venerdì 2 aprile 2010

la nonviolenza nel passaggio alla società transculturale

Articolo pubblicato sul numero di ottobre 2005 della rivista "Azione nonviolenta"


Un tragico luglio
Ho scritto le righe che seguono nel tragico luglio del 2005 segnato dai 56
morti degli attentati di Londra e dagli oltre 80 di Sharm El Sheikh (oltre
alle centina di civili iracheni che nessuno ormai conteggia piu'),
dall'evocazione (o sarebbe meglio dire l'invocazione?) sui media dello
"scontro di civilta'" e dalla messa a punto, in un parlamento mai tanto
bipartisan, del giro di vite repressivo ed espulsivo nei confronti degli
immigrati (in specie clandestini) come misura di sicurezza. E dire che il
mese si era aperto con il decennale dell"eccidio di Srebrenica, in cui la
tragedia (7.000 musulmani bosniaci uccisi in cinque giorni dai serbi
cristiani) si era svolta a ruoli invertiti...
Le ho scritte perche' credo che sia un terribile errore lasciarsi chiudere
nella spirale di paura e violenza che tanti cattivi maestri, da una parte e
dall'altra, stanno irresponsabilmente alimentando, in un macabro gioco
globale in cui guerra, terrorismo e repressione si alimentano a vicenda. Mi
pare invece importante fermarsi a riflettere su un elemento decisivo, quanto
trascurato: i quattro attentatori suicidi di Londra erano figli di pakistani
immigrati in Inghilterra all'inizio degli anni '90, gente che ha lavorato
sodo, ha fatto di tutto per integrarsi e si e' costruita una famiglia e una
posizione attraverso una vita dedicata al sacrificio per affermarsi
socialmente. "Gli attentatori suicidi di Londra", come ha scritto a caldo
Khaled Fouad Allam, "sono l'espressione estrema di una generazione
euro-musulmana che e' 'borderline', che non si riconosce ne' nella cultura
dei genitori ne' in quella occidentale. Essendo priva di riferimenti, e'
alla ricerca di un'identita' che rischia di essere offerta solo dai cattivi
maestri del jihadismo" (1). Ossia giovani invischiati nell'escalation di un
personale conflitto interculturale che l'ideologia terrorista ha infine reso
armi viventi.
Insieme all'impegno per il ritiro dall'Iraq delle truppe occupanti - le cui
atrocita' fanno parte dei video di propaganda dell'internazionale del
terrore per il reclutamento dei nuovi "martiri" -, capire che cosa accade
quando persone appartenenti a culture differenti con-vivono sullo stesso
territorio, quali sono i conflitti profondi (anche in senso personale e
temporale) che si aprono, e fare un investimento di idee e di risorse sulla
loro mediazione e trasformazione nonviolenta, penso sia oggi il piu'
importante passo politico e culturale verso la sicurezza di tutti.
Questi appunti vogliono essere un piccolo contributo.
*
Culture e conflitti
Se, come sostiene J. Galtung, gli stadi evolutivi nelle relazioni
interculturali sono quattro - intolleranza, tolleranza o multiculturalismo
passivo (societa' multiculturale), dialogo o multiculturalismo attivo
(societa' interculturale), transculturalismo (societa' transculturale) (2) -
il passaggio dall'uno all'altro non e' lineare ne' indolore.
La societa' italiana negli ultimi quindici-venti anni sta attraversando
un'accelerazione di complessita' dovuta al crescente ingresso di popolazione
immigrata, proveniente dai diversi meridioni ed orienti del mondo, e
l'incontro con persone portatrici di culture altre ha visto diverse
velocita' nel passaggio da uno stadio all'altro delle relazioni reciproche:
in alcuni contesti e situazioni sembra di essere fermi allo stadio
dell'intolleranza, in altri si aprono spazi di dialogo che anticipano la
societa' inter e trans-culturale.
