domenica 8 gennaio 2012

E' tempo di disarmo, culturale e militare




"...il rifiuto della guerra è per l'Italia e per tutti
una via d'uscita dalla difesa di posizioni insufficienti,
strumento di liberazione,
prova suprema di amore,
varco a uomo, società e realtà migliori."1
Aldo Capitini

"...non è realistico affannarsi per la pace
se non procediamo
a un disarmo della cultura bellica
nella quale viviamo.
E continueremo a perseguirla
se non ne prendiamo atto."2
Raimon Panikkar

Una premessa storica
Gennaio è un mese importante per la nonviolenza.
Il 30 gennaio del 1948 viene assassinato Mohandas K. Gandhi.
Quattro anni dopo, il 30 gennaio del 1952, Aldo Capitini organizza in Italia, nella sua Perugia, il primo "Convegno internazionale per la nonviolenza", in cui invita, tra gli altri, la collaboratrice di Gandhi, Asha Devi. Nel Convegno fu decisa la costituzione di un "Centro di coordinamento per la nonviolenza". Sull'attività svolta dal Centro Capitini ne scriverà alcuni anni dopo in questi termini: "soprattutto il Centro intendeva promuovere un'azione popolare di esposizione sulla nonviolenza, oltre riunioni di studio e convegni di sviluppo dell'idea; e si impegnava a stabilire collegamenti tra tutte le forze della nonviolenza nel mondo". Fu infatti l'avvio di un decennio di incessante lavoro, locale, nazionale e internazionale, che avrà come esito "popolare" la Marcia della Pace per la Riconciliazione dei popoli del 24 settembre 1961. Ma "una marcia", scriverà ancora Capitini, "non è fine a se stessa; continua negli animi, produce onde che vanno lontano, fa sorgere problemi, orientamenti, attività1".
Infatti, il 10 gennaio 1962, sui muri di Perugia è affisso il manifesto con la seguente dichiarazione: "Dopo la Marcia della pace per la fratellanza tra i popoli che si è svolta da Perugia ad Assisi domenica 24 settembre, si è costituito il MOVIMENTO NONVIOLENTO PER LA PACE, al quale aderiscono pacifisti integrali che rifiutano in ogni caso la guerra, la distruzione degli avversari, l'impedimento del dialogo e della libertà di informazione e di critica.
Il Movimento prende iniziative per la difesa e lo sviluppo della pace e promuove la formazione di Centri in ogni luogo".
Cinquant'anni dopo, grazie all'impegno di Pietro Pinna – primo collaboratore di Capitini nel Movimento Nonviolento - e di molti altri amici della nonviolenza, quell'onda è giunta lontano nello spazio e nel tempo. Fino a noi, qui ed ora.

