.
Proviamo a metterne brevemente a fuoco almeno altre tre.

1. Le mafie
Ormai (come ha scritto nella propria relazione l’ultima Commissione parlamentare antimafia che ne ha redatta una, quella guidata da Francesco Forgiane nella precedente legislatura) in alcune regioni italiane lo Stato ha completamente ceduto il proprio potere alle mafie. Per esempio, in Calabria bisogna constatare che è ormai lo Stato che si deve «“infiltrare” nel tessuto sociale, mentre, viceversa, l’infiltrazione ’ndranghetista nelle amministrazioni pubbliche (Comuni, Asl, Regione) le consente di “controllare” in modo sistematico il flusso economico degli appalti pubblici, della sanità, dei finanziamenti nazionali ed europei». A partire da questo dominio praticamente incontrastato nei territori d’origine, la ‘ndrangheta si proietta con prepotenza nel circuito economico e politico nazionale e internazionale fino a diventare “l’unica organizzazione mafiosa ad avere due sedi; quella principale in Calabria, l’altra nei comuni del centro-nord Italia oppure nei principali paesi stranieri”. Una mafia “liquida” (Bauman) nella sua capacità espansiva e colonizzatrice e nello stesso tempo arcaica nella sua violenza efferata, la cui “diffusione planetaria si accompagna a un’intensificata ossessione per il controllo (militare, politico, amministrativo, affaristico) dei territori di competenza”.
Ma questo terrificante scenario nazionale e questa nostra vera – questa sì - invasione internazionale non è una priorità né sui mezzi di comunicazione né nelle agende della politica.

2. L’analfabetismo
Rispetto a quest’altra emergenza, che come la mafia dovrebbe riguardare il passato remoto del nostro paese ma invece riguarda drammaticamente il nostro presente e il nostro futuro, riporto alcuni stralci di un articolo del linguista Tullio de Mauro pubblicato sul n. 734 di Internazionale del 6 marzo 2008, che analizza l’esito di alcune ricerche internazionali.
“Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un’altra, una cifra
dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare
qualche cifra. Trentatre superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”. E continua, “tra i paesi partecipanti all’indagine l’Italia batte quasi tutti. Solo lo stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori. I dati sono stati resi pubblici in Italia nel 2001 e nel 2006. Ma senza reazioni apprezzabili da parte dei mezzi di informazione e dei leader politici”.
Il razzismo crescente nei discorsi del governo e nei suoi decreti legge, che trova consensi enormi tra le persone che non distinguono tra le vere e le false emergenze sicurezza, non ha forse a che fare con questa condizione di analfabetismo di massa?

3. L’informazione
Ogni anno, il 3 maggio, in occasione della Giornata Internazionale della Libertà di Stampa, l’associazione no-profit statunitense Freedom House (fondata da Eleanor Roosvelt) stila un rapporto sulla libertà di stampa nel mondo relativo a 195 paesi. Di questi i primi 70 sono giudicati “liberi”, i successivi 61 sono “parzialmente liberi”, gli ultimi 64 sono “non liberi”. Per la prima volta, quest’anno l’Italia scivola al 73esimo posto collocandosi tra i paesi “parzialmente liberi”, unico paese dell’Unione Europea. Nel comunicato della Ong si legge, tra le motivazioni, che l’Italia è stata declassata per “le limitazioni imposte dalla legislazione, per l'aumento delle intimidazioni nei confronti dei giornalisti da parte del crimine organizzato e di gruppi dell'estrema destra, e a causa di una preoccupante concentrazione della proprietà dei media”. Se l’Italia fosse un paese libero questo giudizio di un’organizzazione indipendente internazionale sarebbe considerato dall’opinione pubblica un attentato alla democrazia e, in ultima analisi, alla sicurezza dei cittadini, ma poiché siamo, appunto, “parzialmente liberi” anche questa informazione è passata praticamente inosservata.


