lunedì 12 aprile 2010

Si scrive sicurezza si legge razzismo. Ecco la politica della paura

di Pasquale Pugliese

(articolo pubblicato su "Azione nonviolenta" n. 7/2009)

Sicurezza. Una parola alla deriva

La parola sicurezza, che tecnicamente significa protezione dai pericoli e dalla paura, ha spesso subito nel linguaggio politico un destino analogo a quello di altre parole (per esempio pace o libertà) che hanno avuto una costante deriva semantica che le ha infine ribaltate nel loro contrario. Creando un danno irreparabile non solo alla lingua, che sarebbe il meno, ma nella pratica delle relazioni umane.
Fino alla caduta del muro di Berlino, nelle relazioni internazionali, si diceva di sicurezza e si intendeva la corsa agli armamenti. Ossia si mascherava dietro alla retorica della sicurezza la follia di una continua escalation nucleare che avrebbe potuto – anziché proteggere le persone dai pericoli – distruggere più volte l’umanità. I blocchi politico-militari contrapposti sono infine crollati nell’89, ma il pericolo nucleare è rimasto ancora oggi incombente sulla testa di tutti. Senza sicurezza per nessuno.
Dopo il 2001, con un altro crollo, questa volta quello delle torri gemelle di New York l’ideologia della sicurezza si trasforma ancora nel suo contrario: nell’alimentazione della paura, derivante non più da un “pericolo rosso” ma da un supposto “pericolo islamico”. Come ciò sia avvenuto in maniera scientifica e deliberata è raccontato, tra gli altri, da Loretta Napoleoni e Ronald J. Bee nel loro libro I numeri del terrore. Perché non dobbiamo avere paura (Il Saggiatore, 2008) che così inizia: “tutti sanno che i terroristi fanno leva sulla paura per raggiungere i loro scopi, pochi però sono consapevoli che i capi di stato ricorrono alla medesima tattica. E non si tratta di un fenomeno nuovo: la politica della paura è una strategia subdola orchestrata per raccogliere consensi, spesso per imporre politiche altrimenti impopolari.” Nel nome della sicurezza, s’intende. E continua qualche pagina più avanti: “il timore di un nemico tanto potente e malvagio è penetrato velocemente nella nostra società e ci ha convinti che in quanto singoli siamo tutti suoi bersagli. Attorno a questa psicosi i politici e i media hanno costruito a tavolino la <>”.
Rinforzata anche da questa incalzante e globale “politica della paura”, in Italia la parola sicurezza ha subito un’ulteriore deriva negativa: è diventata sinonimo di insofferenza, intolleranza, odio ed infine repressione nei confronti degli immigrati. Questa nuova retorica della sicurezza sta segnando i passaggi della costruzione del nuovo razzismo in atto in questo momento in Italia, sia su un piano ideologico che legislativo. Le dichiarazioni dei massimi vertici del governo italiano – amplificate, ribadite e rinforzate dai media di regime - sono infatti altrettanto pericolose dei vari “decreti sicurezza” perché definiscono i contorni di una vera e propria “pedagogia razzista”, che incanala contro i più deboli ed indifesi la “paura liquida” (Bauman) che pervade la vita precaria di molti. E mentre le leggi potranno forse in futuro essere modificate da una diversa maggioranza politica, i danni di questa pedagogia negativa rimarranno a lungo. Del resto non è un fatto nuovo nella storia d’Europa: anche la crisi finanziaria del 1929 fu il pretesto per scaricare su un altro “altro” – gli ebrei – le responsabilità della catastrofe economica, costruire l’ideologia antisemita e, con essa, aprire le porte alla scalata al potere del nazismo.
“Non vogliano un’Italia multietnica” (presidente del consiglio, Berlusconi); con i clandestini “bisogna essere cattivi” (ministro dell’interno, Maroni); sui tram di Milano “posti riservati ai milanesi ed alle persone perbene” (deputato al parlamento, Salvini), perché “Milano sembra una città africana” (ancora Berlusconi): sono solo alcune delle formule utilizzate dai vertici del potere italiano, in queste ultime settimane, per delineare la costituzione materiale razzista del nostro paese – antitetica a quella in vigore - incontrando il favore di una parte consistente (e nel Nord-Est maggioritaria) delle “gente” a cui si rivolgono e da cui - proprio per questo - ricevono il consenso.


