venerdì 16 aprile 2010

Conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire: "più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo" (Alex Langer)

di Pasquale Pugliese

(articolo pubblicato su "Azione nonviolenta", aprile 2010)

Le relazioni interculturali, che sono prima di ogni altra cosa relazioni tra persone che fanno riferimento a valori, norme e pratiche costruite in contesti e cornici culturali differenti, portano con sé un gradiente ineliminabile di conflittualità, dovuto alla co-esistenza su uno stesso territorio di stili di vita in parte – reciprocamente - differenti. E poiché queste relazioni – che accompagnano da sempre la storia dell’umanità - caratterizzano anche l’attuale varco della società italiana, rendendola sempre più complessa, è necessario oggi più che mai elaborare saperi diffusi capaci di sostenere le relazioni conflittuali, mettendone a valore l’arricchimento reciproco, al di là degli elementi di scontro. Se ciò non avviene, il dato conflittuale diventa predominante, fagocita tutto il resto e genera diffusione di paure, di insicurezza e quindi di razzismo. E il razzismo, una volta innescato si fa pian piano sistema e si sviluppa sui vari livelli della discriminazione: quello “culturale” e mass mediatico, quello normativo e legislativo e infine quello direttamente agito sui corpi dei migranti, in un circuito in cui le varie dimensioni si alimentano e rinforzano reciprocamente. E questo è proprio ciò che sta avvenendo in questa fase in Italia.
Perciò, parafrasando san Paolo (e citando Joan Galtung, che individua i tre elementi necessari per operare la trasformazione dei conflitti), a proposito dei saperi oggi indispensabili, potremmo dire: "queste sono le cose che rimangono: la nonviolenza, la creatività e l’empatia, ma (nei conflitti interculturali) tra tutte la più importante è l’empatia".

L’empatia per una convivenza dialogica
La filosofa Laura Boella, nel suo interessante lavoro sul "Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia" (Raffaello Cortina Editore, 2006) così definisce questo sapere: "l’empatia è l’atto attraverso cui ci rendiamo conto che un altro, un’altra, è soggetto di esperienza come lo siamo noi: vive sentimenti ed emozioni, compie atti volitivi e cognitivi. Capire quel che sente, vuole e pensa l’altro è elemento essenziale della convivenza umana nei suoi aspetti sociali, politici e morali. E’ la prova che la condizione umana è una condizione di pluralità: non l’Uomo, ma uomini e donne abitano la Terra". Questo atto è possibile solo attraverso l’incontro con l’altro, scoprendosi inevitabilmente dentro la relazione. E la Boella alcune pagine più avanti aggiunge: "l’emozione dell’ incontro è questo: lo sconvolgimento, lo stupore, la sorpresa derivanti dal nascere di una ricerca destata dall’apparizione dell’altro". Naturalmente, quanto più l’altro è altro, differente e portatore di differenze, tanto maggiore sarà lo sconvolgimento e tanto più sarà necessario operare una "ricerca", ossia apprendere a praticare l’empatia. Che, detto con una metafora corrente, significa mettersi nei suoi panni, "mettersi nei panni dell’altro".
Ma anche nell’empatia vi sono diverse gradazioni: c’è un livello massimo che coincide con la santità come praticata dal poverello di Assisi, Francesco, che sveste i suoi panni di ricco borghese e di cavaliere armato, per vestire - realmente - i panni degli altri del tempo, "i minores", i più poveri (e con questi nuovi panni può andare anche a trovare un altro altro, il sultano d’Egitto); o un livello di pari grandezza che è quello di Gandhi che sveste progressivamente i panni di avvocato dell’Impero britannico per cucire - realmente - e vestire i panni degli altri, della moltitudine dei poveri indiani. Ma all’interno delle relazioni interculturali non a tutti è chiesto di eguagliare questi livelli massimi di empatia: è sufficiente provare ad uscire dalle proprie cornici culturali, a decentrarsi dal proprio egocentrismo (o “egotismo”, come direbbe Aldo Capitini), cercando di guardare il mondo anche con gli occhi degli altri. A capire, e rispettare, il loro punto di vista sulle cose, anche se molto distante dal nostro. Ciò corrisponde alla 3^ regola dell’”arte di ascoltare”, delle sette proposte da Marianella Sclavi: "se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva" ("Arte di ascoltare e mondi possibili", Bruno Mondatori editore, 2003). Anche se non parla la tua lingua ed ha una prospettiva completamente differente. Nasce da qui la possibilità dell’unica convivenza possibile nel tempo della globalizzazione, della complessità e dei conflitti, quella che Ramin Jahanbegloo (autore di "Leggere Gandhi a Teheran". Marsilio 2008) chiama la "convivenza dialogica".