Solo la nonviolenza può dare vera sicurezza

La continua manipolazione politico-mediatica - che fa buon uso del sostanziale analfabetismo degli italiani e rende l’Italia un paese “parzialmente libero”, oltre che dominato in parte dalla mafia che esportiamo in giro per il pianeta - distoglie l’attenzione dalle vere “emergenze sicurezza” e, attraverso la “politica della paura”, la indirizza contro la presenza degli immigrati, alimentando così un’ulteriore emergenza reale, il razzismo diffuso, fondato sulla precarietà economica ed esistenziale e sulla solitudine delle persone. “La solitudine fa crescere la paura” scrive Marco Aime “e ci inventiamo un nemico comune per credere di essere uniti e solidali” (La macchia della razza, Ponte alla grazie, 2008). La paura dell’altro, in realtà, fa aumentare il senso di insicurezza che crea dell’altra paura in un circuito perverso e senza fine. Che infine genera mostri sociali e politici.
Questo circuito perciò va interrotto, prima che sia troppo tardi.
Ancora una volta credo che la nonviolenza ci possa aiutare. Sia nella lotta contro la legislazione razzista che si sta impiantando in Italia, sia nella costruzione di una pedagogia positiva, rivolta agli adulti ancor prima che ai ragazzi, alternativa rispetto a quella egemonica che sta facendo assumere agli italiani “un volto spietato e crudele, egoista e violento” (Raniero La Valle, Nuovo volto crudele, Rocca, 11/2009).
Rispetto alle forme di lotta, l’obiezione di coscienza e la disobbedienza civile rimangono i principali strumenti di azione per quei cittadini italiani che sentono ancora la responsabilità di opporsi a quanto sta avvenendo nel nostro paese. Ma accanto a ciò bisognerà ricominciare a studiare con attenzione la pratiche dei movimenti per i diritti civili degli afro-americani negli Stati Uniti, guidati da Martin Luther King. E bisogna farlo insieme alle associazioni degli immigrati, prima che l’oppressione generi in essi rassegnazione o contro-violenza.
Contemporaneamente va ripresa con forza la dimensione educativa della nonviolenza, che in Italia ha avuto importanti figure di riferimento in Aldo Capitini, Lorenzo Milani e Danilo Dolci, per ricostruire un tessuto culturale ed antropologico fondato sull’umanità. All’interno del quale la sicurezza, che è un bisogno primario dell’essere umano, sia edificata su quelle solide basi - la forza d’animo, il potere personale e il legame sociale – che stanno a fondamento dell’approccio nonviolento.
Vediamo.
La forza d’animo è alla radice del “satyagraha”, la gandhiana fermezza nella verità, che ha il suo presupposto nella fermezza di sé, ossia in quella forza costruttiva personale che è esattamente il contrario della paura: è il coraggio. La forza d’animo non è una “dote” naturale, ma un apprendimento frutto di un’educazione attenta ai bisogni di ciascuno.
Il potere personale è la capacità di agire e incidere nella realtà; non è riferito al sostantivo “il potere” ma alle declinazioni del verbo “potere”: io posso. Anche il potere personale non è definito una volta per tutte dal destino, ma dipende dalla possibilità data a ciascuno di strutturare una personalità con un buon livello di autostima, di abnegazione, di pazienza e di tenuta. Elementi che consentono di sconfiggere il senso di impotenza di fronte agli eventi.
“La violenza è un potere disintegrativo, mentre la nonviolenza è un potere integrativo”, scrive Michael Nagler, “e può essere appreso” (Per un futuro nonviolento, Ponte alle Grazie, 2005). Infatti, la forza d’animo e il potere personale, fattori di sicurezza personale, generano la sicurezza collettiva nella misura in cui aiutano a costruire il legame sociale, quella dimensione di benessere relazionale che è stata disintegrata dalla violenza sociale e culturale dell’individualismo, dell’odio e, infine, della solitudine. Si tratta dunque di re-imparare a tessere le reti sociali per fare comunità aperte e solidali, che danno sicurezza e forza perché non si fondano sulla paura dell’altro.
Naturalmente siamo solo all’inizio tanto della lotta anti-razzista quanto della ricostruzione di un nuovo modello solidale di società, ma sappiamo che quando si agisce consapevolmente nella direzione giusta i risultati, prima o poi, arriveranno. Come negli USA, dove i giornali riportavano di uno striscione issato a Washington nei giorni dell’elezione del Presidente Obama, in cui c’è scritto: “Rosa (Park’s) si è dovuta sedere perché Martin (Luther King) potesse camminare; Martin ha marciato perché Barak potesse correre; Barak corre perché i nostri figli possano volare”.
Oggi negli USA, domani in Italia.

venerdì 2 aprile 2010

la nonviolenza nel passaggio alla società transculturale

Articolo pubblicato sul numero di ottobre 2005 della rivista "Azione nonviolenta"