La vere “emergenze sicurezza”

Dunque, è proprio il razzismo una della vere “emergenza sicurezza” presenti oggi in Italia, che si aggiunge e, in qualche modo, si salda con le altre vere “emergenze sicurezza”, che mettono seriamente in pericolo la tenuta democratica del nostro paese. Ma di queste il governo non si occupa. O, se lo fa, è – come per il razzismo - per aggravarle.
Proviamo a metterne brevemente a fuoco almeno altre tre.

1. Le mafie
Ormai (come ha scritto nella propria relazione l’ultima Commissione parlamentare antimafia che ne ha redatta una, quella guidata da Francesco Forgiane nella precedente legislatura) in alcune regioni italiane lo Stato ha completamente ceduto il proprio potere alle mafie. Per esempio, in Calabria bisogna constatare che è ormai lo Stato che si deve «“infiltrare” nel tessuto sociale, mentre, viceversa, l’infiltrazione ’ndranghetista nelle amministrazioni pubbliche (Comuni, Asl, Regione) le consente di “controllare” in modo sistematico il flusso economico degli appalti pubblici, della sanità, dei finanziamenti nazionali ed europei». A partire da questo dominio praticamente incontrastato nei territori d’origine, la ‘ndrangheta si proietta con prepotenza nel circuito economico e politico nazionale e internazionale fino a diventare “l’unica organizzazione mafiosa ad avere due sedi; quella principale in Calabria, l’altra nei comuni del centro-nord Italia oppure nei principali paesi stranieri”. Una mafia “liquida” (Bauman) nella sua capacità espansiva e colonizzatrice e nello stesso tempo arcaica nella sua violenza efferata, la cui “diffusione planetaria si accompagna a un’intensificata ossessione per il controllo (militare, politico, amministrativo, affaristico) dei territori di competenza”.
Ma questo terrificante scenario nazionale e questa nostra vera – questa sì - invasione internazionale non è una priorità né sui mezzi di comunicazione né nelle agende della politica.

2. L’analfabetismo
Rispetto a quest’altra emergenza, che come la mafia dovrebbe riguardare il passato remoto del nostro paese ma invece riguarda drammaticamente il nostro presente e il nostro futuro, riporto alcuni stralci di un articolo del linguista Tullio de Mauro pubblicato sul n. 734 di Internazionale del 6 marzo 2008, che analizza l’esito di alcune ricerche internazionali.
“Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un’altra, una cifra
dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare
qualche cifra. Trentatre superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”. E continua, “tra i paesi partecipanti all’indagine l’Italia batte quasi tutti. Solo lo stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori. I dati sono stati resi pubblici in Italia nel 2001 e nel 2006. Ma senza reazioni apprezzabili da parte dei mezzi di informazione e dei leader politici”.
Il razzismo crescente nei discorsi del governo e nei suoi decreti legge, che trova consensi enormi tra le persone che non distinguono tra le vere e le false emergenze sicurezza, non ha forse a che fare con questa condizione di analfabetismo di massa?

3. L’informazione
Ogni anno, il 3 maggio, in occasione della Giornata Internazionale della Libertà di Stampa, l’associazione no-profit statunitense Freedom House (fondata da Eleanor Roosvelt) stila un rapporto sulla libertà di stampa nel mondo relativo a 195 paesi. Di questi i primi 70 sono giudicati “liberi”, i successivi 61 sono “parzialmente liberi”, gli ultimi 64 sono “non liberi”. Per la prima volta, quest’anno l’Italia scivola al 73esimo posto collocandosi tra i paesi “parzialmente liberi”, unico paese dell’Unione Europea. Nel comunicato della Ong si legge, tra le motivazioni, che l’Italia è stata declassata per “le limitazioni imposte dalla legislazione, per l'aumento delle intimidazioni nei confronti dei giornalisti da parte del crimine organizzato e di gruppi dell'estrema destra, e a causa di una preoccupante concentrazione della proprietà dei media”. Se l’Italia fosse un paese libero questo giudizio di un’organizzazione indipendente internazionale sarebbe considerato dall’opinione pubblica un attentato alla democrazia e, in ultima analisi, alla sicurezza dei cittadini, ma poiché siamo, appunto, “parzialmente liberi” anche questa informazione è passata praticamente inosservata.