Poiche' le dinamiche globali del sistema-mondo lasciano prevedere una
crescita costante delle presenza di cittadini stranieri sul territorio
italiano, dobbiamo prefigurarci - nonostante le miope legislazione nazionale
e le rozze politiche pseudosecuritarie che incentivano la xenofobia - una
societa' che diventera' nel futuro prossimo progressivamente
trans-culturale, ossia trasformata culturalmente dagli innesti apportati
dalle differenti culture che sempre piu' abiteranno i "nostri" luoghi.
L'incontro tra le differenze e' naturalmente generatore di conflitti, anzi -
come dice bene Giuseppe Bugio - "incontriamo un conflitto ogni volta che
incontriamo una differenza. Conflitto e' un altro nome della differenza"
(3). E poiche' la cultura, come ci ricorda ancora Galtung, rappresenta il
profondo, "il subcosciente collettivo di significati condivisi: le norme che
non passano per il cervello che abbiamo in testa, ma si ancorano piuttosto
al cervello che abbiamo nello stomaco" (4), e' facile prevedere un
inasprimento dei conflitti interculturali che, se lasciati a se stessi, non
governati - ne' mediati ne' trasformati - possono innescare processi
incontrollabili di escalation. Si tratta allora di non nascondere o
sottovalutare o demonizzare i conflitti interculturali, ma di attrezzarsi
per affrontarli e trasformarli affinche' da potenziale terreno di scontro
diventino feconda occasione di incontro.
A questo scopo le culture e le pratiche della nonviolenza mi sembra siano
dotate di strumenti concettuali e metodologici adeguati, sia perche' ormai
affinati sui molteplici fronti dei conflitti (diretti, strutturali e,
appunto, culturali), sia perche' molte delle piu' significative esperienze
di nonviolenza del secolo scorso si sono confrontate proprio con queste
questioni. Gandhi ha elaborato il nucleo fondamentale del satyagraha in
Sudafrica attraverso il confronto con il segregazionismo e poi, una volta in
India, si e' misurato ed e' stato infine sopraffatto dal conflitto tra
islamici ed induisti, e Martin Luther King ha fatto della lotta contro le
leggi segregazioniste negli Usa lo scopo di una vita - solo per citare i
casi piu' noti e paradigmatici. Da noi, Alex Langer, e' stata la voce che
piu' di altre si e' levata come monito a porre attenzione alle questioni
interculturali, anche in relazione all'esplosione della guerra nei Balcani:
"esplosioni di razzismo, sciovinismo, razzismo, fanatismo religioso, ecc.
sono tra i fattori piu' dirompenti e distruttive della convivenza civile che
si conoscano (piu' delle tensioni sociali, ecologiche o economiche), ed
implicano praticamente tutte le dimensioni della vita collettiva: la
cultura, l'economia, la vita quotidiana, i pregiudizi, le abitudini, oltre
che la politica o la religione. Occorre quindi una grande capacita' di
affrontare e dissolvere la conflittualita' etnica" (5).
Percio' e' utile provare a mettere insieme qualche elemento che ci aiuti a
tracciare dei segni nonviolenti di orientamento sul terreno dei conflitti
interculturali, senza alcuna pretesa di organicita'.
*
Le arene dei conflitti interculturali
I conflitti interculturali, proprio perche' rimandano alla dimensione piu'
profonda delle relazioni umane, hanno la caratteristica di potersi
sviluppare sui diversi piani della scala quantitativa e dell'intensita'
qualitativa. Usando la griglia elaborata da Arielli e Scotto (6), possiamo
esemplificare alcune arene dei conflitti interculturali che ci danno il
senso di quanto sia ampio lo spettro delle situazioni che possono rientrare
in questa definizione:
[Segue una tabella che incrocia i dati lungo l'asse verticale secondo le
rubriche: a) Conflitti intra-unita' e b) conflitti inter-unita'; e lungo
l'asse orizzontale secondo le rubriche: 1) Persona (micro), 2) Gruppo
(meso), 3) Societa'/stati (macro); dando luogo a alla seguente disposizione
nel quadrante:
a1: Senso di spaesamento e separatezza tra la cultura di riferimento
familiare e quella di accoglienza che vivono, soprattutto, i bambini e gli
adolescenti di famiglie immigrate.