Un tragico luglio
Ho scritto le righe che seguono nel tragico luglio del 2005 segnato dai 56
morti degli attentati di Londra e dagli oltre 80 di Sharm El Sheikh (oltre
alle centina di civili iracheni che nessuno ormai conteggia piu'),
dall'evocazione (o sarebbe meglio dire l'invocazione?) sui media dello
"scontro di civilta'" e dalla messa a punto, in un parlamento mai tanto
bipartisan, del giro di vite repressivo ed espulsivo nei confronti degli
immigrati (in specie clandestini) come misura di sicurezza. E dire che il
mese si era aperto con il decennale dell"eccidio di Srebrenica, in cui la
tragedia (7.000 musulmani bosniaci uccisi in cinque giorni dai serbi
cristiani) si era svolta a ruoli invertiti...
Le ho scritte perche' credo che sia un terribile errore lasciarsi chiudere
nella spirale di paura e violenza che tanti cattivi maestri, da una parte e
dall'altra, stanno irresponsabilmente alimentando, in un macabro gioco
globale in cui guerra, terrorismo e repressione si alimentano a vicenda. Mi
pare invece importante fermarsi a riflettere su un elemento decisivo, quanto
trascurato: i quattro attentatori suicidi di Londra erano figli di pakistani
immigrati in Inghilterra all'inizio degli anni '90, gente che ha lavorato
sodo, ha fatto di tutto per integrarsi e si e' costruita una famiglia e una
posizione attraverso una vita dedicata al sacrificio per affermarsi
socialmente. "Gli attentatori suicidi di Londra", come ha scritto a caldo
Khaled Fouad Allam, "sono l'espressione estrema di una generazione
euro-musulmana che e' 'borderline', che non si riconosce ne' nella cultura
dei genitori ne' in quella occidentale. Essendo priva di riferimenti, e'
alla ricerca di un'identita' che rischia di essere offerta solo dai cattivi
maestri del jihadismo" (1). Ossia giovani invischiati nell'escalation di un
personale conflitto interculturale che l'ideologia terrorista ha infine reso
armi viventi.
Insieme all'impegno per il ritiro dall'Iraq delle truppe occupanti - le cui
atrocita' fanno parte dei video di propaganda dell'internazionale del
terrore per il reclutamento dei nuovi "martiri" -, capire che cosa accade
quando persone appartenenti a culture differenti con-vivono sullo stesso
territorio, quali sono i conflitti profondi (anche in senso personale e
temporale) che si aprono, e fare un investimento di idee e di risorse sulla
loro mediazione e trasformazione nonviolenta, penso sia oggi il piu'
importante passo politico e culturale verso la sicurezza di tutti.
Questi appunti vogliono essere un piccolo contributo.
*
Culture e conflitti
Se, come sostiene J. Galtung, gli stadi evolutivi nelle relazioni
interculturali sono quattro - intolleranza, tolleranza o multiculturalismo
passivo (societa' multiculturale), dialogo o multiculturalismo attivo
(societa' interculturale), transculturalismo (societa' transculturale) (2) -
il passaggio dall'uno all'altro non e' lineare ne' indolore.
La societa' italiana negli ultimi quindici-venti anni sta attraversando
un'accelerazione di complessita' dovuta al crescente ingresso di popolazione
immigrata, proveniente dai diversi meridioni ed orienti del mondo, e
l'incontro con persone portatrici di culture altre ha visto diverse
velocita' nel passaggio da uno stadio all'altro delle relazioni reciproche:
in alcuni contesti e situazioni sembra di essere fermi allo stadio
dell'intolleranza, in altri si aprono spazi di dialogo che anticipano la
societa' inter e trans-culturale.
Poiche' le dinamiche globali del sistema-mondo lasciano prevedere una
crescita costante delle presenza di cittadini stranieri sul territorio
italiano, dobbiamo prefigurarci - nonostante le miope legislazione nazionale
e le rozze politiche pseudosecuritarie che incentivano la xenofobia - una
societa' che diventera' nel futuro prossimo progressivamente
trans-culturale, ossia trasformata culturalmente dagli innesti apportati
dalle differenti culture che sempre piu' abiteranno i "nostri" luoghi.
L'incontro tra le differenze e' naturalmente generatore di conflitti, anzi -
come dice bene Giuseppe Bugio - "incontriamo un conflitto ogni volta che
incontriamo una differenza. Conflitto e' un altro nome della differenza"
(3). E poiche' la cultura, come ci ricorda ancora Galtung, rappresenta il
profondo, "il subcosciente collettivo di significati condivisi: le norme che
non passano per il cervello che abbiamo in testa, ma si ancorano piuttosto
al cervello che abbiamo nello stomaco" (4), e' facile prevedere un
inasprimento dei conflitti interculturali che, se lasciati a se stessi, non
governati - ne' mediati ne' trasformati - possono innescare processi
incontrollabili di escalation. Si tratta allora di non nascondere o
sottovalutare o demonizzare i conflitti interculturali, ma di attrezzarsi
per affrontarli e trasformarli affinche' da potenziale terreno di scontro
diventino feconda occasione di incontro.
A questo scopo le culture e le pratiche della nonviolenza mi sembra siano
dotate di strumenti concettuali e metodologici adeguati, sia perche' ormai
affinati sui molteplici fronti dei conflitti (diretti, strutturali e,
appunto, culturali), sia perche' molte delle piu' significative esperienze
di nonviolenza del secolo scorso si sono confrontate proprio con queste
questioni. Gandhi ha elaborato il nucleo fondamentale del satyagraha in
Sudafrica attraverso il confronto con il segregazionismo e poi, una volta in