La politica come continuazione della guerra con altri mezzi
Nel 2012 il tema della "difesa e sviluppo della pace" è ancora urgente come cinquant'anni fa, ai tempi della guerra fredda. E come ai tempi della guerra fredda è urgente la questione corrispondente del "ripudio della guerra" e della sua preparazione, ossia il problema del disarmo.
Da quando, nel 1991, in Italia la guerra è stata di nuovo sdoganata, con la partecipazione attiva di "nostri" contingenti armati alla prima guerra del Golfo, il nostro Paese è impegnato da venti anni in conflitti armati in giro per il mondo, senza soluzione di continuità, chiamate surrettiziamente "missioni di pace". Non solo è tornato prepotentemente in auge, anche in Italia, l'insegnamento di Clausewitz sulla guerra come "continuazione della politica con altri mezzi", ma si è perfino rovesciato nel suo contrario, ossia nella politica come continuazione della guerra con altri mezzi.
Oggi, in Italia siamo nel pieno di una crisi politica, economica e sociale, talmente potente da aver spazzato via quel governo berlusconiano che sembrava irremovibile (ma quanto tempo ci vorrà ancora per liberarci dal berlusconismo?). La situazione finanziaria è sottoposta ormai direttamente alle organizzazioni finanziarie internazionali, di cui il presidente Monti è uno dei principali rappresentanti. Le manovre finanziarie, fatte di tagli alla spesa pubblica e di sacrifici per i ceti popolari, si susseguono per decine e decine di miliardi. Le differenze di classe si allargano enormente, al punto che il 10 % degli italiani più ricchi detiene il 50 % della riccheza complessiva; la povertà, la disoccupazione, l'analfabetismo si allargano in maniera estremamente preoccupante, ma c'è un settore, quello della preparazione della guerra attraverso la crescita e lo sviluppo degli armamenti che non conosce crisi o battute d'arresto. Non solo non c'è l'ombra di un taglio, e di una diversa distribuzione delle risorse in tal modo risparmiate, ma si impegnano le casse dello Stato per folli spese pluriennali, come il programma dei famigerati centotrentuno cacciabombardieri F35, capaci di trasportare testate nucleari, molti dei quali del modello più costoso, a decollo verticale, destinati ad arredare la portaerei Cavour, che li trasporterà minacciosamente in giro per il mondo, in contraddizione con la lettera e lo spirito della Costituzione italiana. Inoltre, affinchè l'operazione non trovi intoppi, per la prima volta nella storia repubblicana, il Ministero della "Difesa" è consegnato direttamente nelle mani dei militari, ad un Ammiraglio in palese conflitto d’interessi, senza più un controllore politico. Insomma, l'economia e la politica sono messi pericolosamente a servizio della guerra.
Intanto, minacciose nubi di una nuova guerra, dagli esiti incontrollabili e di portata anche nucleare, si vanno addensando sul cielo dell'Iran. E non sarebbe la prima volta che una crisi finanziaria internazionale viene "risolta" in una guerra mondiale...

Disarmare la cultura bellica, dissacrare la violenza
Eppure, solo con grande fatica e con una forte pressione dal basso dei movimenti per il disarmo, alcune organizzazioni politiche e alcuni mezzi di comunicazione cominciano timidamente a chiedere ragione di questo assoluto sbilanciamento dell'asse economico/politico del Paese a beneficio delle spesa pubblica militare, della crescita degli armamenti, della partecipazione di contingenti armati a campagne di guerra nel pieno "ripudio" dell'articolo 11 della Costituzione.
La stragrande maggioranza di intellettuali (ma ci sono ancora?), sindacati, partiti – pur indignati contro “la casta” - continua a tacere nei confronti della madre di tutte le caste: il complesso militare-industriale.
E’ come se ormai fossimo talmente immersi in questa nuova "cultura bellica" che non c'è ne rendiamo quasi più conto. La guerra e la sua preparazione, pozzo nero senza fondo che risucchia le migliori risorse economiche del Paese, sono tornati ad essere un dato normale, addirittura "naturale": opporvisi, o semplicemente dissentire, è diventato un tabù. Dunque, proprio questo è l'impegno più urgente nel "varco attuale della storia": la decostruzione della cultura di guerra dominante attraverso un lavoro in profondità volto a disarmarne il credito e la legittimazione.
De resto, è proprio quello che da tempo ci ricordano, nei loro lavori, anche i nostri "nostri" vecchi saggi. Per Johan Galtung "la violenza culturale fa si che la violenza diretta e strutturale appaiano e addirtittura vengano sentite come giuste – o almeno non sbagliate. (...). Il meccanismo psicologico è l'interiorizzazione. Lo studio della violenza culturale fa luce sul modo in cui gli atti di violenza diretta e i fatti della violenza strutturale sono legittimati e perciò resi accettabili nella società. Un modo in cui opera la violenza culturale è il cambiamento del colore morale di un atto dal rosso/sbagliato al verde/giusto, o almeno al giallo/accettabile; un esempio è la giustificazione dell'omicidio per conto della patria a fronte della condanna di quello commesso per conto proprio3". Per Jean Marie Muller "una volta giustificata la violenza, non ci sono più limiti al suo sviluppo. Inoltre, la legittimazione della violenza provoca una reazione a catena per la quale tutte le violenza si trovano legittimate. Così, in definitiva, l'uomo non giudica la violenza per ciò che essa è in realtà, ma secondo la rappresentazione che se ne fa"4. Per Giuliano Pontara "la realtà terribile della violenza viene immancabilmente nascosta e travisata usando un linguaggio asfittico e mistificatorio, un gergo trito, privo di vita e di emozioni. Nel linguaggio dei nazisti l'omicidio di massa era chiamato "soluzione finale", quello individuale dell'esecuzione capitale "trattamento particolare", le camere a gas "installazioni speciali" (...). Nello stesso gergo, i massacri etnici sono "pulizie", i bombardamenti che fanno stragi indiscriminate sono "missioni", le violenze di massa pianificate sono "operazioni", spesso assimilate a fenomeni naturali: "Operazione tuono", "Operazione tempesta del deserto"... Contro questa tendenza il compito della nonviolenza, ricorda Pontara, è opporre la "dissacrazione della guerra moderna, vista come ingiustificabile omicidio di massa pepretato su scala industriale che costa somme sempre più astronomiche"5. Per far questo, ribadisce infine Ekkeart Krippendorff, occorre svolgere "una buona volta, il compito secolare di caratterizzare le forze armate per quello che esse sono oggettivamente e di fatto: l'istituzione più pericolosa e più avversa alla vita, e a un tempo la più dispendiosa, che sia mai stata inventata"6.