b1: Forme di pregiudizio e atteggiamenti di discriminazione che attraversano
molte relazioni inter-individuali nei diversi ambiti della vita sociale.
a2: Diffidenza all'interno di alcune comunita' rispetto ai membri del gruppo
maggiormente integrati (o assimilati) alla cultura ospitante.
b2: Tensioni tra comunita' culturali differenti che abitano lo stesso
territorio (es.: scontri tra bande giovanili composte per nazionalita' di
riferimento).
a3: Rivendicazioni civili politiche e sociali da parte delle minoranze
religiose, culturali e nazionali presenti sul territorio dello Stato.
b3: Guerre e terrorismo internazionale interpretate come
Scontro di civilta' (Samuel Huntington), ossia la "profezia che si
autoavvera" (come evidenziano efficacemente Arielli e Scotto, "gli
interventi statunitensi e occidentali nel Medio Oriente vengono sempre piu'
percepiti nei termini dello "scontro tra civilta'", e testi come quelli di
Huntington non si limitano a "chiarire" il fenomeno, ma contribuiscono in
parte a produrlo, perche'' incentivano una cultura dello scontro" (7))]
Apparentemente distinte, le diverse - realistiche - rappresentazioni
proposte hanno un filo che le lega. Per esempio, credo che sarebbe molto
interessante ricostruire la storia del processo di dis-integrazione degli
attentatori suicidi nella metropolitana di Londra, cittadini britannici a
tutti gli effetti. Che esito hanno avuto i diversi conflitti interculturali
che hanno attraversato le loro storie di vita personali?
*
Comunicazione e cornici culturali
"Non si puo' non comunicare" afferma il primo assioma di Watzlawick nella
Pragmatica della comunicazione umana (8). Ossia anche quando la nostra bocca
tace il nostro corpo parla, attraverso la postura, l'espressione del viso,
la vicinanza, la gesticolazione ecc. Nel continuo flusso comunicativo
coesistono, infatti, due livelli di espressione, quello esplicito del
contenuto detto e quello implicito, simbolico, sulla relazione tra i
comunicanti che fornisce le informazioni su come interpretare il contenuto.
E' questa la meta-comunicazione, la cui interpretazione corretta e' la
condizione indispensabile per lo svolgimento di qualsiasi comunicazione
efficace. Al di la' delle diversita' di codici linguistici e' infatti
proprio la diversita' dei codici simbolici che differenzia sostanzialmente
la comunicazione intra-culturale da quella inter-culturale. Come spiega
Graziella Favaro, "nella prima cio' che tutti diamo per scontato in quanto
membri di uno stesso contesto culturale ci aiuta a comprenderci l'un
l'altro; nel secondo caso cio' che diamo per scontato puo' ostacolare o
rendere piu' difficile la comunicazione reciproca" (9). Infatti, ciascuno
dei comunicanti di differente cultura utilizza competenze comunicative
diverse, efficaci e pertinenti nei propri contesti di riferimento, ma
probabilmente inefficaci - inopportuni o disorientanti o addirittura
controproducenti - in altri contesti. E cio' e' spesso causa di piccoli e
grandi "incidenti interculturali" che possono dare luogo all'avvio di
conflitti su tutte le arene.
"A Trinidad, dopo aver inutilmente tentato di chiamare gli indigeni presso
la nave mostrando degli oggetti, Cristoforo Colombo cerca di attirarli
improvvisando una 'fiesta'. Cosi' scrive nel diario: - Feci salire sul
castello di poppa un tamburino che suonava e alcuni ragazzi che ballavano,
pensando che si sarebbero avvicinati a vedere la festa. La risposta degli
indigeni non si fa attendere: - Appena ebbero sentito suonare e visto
ballare, lasciarono i remi e posero mano agli archi e li incoccarono e
ciascuno di essi imbraccio' il suo scudo e incominciarono a tirarci frecce"
(10).