India, si e' misurato ed e' stato infine sopraffatto dal conflitto tra
islamici ed induisti, e Martin Luther King ha fatto della lotta contro le
leggi segregazioniste negli Usa lo scopo di una vita - solo per citare i
casi piu' noti e paradigmatici. Da noi, Alex Langer, e' stata la voce che
piu' di altre si e' levata come monito a porre attenzione alle questioni
interculturali, anche in relazione all'esplosione della guerra nei Balcani:
"esplosioni di razzismo, sciovinismo, razzismo, fanatismo religioso, ecc.
sono tra i fattori piu' dirompenti e distruttive della convivenza civile che
si conoscano (piu' delle tensioni sociali, ecologiche o economiche), ed
implicano praticamente tutte le dimensioni della vita collettiva: la
cultura, l'economia, la vita quotidiana, i pregiudizi, le abitudini, oltre
che la politica o la religione. Occorre quindi una grande capacita' di
affrontare e dissolvere la conflittualita' etnica" (5).
Percio' e' utile provare a mettere insieme qualche elemento che ci aiuti a
tracciare dei segni nonviolenti di orientamento sul terreno dei conflitti
interculturali, senza alcuna pretesa di organicita'.
*
Le arene dei conflitti interculturali
I conflitti interculturali, proprio perche' rimandano alla dimensione piu'
profonda delle relazioni umane, hanno la caratteristica di potersi
sviluppare sui diversi piani della scala quantitativa e dell'intensita'
qualitativa. Usando la griglia elaborata da Arielli e Scotto (6), possiamo
esemplificare alcune arene dei conflitti interculturali che ci danno il
senso di quanto sia ampio lo spettro delle situazioni che possono rientrare
in questa definizione:
[Segue una tabella che incrocia i dati lungo l'asse verticale secondo le
rubriche: a) Conflitti intra-unita' e b) conflitti inter-unita'; e lungo
l'asse orizzontale secondo le rubriche: 1) Persona (micro), 2) Gruppo
(meso), 3) Societa'/stati (macro); dando luogo a alla seguente disposizione
nel quadrante:
a1: Senso di spaesamento e separatezza tra la cultura di riferimento
familiare e quella di accoglienza che vivono, soprattutto, i bambini e gli
adolescenti di famiglie immigrate.
b1: Forme di pregiudizio e atteggiamenti di discriminazione che attraversano
molte relazioni inter-individuali nei diversi ambiti della vita sociale.
a2: Diffidenza all'interno di alcune comunita' rispetto ai membri del gruppo
maggiormente integrati (o assimilati) alla cultura ospitante.
b2: Tensioni tra comunita' culturali differenti che abitano lo stesso
territorio (es.: scontri tra bande giovanili composte per nazionalita' di
riferimento).
a3: Rivendicazioni civili politiche e sociali da parte delle minoranze
religiose, culturali e nazionali presenti sul territorio dello Stato.
b3: Guerre e terrorismo internazionale interpretate come
Scontro di civilta' (Samuel Huntington), ossia la "profezia che si
autoavvera" (come evidenziano efficacemente Arielli e Scotto, "gli
interventi statunitensi e occidentali nel Medio Oriente vengono sempre piu'
percepiti nei termini dello "scontro tra civilta'", e testi come quelli di
Huntington non si limitano a "chiarire" il fenomeno, ma contribuiscono in
parte a produrlo, perche'' incentivano una cultura dello scontro" (7))]
Apparentemente distinte, le diverse - realistiche - rappresentazioni
proposte hanno un filo che le lega. Per esempio, credo che sarebbe molto
interessante ricostruire la storia del processo di dis-integrazione degli
attentatori suicidi nella metropolitana di Londra, cittadini britannici a
tutti gli effetti. Che esito hanno avuto i diversi conflitti interculturali
che hanno attraversato le loro storie di vita personali?
*
Comunicazione e cornici culturali
"Non si puo' non comunicare" afferma il primo assioma di Watzlawick nella
Pragmatica della comunicazione umana (8). Ossia anche quando la nostra bocca
tace il nostro corpo parla, attraverso la postura, l'espressione del viso,
la vicinanza, la gesticolazione ecc. Nel continuo flusso comunicativo
coesistono, infatti, due livelli di espressione, quello esplicito del
contenuto detto e quello implicito, simbolico, sulla relazione tra i
comunicanti che fornisce le informazioni su come interpretare il contenuto.
E' questa la meta-comunicazione, la cui interpretazione corretta e' la
condizione indispensabile per lo svolgimento di qualsiasi comunicazione
efficace. Al di la' delle diversita' di codici linguistici e' infatti
proprio la diversita' dei codici simbolici che differenzia sostanzialmente
la comunicazione intra-culturale da quella inter-culturale. Come spiega
Graziella Favaro, "nella prima cio' che tutti diamo per scontato in quanto
membri di uno stesso contesto culturale ci aiuta a comprenderci l'un
l'altro; nel secondo caso cio' che diamo per scontato puo' ostacolare o
rendere piu' difficile la comunicazione reciproca" (9). Infatti, ciascuno
dei comunicanti di differente cultura utilizza competenze comunicative
diverse, efficaci e pertinenti nei propri contesti di riferimento, ma
probabilmente inefficaci - inopportuni o disorientanti o addirittura
controproducenti - in altri contesti. E cio' e' spesso causa di piccoli e
grandi "incidenti interculturali" che possono dare luogo all'avvio di
conflitti su tutte le arene.
"A Trinidad, dopo aver inutilmente tentato di chiamare gli indigeni presso
la nave mostrando degli oggetti, Cristoforo Colombo cerca di attirarli
improvvisando una 'fiesta'. Cosi' scrive nel diario: - Feci salire sul