Dal disarmo l'apertura alla "rivoluzione permanente"
Questo impegno culturale di decostruzione della cultura di guerra dominante è dunque urgente e necessario, e tuttavia - da solo - non è sufficiente. L'impegno che ci aspetta a cavallo di questo cinquantennio del Movimento fondato da Aldo Capitini è propriamente nonviolento, cioè educativo/formativo e politico insieme. Come avvenuto attraverso la Marcia della Pace e della riconciliazione dei popoli del 25 settembre del 2011 co-promossa dal Movimento Nonviolento, il lavoro incessante per il disarmo culturale non può essere disgiunto da un impegno attivo per la drastica riduzione delle spese militari, per la rinuncia al progetto degli F35, per il rispetto della Costituzione che ripudia la guerra, per la costruzione di un modello di difesa fondato sulla difesa popolare nonviolenta, per la costituzione dei Corpi Civili di Pace, per la difesa, la valorizzazione e lo sviluppo del Servizio Civile Nazionale e, in prospettiva, per il progressivo superamento dell'istituzione militare. Anzi, quanto più forte sarà l'azione politica in questi campi tanto più incisiva ne risulterà la ricaduta culturale e quanto più profondo il lavoro culturale tanto più efficace l'impegno politico.
Per questo è necessario continuare a sostenere attivamente le diverse Reti e Campagne che si occupano di specifici ambiti di azione (Rete italiana disarmo, IPRI-Corpi Civili di Pace, Comitato Italiano Cultura di Pace, Campagna No F35 ecc), ma è necessario anche aiutare Reti e Campagne a ri/leggersi all'interno di un orizzonte comune volto al più complessivo disarmo culturale e militare. In un'apertura reciproca che, almeno in alcuni momenti, sappia anche fare massa critica, capace di aprire varchi significativi nella società della politica e della cultura. Anche attraverso momenti di mobilitazione comune, mettendo per esempio congiuntamente a valore il 2 ottobre, Giornata internazionale della nonviolenza e la Settimana internazionale del disarmo dal 24 al 30 ottobre, caricandole di quella potenzialità politica e comunicativa che finora, separatamente, non siamo stati capaci esprimere.
Certo, il panorama che ha di fronte la nonviolenza organizzata in questo giro di boa dei cinquant'anni è molto complesso. Quella capitiana "rivoluzione permanente" capace di incidere nei vari livelli della realtà-società-umanità è ancora lontana dal dispiegarsi pienamente, eppure assumere la centralità del disarmo culturale e militare è una porta che ne apre molte altre: la rinuncia alle crescenti spese per gli armamenti – a partire dalla rinuncia agli F35 - può liberare risorse per le spese sociali, ma anche per per il Servizio Civile Nazionale; il Servizio Civile rinforzato e valorizzato può realizzare serie sperimentazioni di forme di "difesa civile non armata e nonviolenta", come previsto dalla legge istitutiva, 64/2001; l'avvio di queste sperimentazioni su ampia scala porterebbe all'introduzione concreta e scientifica di un nuovo paradigma nell'affrontare i conflitti, che a quel punto dovrebbe essere preso sul serio anche nei contesti formativi, universitari e scolastici; l'avvio di esperienze educative di trasformazione nonviolenta dei conflitti porterebbe allo sviluppo di una consapevole cultura della convivenza tra le differenze, ma anche al rafforzamento delle capacietà di empowerment e di azione, personale e collettiva, individuale e politica...innescando, man mano, un circuito positivo di trasformazione sociale in senso nonviolento, "varco a uomo, società e realtà migliori".
Utopia? Se Aldo Capitini avesse considerato utopistiche le proprie idee sessanta anni fa e non avesse dedicato loro, incessantemente, tutte le risorse della sua vita, costruendo esperienze tutt'ora vive e attive - come la Marcia della Pace, il Movimento Nonviolento, la rivista Azione nonviolenta - oggi non saremmo qui a parlarne. Il 20, 21 e 22 gennaio a Verona, per i 50 anni del Movimento Nonviolento, festeggeremo e ne parleremo ancora, insieme a tutti coloro che vogliono continuare a dare gambe, energia e intelligenza a questa piccola grande Storia collettiva. La nostra storia.
( http://nonviolenti.org/cms/index.php?mact=News,cntnt01,detail,0&cntnt01articleid=189&cntnt01origid=15&cntnt01returnid=238 )