Lo stesso evento e' letto e interpretato attraverso le diverse "cornici
culturali" di cui ciascuno e' parte, perche' assorbite fin da bambino
all'interno della propria comunita': la danza e' segno di festa all'interno
di una cornice e dichiarazione di guerra nell'altra. Le cornici sono percio'
le "premesse implicite" attraverso le quali diamo senso, operiamo nel mondo
e ci relazioniamo con gli altri, dandole per scontate. Al loro interno vi
sono diversi piani di profondita' decrescente in cui ciascuno illumina e
indirizza l'altro:
a) il piano ontologico dei valori;
b) il piano delle rappresentazioni e delle norme;
c) il piano dei comportamenti e delle pratiche culturali (11).
Ma nelle relazioni interculturali fermarsi al comportamento agito c),
decodificandolo reciprocamente secondo i propri piani a) e b) significa
condannarsi all'incomunicabilita' e poi all'ostilita'.
*
Shock culturali ed empatia
Come per altre tipologie di conflitti, anche in quelli interculturali - sia
che ci troviamo coinvolti direttamente sia che operiamo come terze parti
(perche' insegnanti, educatori, operatori sociali o operatori di pace...) -
per lavorare alla loro trasformazione costruttiva, e' necessario tenere
presenti i tre elementi necessari della trasformazione dei conflitti:
empatia, creativita' e nonviolenza (12).
Nel caso degli incidenti interculturali - eventi critici definiti anche
shock culturali - particolarmente importante, e anzi indispensabile punto di
partenza, e' l'empatia, non solo come elemento caratterizzante la
"personalita' nonviolenta" (13), ma soprattutto come, diciamo cosi',
approccio epistemologico alla relazione: ossia disposizione a mettersi dal
punto di vista dell'altro, a provare a guardare le cose dalla sua
angolazione culturale.
Avere un approccio empatico all'altro, al differente da noi, ci consente
infatti di avviare un processo di apertura e ampliamento della conoscenza
che si sviluppa attraverso tre tappe:
- Prima tappa: prendere coscienza dalle nostre cornici
Le coordinate culturali nelle quali siamo immersi fin dalla nascita (e che
condizionano e influenzano i comportamenti e le pratiche) ci appaiono come
naturali fino a quando non veniamo a contatto (o in conflitto) con altre
coordinate e cominciamo a capire che, queste come quelle, sono un prodotto
complesso di elaborazione storica. Sono una cornice che da' senso agli
avvenimenti del mondo, analogamente a quanto fanno le cornici di cui sono
portatori gli altri.
Percio' l'incontro con il differente da noi ci consente di conoscere meglio
noi stessi.
- Seconda tappa: avviare il decentramento cognitivo
A questo punto comincia il superamento dell'egocentrismo - che Piaget indica
come fase transitoria del bambino piccolo, che e' in grado per esempio di
comprendere chi e' straniero per lui ma non che anche lui e' straniero ad
altri, e che invece sul piano culturale si prolunga, a volte, per tutta la
vita e puo' diventare ideologia (etnocentrismo) - e si da' l'avvio al
decentramento cognitivo. Ossia alla capacita' di leggere gli eventi anche a
partire da codici culturali differenti dai nostri, "uscendo" in qualche modo
dalla nostra cornice.
Percio' l'incontro con il differente da noi aiuta ad aumentare il proprio
campo visivo.
- Terza tappa: operare per "doppie visioni"
Infine siamo pronti, all'interno di un incidente culturale piccolo o grande
che sia, ad operare non per semplice azione-reazione (aut-aut) ma per doppie
visioni (et-et), cercando di dare all'evento critico diverse
interpretazioni, senza giudizio di valore, per comprenderne le ragioni a
partire dalle differenti cornici di riferimento.
Due litiganti vengono portati davanti ad un giudice conosciuto da tutti per
la grande saggezza. Il giudice, dopo aver ascoltato il primo litigante,
commenta: "Hai ragione". Poi, sentito anche il secondo, anche a lui
dichiara: "Hai ragione". Si alza uno dal pubblico che esclama: "Ma
Eccellenza, non possono aver ragione entrambi". Il giudice ci pensa su un
attimo e poi, serafico: "Hai ragione anche tu".