castello di poppa un tamburino che suonava e alcuni ragazzi che ballavano,
pensando che si sarebbero avvicinati a vedere la festa. La risposta degli
indigeni non si fa attendere: - Appena ebbero sentito suonare e visto
ballare, lasciarono i remi e posero mano agli archi e li incoccarono e
ciascuno di essi imbraccio' il suo scudo e incominciarono a tirarci frecce"
(10).
Lo stesso evento e' letto e interpretato attraverso le diverse "cornici
culturali" di cui ciascuno e' parte, perche' assorbite fin da bambino
all'interno della propria comunita': la danza e' segno di festa all'interno
di una cornice e dichiarazione di guerra nell'altra. Le cornici sono percio'
le "premesse implicite" attraverso le quali diamo senso, operiamo nel mondo
e ci relazioniamo con gli altri, dandole per scontate. Al loro interno vi
sono diversi piani di profondita' decrescente in cui ciascuno illumina e
indirizza l'altro:
a) il piano ontologico dei valori;
b) il piano delle rappresentazioni e delle norme;
c) il piano dei comportamenti e delle pratiche culturali (11).
Ma nelle relazioni interculturali fermarsi al comportamento agito c),
decodificandolo reciprocamente secondo i propri piani a) e b) significa
condannarsi all'incomunicabilita' e poi all'ostilita'.
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Shock culturali ed empatia
Come per altre tipologie di conflitti, anche in quelli interculturali - sia
che ci troviamo coinvolti direttamente sia che operiamo come terze parti
(perche' insegnanti, educatori, operatori sociali o operatori di pace...) -
per lavorare alla loro trasformazione costruttiva, e' necessario tenere
presenti i tre elementi necessari della trasformazione dei conflitti:
empatia, creativita' e nonviolenza (12).
Nel caso degli incidenti interculturali - eventi critici definiti anche
shock culturali - particolarmente importante, e anzi indispensabile punto di
partenza, e' l'empatia, non solo come elemento caratterizzante la
"personalita' nonviolenta" (13), ma soprattutto come, diciamo cosi',
approccio epistemologico alla relazione: ossia disposizione a mettersi dal
punto di vista dell'altro, a provare a guardare le cose dalla sua
angolazione culturale.
Avere un approccio empatico all'altro, al differente da noi, ci consente
infatti di avviare un processo di apertura e ampliamento della conoscenza
che si sviluppa attraverso tre tappe:
- Prima tappa: prendere coscienza dalle nostre cornici
Le coordinate culturali nelle quali siamo immersi fin dalla nascita (e che
condizionano e influenzano i comportamenti e le pratiche) ci appaiono come
naturali fino a quando non veniamo a contatto (o in conflitto) con altre
coordinate e cominciamo a capire che, queste come quelle, sono un prodotto
complesso di elaborazione storica. Sono una cornice che da' senso agli
avvenimenti del mondo, analogamente a quanto fanno le cornici di cui sono
portatori gli altri.
Percio' l'incontro con il differente da noi ci consente di conoscere meglio
noi stessi.
- Seconda tappa: avviare il decentramento cognitivo
A questo punto comincia il superamento dell'egocentrismo - che Piaget indica
come fase transitoria del bambino piccolo, che e' in grado per esempio di
comprendere chi e' straniero per lui ma non che anche lui e' straniero ad
altri, e che invece sul piano culturale si prolunga, a volte, per tutta la
vita e puo' diventare ideologia (etnocentrismo) - e si da' l'avvio al
decentramento cognitivo. Ossia alla capacita' di leggere gli eventi anche a
partire da codici culturali differenti dai nostri, "uscendo" in qualche modo
dalla nostra cornice.
Percio' l'incontro con il differente da noi aiuta ad aumentare il proprio
campo visivo.
- Terza tappa: operare per "doppie visioni"
Infine siamo pronti, all'interno di un incidente culturale piccolo o grande
che sia, ad operare non per semplice azione-reazione (aut-aut) ma per doppie
visioni (et-et), cercando di dare all'evento critico diverse
interpretazioni, senza giudizio di valore, per comprenderne le ragioni a
partire dalle differenti cornici di riferimento.
Due litiganti vengono portati davanti ad un giudice conosciuto da tutti per
la grande saggezza. Il giudice, dopo aver ascoltato il primo litigante,
commenta: "Hai ragione". Poi, sentito anche il secondo, anche a lui
dichiara: "Hai ragione". Si alza uno dal pubblico che esclama: "Ma
Eccellenza, non possono aver ragione entrambi". Il giudice ci pensa su un
attimo e poi, serafico: "Hai ragione anche tu".
A commento di questa storiella Marianella Sclavi scrive: "il senso comune e
la logica classica ci dicono che se tutti hanno ragione non si e' piu' in
grado di decidere niente, si rimane bloccati. Questo e' vero quando operiamo
in 'sistemi semplici' entro i quali prevalgono le stesse premesse implicite.
Invece nel dialogo interculturale e piu' in generale nella gestione creativa
dei conflitti l'assumere che tutti hanno ragione e' la condizione per fare
dei passi avanti" (14).
Percio' l'incontro con il differente da noi e' un'indispensabile tappa verso
la ricerca della verita'.
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Stereotipo, pregiudizio, discriminazione
Un ostacolo che puo' bloccare il processo di empatia cognitiva, impedendo
cosi' di operare efficacemente alla trasformazione dei conflitti
interculturali con creativita' e nonviolenza, e' il processo che dalla
"categorizzazione" porta allo stereotipo e poi al pregiudizio e alla
discriminazione.