Guardare gli altri senza empatia
Altrimenti, senza il filtro relazionale dell’empatia, l’incontro con gli altri, piuttosto che convivenze dialogiche, genera l’avvio di quei meccanismi di difesa ed esclusione studiati dagli psicologi sociali (vedi per esempio di Giuseppe Mantovani "Intercultura". Il Mulino 2004 e "L’elefante invisibile". Giunti 2005) che portano dalle categorizzazioni mentali agli stereotipi, dagli stereotipi ai pregiudizi e dai pregiudizi alla discriminazione, cioè al razzismo. Senza scomodare le vicende più tragiche e terribili della storia del ‘900, che hanno avuto come motore proprio le ideologie fondate sul razzismo, questa narrazione dell’incontro non empatico con gli altri è possibile trovarlo nel cuore stesso delle società democratiche:
"generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche de legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra di loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini sempre anziani invocano pietà con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro…"
Questo testo di circa un secolo fa (citato da Marco Aime in "La macchia della razza". Ponte alle Grazie 2009), non parla degli albanesi o dei rumeni o dei rom, bensì degli italiani visti dall’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso degli USA nel 1912. Ma lo sguardo privo di empatia, tendente a costruire un modello umano altro, alieno, inchiodato alla sua “naturale” ed irriducibile differenza, senza alcun tentativo di com-prensione delle ragioni che fondano agiti e comportamenti presenti in tutti processi migratori, è lo stesso con il quale vengono sbrigativamente riassunti oggi in Italia i tratti degli “extracomunitari” e dei “clandestini”, parole passpartout e offensive volte, più che a definire i migranti, a segnalarne l’essenziale “alienità” e minacciosità.
Ciò non è dovuto solo al tradizionale “provincialismo” della società italiana, che adesso si scopre multiculturale ma impreparata sui saperi della complessità, bensì risponde ad una precisa strategia mediatica che fa della costruzione ed alimentazione della paura un business politico: più la gente ha paura più è alimentato il suo bisogno di sicurezza, che viene venduto dalla destra egemone sul mercato del consenso elettorale. E’ la strategia della paura, che per vivere ed alimentarsi ha bisogno della definizione di una riconoscibile minaccia interna.