A commento di questa storiella Marianella Sclavi scrive: "il senso comune e
la logica classica ci dicono che se tutti hanno ragione non si e' piu' in
grado di decidere niente, si rimane bloccati. Questo e' vero quando operiamo
in 'sistemi semplici' entro i quali prevalgono le stesse premesse implicite.
Invece nel dialogo interculturale e piu' in generale nella gestione creativa
dei conflitti l'assumere che tutti hanno ragione e' la condizione per fare
dei passi avanti" (14).
Percio' l'incontro con il differente da noi e' un'indispensabile tappa verso
la ricerca della verita'.
*
Stereotipo, pregiudizio, discriminazione
Un ostacolo che puo' bloccare il processo di empatia cognitiva, impedendo
cosi' di operare efficacemente alla trasformazione dei conflitti
interculturali con creativita' e nonviolenza, e' il processo che dalla
"categorizzazione" porta allo stereotipo e poi al pregiudizio e alla
discriminazione.
Vediamo velocemente di che si tratta.
I manuali di psicologia sociale spiegano che classificare alcune persone
come "stranieri" e' parte di quel processo di categorizzazione cognitiva in
base al quale gli individui ordinano e semplificano l'insieme dei dati che
proviene dal mondo esterno, al fine di dare senso alla multiforme realta' e
poter agire al suo interno. Parte integrante di questo processo sono i
meccanismi di "semplificazione" e "distorsione percettiva": vengono
enfatizzati i dati che consentono di inserire un elemento in una determinata
categoria (mentre sono depotenziati quelli che porrebbero difficolta'
d'inserimento) in modo da realizzare per ciascun dato della realta' il
"miglior adattamento" possibile. Per l'inserimento nella categoria
"straniero", per esempio, si enfatizza - tra le altre cose - la non
conoscenza della lingua italiana, minimizzando le differenti competenze
linguistiche di ogni singolo "straniero". Naturalmente la costruzione delle
categorie non e' neutra ma avviene all'interno del processo di apprendimento
sociale delle cornici culturali, per cui siamo portati a leggere il mondo
attraverso le categorie proprie della nostra cultura di riferimento.
Quando ad una categoria sociale si attribuiscono poi determinate
caratteristiche - a partire dalla conoscenza diretta o indiretta di qualche
membro di essa che e' portatore di quella caratteristica, estendendola
quindi a tutti i membri della categoria e infine a ciascuno di essi - si
schematizza e cristallizza una realta' in movimento, creando lo stereotipo.
E' questa una forma di scorciatoia cognitiva, la generalizzazione, che ci
induce a considerare ciascuno non in quanto persona singola ma solo come
membro del gruppo di appartenenza.
Si parla poi di pregiudizio quando allo stereotipo si aggiungono giudizi di
valore accompagnati da emozioni, che rimangono inalterati anche di fronte a
nuovi elementi di conoscenza. Come spiega Aluisi Tosolini: "se riteniamo,
pregiudizialmente, che ad un dato gruppo di persone ben si attaglia
l'etichetta di 'ladri' (per esempio i rom), ben difficilmente cambieremo
opinione di fronte a persone che in tutta evidenza si comportano in modo
difforme dal nostro pregiudizio. E se proprio non riusciamo a reggere la
dissonanza cognitiva generata da un comportamento impensato (per esempio un
ragazzo rom che ci insegue per restituirci il portafoglio perso o la borsa
dimenticata) possiamo fare ricorso alla logica dell'eccezione. Che, al
solito, conferma la regola" (15).
Quando dallo stereotipo e dal pregiudizio si passa all'azione conseguente
ecco che entriamo nel campo della discriminazione vera e propria,
individuale, e/o sociale e/o politica. E gli esempi nella storia e nella
cronaca non mancano (16).
*
Nonviolenza e mediazione culturale
Nel contesto italiano attuale non siamo ancora giunti a forme di
discriminazione propriamente detta, almeno diffusa in dimensioni socialmente
significative, percio' l'intervento nonviolento nei conflitti interculturali
puo' ancora essere considerato di carattere preventivo.