Vediamo velocemente di che si tratta.
I manuali di psicologia sociale spiegano che classificare alcune persone
come "stranieri" e' parte di quel processo di categorizzazione cognitiva in
base al quale gli individui ordinano e semplificano l'insieme dei dati che
proviene dal mondo esterno, al fine di dare senso alla multiforme realta' e
poter agire al suo interno. Parte integrante di questo processo sono i
meccanismi di "semplificazione" e "distorsione percettiva": vengono
enfatizzati i dati che consentono di inserire un elemento in una determinata
categoria (mentre sono depotenziati quelli che porrebbero difficolta'
d'inserimento) in modo da realizzare per ciascun dato della realta' il
"miglior adattamento" possibile. Per l'inserimento nella categoria
"straniero", per esempio, si enfatizza - tra le altre cose - la non
conoscenza della lingua italiana, minimizzando le differenti competenze
linguistiche di ogni singolo "straniero". Naturalmente la costruzione delle
categorie non e' neutra ma avviene all'interno del processo di apprendimento
sociale delle cornici culturali, per cui siamo portati a leggere il mondo
attraverso le categorie proprie della nostra cultura di riferimento.
Quando ad una categoria sociale si attribuiscono poi determinate
caratteristiche - a partire dalla conoscenza diretta o indiretta di qualche
membro di essa che e' portatore di quella caratteristica, estendendola
quindi a tutti i membri della categoria e infine a ciascuno di essi - si
schematizza e cristallizza una realta' in movimento, creando lo stereotipo.
E' questa una forma di scorciatoia cognitiva, la generalizzazione, che ci
induce a considerare ciascuno non in quanto persona singola ma solo come
membro del gruppo di appartenenza.
Si parla poi di pregiudizio quando allo stereotipo si aggiungono giudizi di
valore accompagnati da emozioni, che rimangono inalterati anche di fronte a
nuovi elementi di conoscenza. Come spiega Aluisi Tosolini: "se riteniamo,
pregiudizialmente, che ad un dato gruppo di persone ben si attaglia
l'etichetta di 'ladri' (per esempio i rom), ben difficilmente cambieremo
opinione di fronte a persone che in tutta evidenza si comportano in modo
difforme dal nostro pregiudizio. E se proprio non riusciamo a reggere la
dissonanza cognitiva generata da un comportamento impensato (per esempio un
ragazzo rom che ci insegue per restituirci il portafoglio perso o la borsa
dimenticata) possiamo fare ricorso alla logica dell'eccezione. Che, al
solito, conferma la regola" (15).
Quando dallo stereotipo e dal pregiudizio si passa all'azione conseguente
ecco che entriamo nel campo della discriminazione vera e propria,
individuale, e/o sociale e/o politica. E gli esempi nella storia e nella
cronaca non mancano (16).
*
Nonviolenza e mediazione culturale
Nel contesto italiano attuale non siamo ancora giunti a forme di
discriminazione propriamente detta, almeno diffusa in dimensioni socialmente
significative, percio' l'intervento nonviolento nei conflitti interculturali
puo' ancora essere considerato di carattere preventivo.
Se infatti utilizziamo come strumento di analisi il triangolo dei conflitti
di Galtung (17),
[La figura qui inserita nel testo rappresenta un triangolo che ha come punto
di vertice "B comportamento" e come punti angolari alla base "A
atteggiamento" e "C contraddizione", ed e' tagliato a meta' da una linea
orizzontale denominata "linea della latenza"]
vediamo che i tre elementi che compongono tutti i conflitti (diversamente
combinati a seconda che si tratti di conflitti semplici o complessi, con due
o piu' attori ecc.), sono A) l'atteggiamento, ossia la disposizione e i
presupposti anche individuali, C) la contraddizione, ossia il contenuto, il
problema, e B) il comportamento (in inglese behavior), l'azione messa in
pratica. Gli elementi A e C sono latenti, ossia spesso non emergono con
evidenza, mentre l'elemento B e' manifesto.
In questa delicata fase di trasformazione sociale e culturale del nostro
paese, i conflitti interculturali sono caratterizzati da una forte presenza
dei due elementi conflittuali latenti: gli atteggiamenti, per esempio sui
piani della categorizzazione, dello stereotipo e del pregiudizio, e le
contraddizioni, rappresentate dai molti incidenti/shock culturali. Sono
dunque presenti, in maniera crescente, entrambi i presupposti di base
necessari per far compiere ai conflitti il balzo - piu' spesso di quanto
ancora non avvenga - dal piano della latenza a quello del comportamento, che
potrebbe manifestarsi anche in forme di discriminazione e violenza. Se a
queste condizioni infatti aggiungiamo il martellamento sempre piu'
assordante sul pericolo islamico che svolgono parte degli intellettuali,
della stampa e del mondo politico e specularmente la propaganda jihadista
che si diffonde anche in alcune moschee italiane, che armano gli animi di
sentimenti xenofobi e guerrafondai da un lato e violenti e fondamentalisti
dall'altro, e' evidente che lo scenario della diffusione di comportamenti
violenti sulle diverse scale - dalla discriminazione sui banchi di scuola,
al razzismo culturale, al terrorismo suicida - puo' farsi sempre piu'
concreto, anche in Italia. La partecipazione italiana alla guerra e le
organizzazioni terroriste internazionali buttano intanto benzina sul
fuoco...
Per questo e' importante intervenire con la nonviolenza prima che cio'
accada, e bisogna, come direbbe Danilo Dolci, fare presto (e bene).