La costruzione della minaccia interna: due ricerche
La strategia della paura prevede la costruzione quotidiana dell’insicurezza attraverso quella che il “Terzo rapporto sulla sicurezza in Italia” ( realizzato da Demos per la Fondazione Unipolis, in collaborazione con Osservatorio di Pavia), presentato nello scorso gennaio dal suo coordinatore Ilvo Diamanti, definisce la “bolla dell’insicurezza mediatica”, di cui se ne possono apprezzare i contorni mettendo a confronto i telegiornali italiani ed europei:
"dal confronto sulla criminalità tra i principali telegiornali pubblici e privati europei di Italia,
Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna nel periodo 2008-2009 si ricavano alcune significative peculiarità :
− la quantità di notizie relative alla criminalità in Italia è superiore a quella degli altri paesi
europei, soprattutto nelle reti pubbliche. Il Tg1 ha il doppio di notizie del Tg spagnolo e
venti volte in più rispetto al telegiornale tedesco;
− la pagina della criminalità in Italia è costante, l’agenda dei telegiornali francesi, inglesi,
tedeschi e spagnoli non rileva la presenza quotidiana di notizie criminali. L’agenda di quelli
italiani, invece, prevede almeno due notizie di criminalità tutti i giorni;
− la copertura mediatica della criminalità “comune” è una peculiarità dei telegiornali
italiani; nei telegiornali degli altri paesi europei, notizie di furti, rapine, incidenti
automobilistici non trovano rappresentazione, viceversa in quelli italiani i reati comuni
occupano circa il 60% di tutta la pagina dedicata alla criminalità".
(si può scaricare una versione sintetica della ricerca dal sito www.demos.it)
Per cui, seppur i reati contro la persona in Italia sono in costante calo da molti anni, la percezione diffusa è che vi sia invece un pericolo costante in agguato per tutti e per ciascuno all’interno delle nostre città. Il passo successivo nella strategia della paura è identificare nei migranti i soggetti portatori della minaccia. I quali, nelle rappresentazioni mediatiche non hanno volto e voce, non esistono, se non quando possono essere identificati come devianti e/o coinvolti in fatti di cronaca nera. Questo si evince chiaramente da un’altra indagine, la “Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani”, di qualche settimana anteriore alla precedente (dicembre 2009), a cura della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma, diretta da Mario Porcellini, che nell’introduzione tra le altre cose scrive:
"il ritratto delle persone straniere immortalato dai media si può così riassumere: è spesso un criminale, è maschio (quasi all’80%) e la sua personalità è schiacciata sul solo dettaglio della nazionalità o della provenienza “etnica” (presente spesso nel titolo delle notizie). (…) L’immigrazione viene raramente trattata come tema da approfondire e, anche quando ciò avviene, è accomunata alla dimensione della criminalità e della sicurezza. Anzi, la congiunzione e sovrapposizione del fenomeno migratorio e della sicurezza appare il paradigma interpretativo privilegiato dai media nei loro racconti delle attuali dinamiche in atto nel contesto italiano (…) Le parole, dunque, contribuiscono a tematizzare la presenza degli immigrati in Italia con un riferimento forte alla minaccia costituita dagli stranieri alla sicurezza degli italiani".
(si può scaricare una versione sintetica della ricerca dal sito www.unhcr.it)
La saldatura di insicurezza e migrazione nella percezione diffusa dell’opinione pubblica è dunque il lievito del razzismo.

Più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo
Che fare di fronte a questa strategia della paura che, attraverso la costruzione di una identificabile minaccia interna, fonda in Italia un sistema razzista sempre più ramificato ed articolato? Insieme alle necessarie lotte antirazziste a fianco delle vittime della discriminazione, Alex Langer ci indica la strada di un vero e proprio “programma costruttivo”, che fonda i saperi della con-vivenza, ossia della relazione empatica e dialogica tra differenti: "conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire". In mancanza di strumenti mediatici positivi altrettanto potenti di quelli che diffondono insicurezza e paura, è solo attraverso la conoscenza diretta della realtà e delle persone in carne ed ossa che in essa vivono che è possibile ridimensionare, e forse infine bucare, la “bolla mediatica” che ne dà una rappresentazione distorta e minacciosa. Solo conoscendosi, incontrandosi, comunicando e facendo delle cose insieme, si scoprirà che l’altro è prima di tutto un essere umano e che nessuno (se non i fondamentalisti di qualunque latitudine, padana e no) ha un’identità unica, ferma e irriducibile, ma tutti – personalmente e collettivamente - siamo in evoluzione verso una nuova civiltà, che come tutte le precedenti sarà meticcia. "La convivenza", scrive Langer a commento del terzo punto del “Decalogo per la convivenza inter-etnica”, "offre e richiede molte possibilità di conoscenza reciproca. Affinché possa svolgersi con pari dignità e senza emarginazione, occorre sviluppare il massimo possibile livello di conoscenza reciproca. “Più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo”, potrebbe essere la controproposta allo slogan separatista"…e razzista.

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