Se infatti utilizziamo come strumento di analisi il triangolo dei conflitti
di Galtung (17),
[La figura qui inserita nel testo rappresenta un triangolo che ha come punto
di vertice "B comportamento" e come punti angolari alla base "A
atteggiamento" e "C contraddizione", ed e' tagliato a meta' da una linea
orizzontale denominata "linea della latenza"]
vediamo che i tre elementi che compongono tutti i conflitti (diversamente
combinati a seconda che si tratti di conflitti semplici o complessi, con due
o piu' attori ecc.), sono A) l'atteggiamento, ossia la disposizione e i
presupposti anche individuali, C) la contraddizione, ossia il contenuto, il
problema, e B) il comportamento (in inglese behavior), l'azione messa in
pratica. Gli elementi A e C sono latenti, ossia spesso non emergono con
evidenza, mentre l'elemento B e' manifesto.
In questa delicata fase di trasformazione sociale e culturale del nostro
paese, i conflitti interculturali sono caratterizzati da una forte presenza
dei due elementi conflittuali latenti: gli atteggiamenti, per esempio sui
piani della categorizzazione, dello stereotipo e del pregiudizio, e le
contraddizioni, rappresentate dai molti incidenti/shock culturali. Sono
dunque presenti, in maniera crescente, entrambi i presupposti di base
necessari per far compiere ai conflitti il balzo - piu' spesso di quanto
ancora non avvenga - dal piano della latenza a quello del comportamento, che
potrebbe manifestarsi anche in forme di discriminazione e violenza. Se a
queste condizioni infatti aggiungiamo il martellamento sempre piu'
assordante sul pericolo islamico che svolgono parte degli intellettuali,
della stampa e del mondo politico e specularmente la propaganda jihadista
che si diffonde anche in alcune moschee italiane, che armano gli animi di
sentimenti xenofobi e guerrafondai da un lato e violenti e fondamentalisti
dall'altro, e' evidente che lo scenario della diffusione di comportamenti
violenti sulle diverse scale - dalla discriminazione sui banchi di scuola,
al razzismo culturale, al terrorismo suicida - puo' farsi sempre piu'
concreto, anche in Italia. La partecipazione italiana alla guerra e le
organizzazioni terroriste internazionali buttano intanto benzina sul
fuoco...
Per questo e' importante intervenire con la nonviolenza prima che cio'
accada, e bisogna, come direbbe Danilo Dolci, fare presto (e bene).
In questo senso un'esperienza che, a mio parere, andrebbe fortemente
ri-lanciata, ri-motivata e sostenuta e' quella dei mediatori culturali.
Attualmente si tratta di una incerta categoria professionale, poco numerosa,
con una formazione insufficiente e spesso usata dai servizi sociali,
educativi e sanitari come mera riserva di interpreti e traduttori. E invece
l'investimento politico e sociale sulla mediazione per la trasformazione dei
conflitti interculturali e' un terreno d'intervento cruciale, al fine di
rendere meno traumatico, per quanto possibile, l'inevitabile passaggio alla
societa' trans-culturale. Consentendo di operare inoltre sul serio in
funzione della sicurezza di tutti, che e' data non dalle severe leggi
repressive ma dalle buone pratiche relazionali.
Si tratta di formare molti piu' mediatori proprio tra i giovani delle
diverse comunita' culturali e nazionali presenti nelle nostre citta', e nei
loro percorsi di studio bisognerebbe inserire specificamente la nonviolenza,
come filosofia e metodo di lettura e trasformazione dei conflitti. Si
tratterebbe di farne quei "costruttori di ponti, saltatori di muri,
esploratori di frontiera, veri e propri 'traditori della compattezza etnica'
che pero' non si devono mai trasformare in transfughi", secondo il profilo
"professionale" che tracciava Alex Langer (18). In questa direzione qualcosa
si comincia a muovere a livello di master universitario (19), ma e'
insufficiente. Cio' di cui c'e' bisogno e' una moltiplicazione delle persone
e dei luoghi capaci di sostenere la mediazione interculturale nel basso;
capaci di costruire ponti, tessere reti e ricostruire relazioni interrotte
tra le persone e le comunita' negli interstizi sensibili dei molti territori
locali segnati dai conflitti, dentro le nostre citta' e i nostri quartieri.