1. Aldo Capitini, Italia nonviolenta, Centro studi Capitini, 1981
2. Pace e disarmo culturale, Rizzoli, 2003
3. In cammino per la pace, Einaudi, 1962
4. Il principio nonviolenza, Edizioni Plus, 2004
5. L’antibarbarie, EGA, 2006
6. L’arte di non essere governati, Fazi Editore, 2003





domenica 1 gennaio 2012

la disobbedienza civile

Guida pubblicata sul portale Unimondo.org

“Sotto un governo che imprigiona la gente ingiustamente, il vero posto per un uomo giusto è la prigione”. Con queste parole, scritte dopo aver passato una notte in prigione per essersi rifiutato di pagare le tasse in segno di protesta contro la guerra che nel 1846 gli Stati Uniti muovono al Messico, Henry David Thoureau fonda la moderna definizione della “disobbedienza civile”.
Dalla “Marcia del sale” di Gandhi alle lotte per il riconoscimento dei diritti civili degli afro-americani negli Stati Uniti guidate da Martin Luthr King, dalle riflessioni di Hannah Arendt, John Rawls fino a Gene Sharp e, in Italia, dall'impegno per la nonviolenza di Aldo Capitini e Danilo Dolci la disobbedienza e la resistenza civile hanno assunto diverse forme che trovano nella noncollaborazione e nella protesta nonviolenta le modalità che accomunano l’impegno attivo sia per puntare al cambiamento di una legge o di una particolare istituzione nei governi democratici, sia - più radicalmente - per convogliare la mobilitazione popolare nell’opposizione ai regimi dispotici e dittatoriali.

Per la lettura integrale della Guida:
http://www.unimondo.org/Guide/Politica/Disobbedienza-civile/(desc)/show