In questo senso un'esperienza che, a mio parere, andrebbe fortemente
ri-lanciata, ri-motivata e sostenuta e' quella dei mediatori culturali.
Attualmente si tratta di una incerta categoria professionale, poco numerosa,
con una formazione insufficiente e spesso usata dai servizi sociali,
educativi e sanitari come mera riserva di interpreti e traduttori. E invece
l'investimento politico e sociale sulla mediazione per la trasformazione dei
conflitti interculturali e' un terreno d'intervento cruciale, al fine di
rendere meno traumatico, per quanto possibile, l'inevitabile passaggio alla
societa' trans-culturale. Consentendo di operare inoltre sul serio in
funzione della sicurezza di tutti, che e' data non dalle severe leggi
repressive ma dalle buone pratiche relazionali.
Si tratta di formare molti piu' mediatori proprio tra i giovani delle
diverse comunita' culturali e nazionali presenti nelle nostre citta', e nei
loro percorsi di studio bisognerebbe inserire specificamente la nonviolenza,
come filosofia e metodo di lettura e trasformazione dei conflitti. Si
tratterebbe di farne quei "costruttori di ponti, saltatori di muri,
esploratori di frontiera, veri e propri 'traditori della compattezza etnica'
che pero' non si devono mai trasformare in transfughi", secondo il profilo
"professionale" che tracciava Alex Langer (18). In questa direzione qualcosa
si comincia a muovere a livello di master universitario (19), ma e'
insufficiente. Cio' di cui c'e' bisogno e' una moltiplicazione delle persone
e dei luoghi capaci di sostenere la mediazione interculturale nel basso;
capaci di costruire ponti, tessere reti e ricostruire relazioni interrotte
tra le persone e le comunita' negli interstizi sensibili dei molti territori
locali segnati dai conflitti, dentro le nostre citta' e i nostri quartieri.
Insomma l'"aggiunta nonviolenta" alla prevenzione e mediazione dei conflitti
interculturali, nei livelli micro e meso-sociale, si prospetta come un
contributo ideale e metodologico alla costituzione di un corpo civile
interculturale di mediatori esperti in trasformazione nonviolenta dei
conflitti.
*
Schema n. 1
a) Piano ontologico e dei valori:
- appartenenza religiosa
- concezione della vita/della morte
- miti di fondazione
- sfera pubblica/privata
- autorita'/liberta' individuale
- solidarieta'
- tabu' e pudore
- concezione della natura
b) Piano delle rappresentazioni e delle norme
- modalita' di apprendimento e di comunicazione
- rapporto tra oralita' e scrittura
- diritti e doveri degli individui: leggi codificate e tradizioni
- concezione del tempo, spazio, corpo
- rappresentazione di malattia e salute
- concezione della famiglia
- relazioni interpersonali: uomo e donna, anziani e giovani, genitori e
figli
- concezione del lavoro, dei beni e del denaro
c) Piano dei comportamenti e delle pratiche culturali
- messaggi verbali
- messaggi non verbali
- linguaggio del corpo
- modalita' di occupare lo spazio
- modalita' di gestire il tempo
- modalita' di stabilire relazioni interpersonali; saluto, contatto,
distanza...
- elaborazione di progetti individuali
- strategie di apprendimento
- cibo, abbigliamento, segni esteriori...
[Da Graziella Favaro, Manuela Fumagalli, Capirsi diversi. Idee e pratiche di
mediazione interculturale, Carocci, Roma 2004]
*
Schema n. 2
Radiografia di un pregiudizio negativo
Quando vedi uno zingaro:
- penso: sporco e ignorante, mi vuole fregare (componente cognitiva)
- sento: paura (componente emotiva)
- attuo: cambio marciapiede, scappo (componente comportamentale)
Sequenza realizzata: stereotipo, pregiudizio, discriminazione
[Da Da Analisis y resolucion de conflictos interculturales, Assoc. Amani.
Ed. Popular, Madrid 1995, in italiano in: Io non vinco tu non perdi, Unicef,
Roma 2004]
*
Note
1. "Il gazzettino on line", sabato 16 luglio 2005.
2. "Cem-Mondialita'", febbraio 2004, dossier: Pace nel pluriverso, pace e
cultura profonda.
3. "Verso un'ecologia dei conflitti. Gregory Bateson e la gestione
pedagogica delle differenze", pubblicato nel volume di Gian Luigi Brena (a
cura di), Etica pubblica ed ecologia, Edizioni Messaggero, Padova 2005.
4. "Cem-Mondialita'", febbraio 2004, dossier: Pace nel pluriverso, pace e
cultura profonda.
5. Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, oggi si puo'
leggere su "Azione nonviolenta", giugno 2005.
6. Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, Conflitti e mediazione, Bruno
Mondadori, Milano 2004.
7. Ivi.
8. Paul Watzlawick et alii, Pragmatica della comunicazione umana,
Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971.
9. Duccio Demetrio, Graziella Favaro, Didattica interculturale, Franco
Angeli, Milano 2002.
10. Cit. in Giuseppe Mantovani, L'elefante invisibile. Alla scoperta delle
differenze culturali, Giunti, Firenze2005.
11. Vedi nel dettaglio i diversi piani nello schema n.1.
12. Vedi Johan Galtung, La trasformazione nonviolenta dei conflitti, Ega,
Torino 1998.
13. Vedi Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta, Ega, Torino 1996.
14. Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori,
Milano 2002.
15. www.pavonerisorse.it/intercultura/pregiudizio.htm
16. Vedi schema n. 2.
17. Johan Galtung Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 1996.
18. Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, cit.
19. Per esempio il master in "gestione dei conflitti interculturali e
interreligiosi" dell'Universita' di Pisa.