Insomma l'"aggiunta nonviolenta" alla prevenzione e mediazione dei conflitti
interculturali, nei livelli micro e meso-sociale, si prospetta come un
contributo ideale e metodologico alla costituzione di un corpo civile
interculturale di mediatori esperti in trasformazione nonviolenta dei
conflitti.
*
Schema n. 1
a) Piano ontologico e dei valori:
- appartenenza religiosa
- concezione della vita/della morte
- miti di fondazione
- sfera pubblica/privata
- autorita'/liberta' individuale
- solidarieta'
- tabu' e pudore
- concezione della natura
b) Piano delle rappresentazioni e delle norme
- modalita' di apprendimento e di comunicazione
- rapporto tra oralita' e scrittura
- diritti e doveri degli individui: leggi codificate e tradizioni
- concezione del tempo, spazio, corpo
- rappresentazione di malattia e salute
- concezione della famiglia
- relazioni interpersonali: uomo e donna, anziani e giovani, genitori e
figli
- concezione del lavoro, dei beni e del denaro
c) Piano dei comportamenti e delle pratiche culturali
- messaggi verbali
- messaggi non verbali
- linguaggio del corpo
- modalita' di occupare lo spazio
- modalita' di gestire il tempo
- modalita' di stabilire relazioni interpersonali; saluto, contatto,
distanza...
- elaborazione di progetti individuali
- strategie di apprendimento
- cibo, abbigliamento, segni esteriori...
[Da Graziella Favaro, Manuela Fumagalli, Capirsi diversi. Idee e pratiche di
mediazione interculturale, Carocci, Roma 2004]
*
Schema n. 2
Radiografia di un pregiudizio negativo
Quando vedi uno zingaro:
- penso: sporco e ignorante, mi vuole fregare (componente cognitiva)
- sento: paura (componente emotiva)
- attuo: cambio marciapiede, scappo (componente comportamentale)
Sequenza realizzata: stereotipo, pregiudizio, discriminazione
[Da Da Analisis y resolucion de conflictos interculturales, Assoc. Amani.
Ed. Popular, Madrid 1995, in italiano in: Io non vinco tu non perdi, Unicef,
Roma 2004]
*
Note
1. "Il gazzettino on line", sabato 16 luglio 2005.
2. "Cem-Mondialita'", febbraio 2004, dossier: Pace nel pluriverso, pace e
cultura profonda.
3. "Verso un'ecologia dei conflitti. Gregory Bateson e la gestione
pedagogica delle differenze", pubblicato nel volume di Gian Luigi Brena (a
cura di), Etica pubblica ed ecologia, Edizioni Messaggero, Padova 2005.
4. "Cem-Mondialita'", febbraio 2004, dossier: Pace nel pluriverso, pace e
cultura profonda.
5. Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, oggi si puo'
leggere su "Azione nonviolenta", giugno 2005.
6. Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, Conflitti e mediazione, Bruno
Mondadori, Milano 2004.
7. Ivi.
8. Paul Watzlawick et alii, Pragmatica della comunicazione umana,
Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971.
9. Duccio Demetrio, Graziella Favaro, Didattica interculturale, Franco
Angeli, Milano 2002.
10. Cit. in Giuseppe Mantovani, L'elefante invisibile. Alla scoperta delle
differenze culturali, Giunti, Firenze2005.
11. Vedi nel dettaglio i diversi piani nello schema n.1.
12. Vedi Johan Galtung, La trasformazione nonviolenta dei conflitti, Ega,
Torino 1998.
13. Vedi Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta, Ega, Torino 1996.
14. Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori,
Milano 2002.
15. www.pavonerisorse.it/intercultura/pregiudizio.htm
16. Vedi schema n. 2.
17. Johan Galtung Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 1996.
18. Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, cit.
19. Per esempio il master in "gestione dei conflitti interculturali e
interreligiosi" dell'Universita' di Pisa.

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