Solo la nonviolenza può dare vera sicurezza

La continua manipolazione politico-mediatica - che fa buon uso del sostanziale analfabetismo degli italiani e rende l’Italia un paese “parzialmente libero”, oltre che dominato in parte dalla mafia che esportiamo in giro per il pianeta - distoglie l’attenzione dalle vere “emergenze sicurezza” e, attraverso la “politica della paura”, la indirizza contro la presenza degli immigrati, alimentando così un’ulteriore emergenza reale, il razzismo diffuso, fondato sulla precarietà economica ed esistenziale e sulla solitudine delle persone. “La solitudine fa crescere la paura” scrive Marco Aime “e ci inventiamo un nemico comune per credere di essere uniti e solidali” (La macchia della razza, Ponte alla grazie, 2008). La paura dell’altro, in realtà, fa aumentare il senso di insicurezza che crea dell’altra paura in un circuito perverso e senza fine. Che infine genera mostri sociali e politici.
Questo circuito perciò va interrotto, prima che sia troppo tardi.
Ancora una volta credo che la nonviolenza ci possa aiutare. Sia nella lotta contro la legislazione razzista che si sta impiantando in Italia, sia nella costruzione di una pedagogia positiva, rivolta agli adulti ancor prima che ai ragazzi, alternativa rispetto a quella egemonica che sta facendo assumere agli italiani “un volto spietato e crudele, egoista e violento” (Raniero La Valle, Nuovo volto crudele, Rocca, 11/2009).
Rispetto alle forme di lotta, l’obiezione di coscienza e la disobbedienza civile rimangono i principali strumenti di azione per quei cittadini italiani che sentono ancora la responsabilità di opporsi a quanto sta avvenendo nel nostro paese. Ma accanto a ciò bisognerà ricominciare a studiare con attenzione la pratiche dei movimenti per i diritti civili degli afro-americani negli Stati Uniti, guidati da Martin Luther King. E bisogna farlo insieme alle associazioni degli immigrati, prima che l’oppressione generi in essi rassegnazione o contro-violenza.
Contemporaneamente va ripresa con forza la dimensione educativa della nonviolenza, che in Italia ha avuto importanti figure di riferimento in Aldo Capitini, Lorenzo Milani e Danilo Dolci, per ricostruire un tessuto culturale ed antropologico fondato sull’umanità. All’interno del quale la sicurezza, che è un bisogno primario dell’essere umano, sia edificata su quelle solide basi - la forza d’animo, il potere personale e il legame sociale – che stanno a fondamento dell’approccio nonviolento.
Vediamo.
La forza d’animo è alla radice del “satyagraha”, la gandhiana fermezza nella verità, che ha il suo presupposto nella fermezza di sé, ossia in quella forza costruttiva personale che è esattamente il contrario della paura: è il coraggio. La forza d’animo non è una “dote” naturale, ma un apprendimento frutto di un’educazione attenta ai bisogni di ciascuno.
Il potere personale è la capacità di agire e incidere nella realtà; non è riferito al sostantivo “il potere” ma alle declinazioni del verbo “potere”: io posso. Anche il potere personale non è definito una volta per tutte dal destino, ma dipende dalla possibilità data a ciascuno di strutturare una personalità con un buon livello di autostima, di abnegazione, di pazienza e di tenuta. Elementi che consentono di sconfiggere il senso di impotenza di fronte agli eventi.
“La violenza è un potere disintegrativo, mentre la nonviolenza è un potere integrativo”, scrive Michael Nagler, “e può essere appreso” (Per un futuro nonviolento, Ponte alle Grazie, 2005). Infatti, la forza d’animo e il potere personale, fattori di sicurezza personale, generano la sicurezza collettiva nella misura in cui aiutano a costruire il legame sociale, quella dimensione di benessere relazionale che è stata disintegrata dalla violenza sociale e culturale dell’individualismo, dell’odio e, infine, della solitudine. Si tratta dunque di re-imparare a tessere le reti sociali per fare comunità aperte e solidali, che danno sicurezza e forza perché non si fondano sulla paura dell’altro.
Naturalmente siamo solo all’inizio tanto della lotta anti-razzista quanto della ricostruzione di un nuovo modello solidale di società, ma sappiamo che quando si agisce consapevolmente nella direzione giusta i risultati, prima o poi, arriveranno. Come negli USA, dove i giornali riportavano di uno striscione issato a Washington nei giorni dell’elezione del Presidente Obama, in cui c’è scritto: “Rosa (Park’s) si è dovuta sedere perché Martin (Luther King) potesse camminare; Martin ha marciato perché Barak potesse correre; Barak corre perché i nostri figli possano volare”.
Oggi negli USA, domani in Italia.

Nessun commento:

Posta un commento