giovedì 1 aprile 2010

E' uscito il numero di aprile 2010 di "Azione nonviolenta",
rivista del Movimento Nonviolento, fondata da Aldo Capitini nel 1964,
mensile di formazione, informazione e dibattito sulle tematiche della
nonviolenza in Italia e nel mondo.

In questo numero:
. La crisi della democrazia nelle mani dei giovani,
di Mao Valpiana;
. Più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo,
di Pasquale Pugliese;
. Emergenza Democratica. Libertà a rischio,
de I Comitati Dossetti;
. Il percorso di demolizione della nostra Repubblica,
di Grazia Villa;
. La vergogna di un popolo che preferisce il forte al giusto,
di Elsa Morante;
. Il Liberalsocialismo antidoto al fascismo,
di Daniele Lugli;
. Il Movimento Nonviolento aderisce alla Marcia Perugia-Assisi del 16/05/10,
a cura della redazione;
. Tu sprechi, io digiuno. Una settimana per il disarmo,
di Amedeo Tosi;
. Mondi e linguaggi diversi si incontrano in un libro,
di Maria G. Di Rienzo.

Le rubriche:
.Economia.
Cerco un lavoro bello da morire, a cura di Paolo Macina;
.Educazione.
Costruzioni complesse di identità cellulari, a cura di Pasquale Pugliese;
.Osservatorio internazionale.
Progresso e sviluppo producono militarismo e povertà globali, a cura di Caterina Bianciardi e Ilaria Nannetti;
. Per esempio.
Una stanza piena d'amore per i bambini in ospedale, a cura di Maria G. Di Rienzo;
. Cinema.
Raccontare una buona novella, la storia del figlio dell'Uomo, a cura di Enrico Pompeo;
. Libri.
Raccontare e ascoltare storie di guerra, di vita, di musica, a cura di Sergio Albesano;
. Granello di senape.
La religione di Gandhi in ricerca del Dio-Verità, a cura di Enrico Peyretti;
. Musica.
No al nucleare! Lo si pu anche cantare, a cura di Paolo Predieri;
. Il calice.
Grazie a questo vecchio corpo, a cura di Christoph Baker;
. Giovani.
Mica per gioco! Campo estivo 2010, a cura di Elisabetta Albesano.

In copertina:
Costituzione della Repubblica Italiana
In seconda: Indice
In terza di copertina: Materiale disponibile .
In ultima: Lultima di Biani, Oh ma siete duri eh

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A Reggio Emilia è possibile acquistare copie di 'Azione nonviolenta' presso l'Infoshop di Mag 6, in via Sante Vincenzi.